Archivi mensili: Marzo 2007

Ad alzo zero

Ho chiesto all’Einaudi l’ultimo libro di Vitaliano Trevisan, Il ponte – Un crollo, subito dopo avere letto un’intervista allo scrittore vicentino su “Il Venerdì” di Repubblica. In quell’articolo, pubblicato due o tre settimane fa, Trevisan sparava a zero su tutto e tutti, con una lucida rabbia che mi aveva davvero sorpreso. Vorrei essere più preciso, ma purtroppo ho buttato quella copia del giornale.

Non appena ho iniziato a leggerlo ho pensato a due cose. La prima: voglio intervistare Trevisan. La seconda: ho paura di farlo. Non mi capita spesso di avere paura di fare qualcosa: sul lavoro, al massimo, ho avuto una sorta di timore reverenziale nel telefonare o incontrare qualcuno.
E più andavo avanti nella lettura più questi due sentimenti contrastanti aumentavano, alimentandosi l’uno con l’altro.

Il ponte è una sorta di lunga confessione mentale di un uomo, nato a Vicenza, ma che ha lasciato da una decina d’anni l’Italia e tutto lo schifo che la forma. Trevisan, attraverso le sue parole fitte (nella parte centrale del romanzo, più di cento pagine, c’è solo un salto di paragrafo e due “a capo”, alla faccia della presunta “poesia delle pagine bianche” di cui parlavo qualche settimana fa) esprime qualcosa che è più di un generico disprezzo del nostro paese: in fondo, chi è che non si lamenta di come vanno le cose in Italia? La rabbia di Thomas, il protagonista del libro, è diretta e cristallina come quella espressa da Trevisan in quell’intervista, nonostante Thomas parli continuamente di una malattia, che forse lo eleva a diverso e lo stacca dalla massa dalla quale ha tentato di isolarsi fisicamente trasferendosi in Germania. Nel suo lungo monologo, il narratore si interroga sulla scrittura, sulla famiglia, sulla politica, sulla società e sulla cultura italiana, sul suo cedimento ormai definitivo, già preannunciato, con la consueta brillante lungimiranza, da Pier Paolo Pasolini trenta e passa anni fa.
E non è un caso che Pasolini torni come punto di riferimento, come unico possibile interlocutore italiano, oltre a Thomas Bernhard. Ma non “da morto”, bensì da vivo, attraverso le sue parole, che possono essere solo rilette, senza riesumazioni di sorta.
A questo proposito Trevisan fa dire al suo protagonista delle parole lapidarie a proposito della morte, il vero tema centrale del romanzo:

“(…) i morti sono tutti uguali, si è detto, e dunque vanno onorati tutti nello stesso modo, ed è così: i morti sono tutti uguali, ma il giudizio dovrebbe riguardare solo quanto hanno fatto, o non hanno fatto, da vivi. I morti sarebbe meglio lasciarli dormire, e invece essi vengono riesumati e ricomposti di continuo, e usati di continuo per gli scopi più bassi e meschini, col risultato che si continua a raccontare sempre e soltanto la storia di un fallimento dopo l’altro, a cui manca sempre la parola fine, cioè manca sempre un responsabile. In fondo, pensai, è esattamente quello che faccio anch’io. Cercare di dare un senso al mio proprio frammento di presente in quanto presente in cui il passato non smette di crollare (Vitaliano Trevisan, Il ponte – Un crollo, Einaudi 2007, pag. 115)

Ecco l’intervista a Vitaliano Trevisan!

Moviegoers – seconda parte

Ecco il resto dell’album…
Il gatto e la volpe. Qua rischio il politicamente scorretto, ma capita spesso che al cinema di pomeriggio ci siano coppie di anziani che decidano di passare due ore con la settima arte. Uno dei due non capisce assolutamente nulla. Ma niente. L’altro, ma spesso l’altra, deve quindi pazientemente spiegargli ogni passaggio logico. Ma, attenzione, non stiamo parlando del lancio dell’osso di 2001. Intendo cose come: “Allora, li vedi quelli davanti al prete? Lo sposo è quello vestito di nero, la sposa quella vestita di bianco. No, il prete è quello che gli dà le spalle – controcampo – adesso è lo sposo.” Nota bene: se nella coppia lei è una didascalica, ecco spiegati i cinquant’anni di matrimonio.
Continuamente.
Il partecipativo. Un po’ invidio questa tipologia di personaggi, perché sono i più sinceri e pittoreschi. Partecipano al film completamente. Dentro e fuori. Suggeriscono comportamenti, disprezzano tradimenti, motteggiano contenti. Per loro non solo il film è la vita vera, ma gli attori, soprattutto quelli giovani, sono dei gran maleducati, perché non accolgono mai i consigli che arrivano dalla platea. La fine del film è accolta con l’unico momento di silenzio dell’intera proiezione, dovuto al fatto che sono consci che devono tornare alla loro vita di tutti i giorni, dove tutto è uguale, solo che tutti sono un po’ meno belli.
Il cinico. È l’esatto opposto del partecipativo. Se qualcuno muore sullo schermo, il cinico dirà che in realtà non è morto veramente, alzando il sopracciglio. Se due si baciano, lui dirà “lei non lo ama”, ma non con lo spirito che avrebbe il partecipativo, ma riferendosi al fatto che l’attrice che compare in quel momento sullo schermo è fidanzata con un altro noto attore, non con quello che sta baciando. (Nota: il didascalico in questa situazione direbbe lo stesso, soprattutto se quello che viene baciato è un vecchio e ricco magnate e lei ha affisso, nella scena precedente, dei cartelloni con su scritto “È tutta una finta, voglio solo i suoi soldi.”)
Mercoledì 10 gennaio 2007, cinema Capitol, Casino Royale. Alla scena della tortura di 007, l’uomo seduto dietro di me ha obiettato che Craig Daniels non si stava davvero prendendo delle mazzate sulle palle. Ma forse l’ha detto per esorcizzare quel senso di disagio che tutti gli spettatori maschi stavano provando in sala in quel momento.
L’atleta. Per definizione non sta mai fermo. Appoggia il braccio dietro, sullo schienale, si alza sulla sedia, si abbassa, mette la gamba a cavalcioni sul bracciolo, poi le accavalla, poi si poggia sui gomiti, poi rannicchia le gambe sotto il sedere. Tutto questo durante la proiezione del primo trailer.
Andando io al cinema di pomeriggio, dove di solito ci sono soprattutto persone anziane, per ovvi motivi è da molto tempo che non vedo un atleta. Di solito si radunano nelle proiezioni dei teen movie al sabato sera.
Il tecnologico. Il cinema, per questo tipo di spettatore, è noioso: la sua soglia di attenzione dura dai quindici ai venti secondi, poi deve tirare fuori il cellulare e ritoccare un mms con la versione mini di Photoshop, mentre manda un messaggio e si fa una playlist sull’iPod. Al cinema il tecnologico si nota subito: intorno a lui c’è un bagliore azzurrino quasi mistico, lievissimo eppure simpatico a coni e bastoncelli, tanto da attirare inevitabilmente gli occhi altrui nel raggio di cinquecento metri.
Lunedì 9 ottobre 2006, cinema Capitol. Un ragazzino tre file più avanti ha mandato sms per tutto il tempo, utilizzando un cellulare il cui “volume tasti” era a dodici. Ma non mi sono arrabbiato, visto che il film era Blood Diamond. Anzi, ho sperato tirasse fuori una PSP per mettermi a giocare con lui.
E infine, un esemplare più unico che raro, che va oltre la categorizzazione qui sopra. Non ricordo la data, ma ero di nuovo all’Odeon. Il film era Arrivederci amore ciao. Occhio, spoiler. Il protagonista sta per avvelenare la sua giovane moglie con un piatto di linguine al pesto: il film sta per finire, è un momento di grande tensione. Dietro di me, una signora di mezza età esclama, con voce contrita: “Ah, ma si vede che quegli spaghetti sono scotti!”

Moviegoers – prima parte

Dopo anni di frequenza di sale cinematografiche di qualsiasi tipo e a qualsiasi ora, sono pronto per mostrarvi la mia collezione di figurine di spettatori cinematografici, con tanto di riferimenti precisi, quando la memoria me lo consente.

Il mangiatore. Non stiamo parlando di gomme da masticare o rotelle di liquirizia, ma di persone che, in condizioni normali (non, per intenderci, in festival in cui non c’è neanche il tempo di andare in bagno), usano il cinema per banchettare. I cibi, di solito, sono contenuti in recipienti la cui foggia è irrilevante, ma che hanno come caratteristica comune l’essere rumorosi. Sacchetti di patatine che, accartocciati e scartocciati, sovrastano esplosioni in Dolby Surround, bottiglie che si aprono e sparano aria compressa, barattoli che da soli riempirebbero di ritmo un sambodromo. Il mangiatore si sente protetto dal buio della sala. Non appena si spengono le luci, apparecchia e inizia a mangiare. Quando l film finisce, apparentemente non rimane traccia del pasto, fino a che uno, sedutosi per assistere allo spettacolo successivo, si trova un osso di pollo conficcato nell’anca.
Bologna, cinema Odeon, poco fa, proiezione di Proprietà privata: un mangiatore ha tirato fuori una Schweppes Tonica, un tupperware e ha intervallato il tutto mangiando delle ignote pasticche da un blister. Ovviamente rumorosissimo.

Il dormitore. Di nuovo, non stiamo parlando di chi si abbiocca all’ennesimo capolavoro del cinema orientale, ma di chi pare vada al cinema per dormire. Di solito sono uomini anziani, che credo vogliano fuggire di casa. Non appena le luci si abbassano, il dormitore entra nella fase del primo sonno, appena il film inizia, parte il russìo, il climax narrativo concide con la fase REM. Niente sveglia il dormitore: è l’ambiente che gli concilia il sonno, una poltrona scomoda non fa differenza, e lui, beato, si addormenta nonostante quindici casse gli sparino nelle orecchie voci, musica, urla. Probabilmente in casa stanno peggio.
Praticamente ad ogni film della mia vita, con una maggiore incidenza nelle proiezioni stampa mattutine e serali della Mostra del Cinema. Ma nonostante questo, puntualmente l’Illustre Dormitore sfornava, il giorno dopo, il suo bel pezzo da Quotidiano.

Il didascalico. Avendo impellente bisogno di commentare qualsiasi cosa, ma con il terrore di sbagliare, il didascalico, appena vede i titoli di testa, inizia a recitarli, con intonazioni diverse. Ascendente se non conosce il nome sullo schermo, discendente se lo conosce. Considerate che di solito il didascalico non ne sa moltissimo di cinema. Questo tipo non si accontenta, però, di commentare i titoli: adotta questo atteggiamento per tutto il film. Quindi se l’attrice si alza, dirà “Si è alzata”, se l’antagonista muore ne decreterà il decesso con la precisione di un medico legale, eccetera eccetera.
Prima, come nel primo esempio, stesso posto, stesso film. Inizia il film, con la scritta “Una produzione Tarantula”. La didascalica – variante maestra in pensione – si affretta a comunicare all’uditorio che si scrive “tarantola”, con la “o”.

L’investigatore. Anche l’investigatore commenta, ma con attinenza specifica ad un particolare secondario del film. Se c’è un’esplosione noterà che un piccolo tiglio in basso a destra viene spazzato via, se due amoreggiano, capirà dalla sveglia sul comodino di lui se si tratta di un amplesso mattutino, pomeridiano, serale o notturno, e così via.
Giovedì 22 novembre 2006, anteprima de Il labirinto del fauno al cinema Capitol. La piccola protagonista del film sta per entrare in un pericoloso anfratto di un tronco. L’investigatore seduto accanto a me dice alla sua ragazza, riferendosi a qualcosa sulle radici dell’albero: “Soccia, mo guarda che fungo enorme c’è là! Mo cos’è, un porziino?”

continuail

The Policy

Cari Sting, Andy e Stewart,

vi scrivo per comunicarvi la mia felicità per la vostra reunion. Nel mio programmino voi eravate i protagonisti di una delle mie prime monografie, e ho capito che la vostra musica è ancora amata da tanti. Cinque dischi belli e poi, basta. No, giustamente, dico, che non vi venga in mente di incidere un altro album, va bene così. Anzi: vi riunite proprio per il puro gusto di suonare, di stare su un palco a divertirvi. E così, ne sono sicuro, divertirete anche il vostro pubblico. Sì, è vero, voi guadagnate un botto di soldi, e noi ne pagheremo altrettanti, ma mica lo fate per quello, no? Se no ve ne uscivate anche con un bel dischetto… Ma, ripeto, va bene così, non fatelo, va bene così.

Mi piacerebbe essere uno del vostro pubblico, e vedere un vostro concerto, insomma, i Police dal vivo! Ehm, solo una cosa, per sicurezza. Niente strumenti barocchi a comporre nuovi arrangiamenti, eh. O cori a fare il controcanto. No, dico a Sting. Niente disco nuovo, soprattutto. L’ho già detto? Bene. Dicevo, mi piacerebbe essere uno di voi, anzi, lo sarò, però, ecco, volevo chiedervi un piccolo favore. So di parlare non solo a nome mio, ma sono io a chiedervi in prima persona di inserire gentilmente di inserire una data del tour in Italia, che poi, insomma, è anche un po’ il vostro paese, no? Sì, dico a Sting. Che ne so, tra il 19 settembre e il 10 ottobre non siete pienissimi di concerti, magari, una tappa… Ah, che non vi salti in testa di chiamare uno qualunque dei vostri amici musicisti qui in Italia, nessuno. Sul palco, intendo. Sul palco a suonare. Con voi. Solo voi tre, belli, così, uno davanti, non troppo, non troppo, due dietro, ecco.
No, vi chiedo questa cosa della data per un motivo personale. Non vorrei trovarmi un giorno, anziano, a raccontare ad un mio nipote (?), le mie gesta di giovine. E a dire con voce tremante: “Sai, ho preso addirittura la Ryan Air e, zac, come un lampo sono andato a vedere i Police a Birmingham, e poi sono tornato…” Già vedo il mio scarso uditorio scomparire davanti a me, grazie al teletrasporto, lasciando come unica traccia nell’aria una frase: “Che palle, nonno, tu, la reunion dei Police e questa storia dei voli low-cost.”

Fate il possibile, quindi. A presto,

Francesco

P.S. Se fate “Mother” dal vivo potete chiamare Rob Zombie, a cantarla, o Trent Reznor. Ma, mi raccomando, niente disco.

Il viaggiatore costretto

Chiaramente, uno si lamenta, et voilà, arriva un libro scritto in lingua italiana – anche se non scritto da un’italiana – che fa gridare al miracolo. Si chiama La mano che non mordi ed è opera di un’albanese di neanche quarant’anni, che ha vissuto dal 1990 in poi in diversi paesi d’Europa, Italia compresa, Ornela Vorpsi.
Quando ci sono altri autori che mandano alle stampe centinaia di pagine, di cui almeno la metà sono inutili, e altri autori che scrivono libri piccolissimi che sono ancora più piccoli, viste le numerose (e poeticissime) pagine bianche che intercorrono tra un capitolo e l’altro, la Vorpsi riesce a colpire e aggrapparsi all’anima del lettore in meno di 90 pagine, con un romanzo che non ha una trama vera e propria, ma che sprigiona tutto tra le righe. Quando dico tutto, intendo veramente ogni cosa, dai profumi agli stati d’animo, dal dolore all’infanzia, dai sapori di casa ai detti della nonna. Senza dimenticare la Storia, quella più vicina e dimenticata, che riguarda i Balcani e i loro innumerevoli conflitti.
La protagonista del libro si sposta da una parte all’altra d’Europa, fisicamente e con i pensieri, da Parigi a Milano, da Roma a Sarajevo, e viaggia nel suo tempo, nell’intimità del ricordo, riuscendo ad essere personale senza essere privata, e parlando di tutti i popoli balcanici senza citarli e senza pretese di ecumenismo.
Quello che risalta è il continuo senso di spiazzamento: non c’è uno dei personaggi che incontriamo nelle pagine del libro che sta dove deve stare. E’ proprio questa sensazione di vagabondaggio forzato e perenne, che prima di tutto l’autrice ha vissuto sulla sua pelle, di spostamento, di viaggio senza essere viaggiatori (come si dice nell’incipit del libro), che emerge nella scrittura della Vorpsi. Si sente il disagio di non essere a casa propria e il senso di estraneità quando si torna a casa dall’Occidente ricco, la fatica di trovare la lingua giusta per comprare dei dolci e il senso di inadeguatezza e di non appartenenza a quei sapori e odori, che pur rimangono nella memoria.
E il tutto, badate bene, viene solo suggerito, attraverso una lingua mobile, dinamica e agile, che tuttavia evita ogni forma di sperimentalismo “tanto per fare”.
Siamo noi occidentali ad essere rappresentati nel romanzo come una massa indistinta, rovesciando una prospettiva che ci vede spesso parlare di “altri” con sostantivi collettivi o terze persone plurali. Ecco quindi che la Vorpsi fa storia, capovolgendo un punto di vista, e, attraverso i numerosi personaggi albanesi, bosniaci, serbi che incontriamo nelle pagine del libro, ricordandoci che la polveriera balcanica, scoppiando, ha creato una vera e propria diaspora, spargendo brandelli delle sue popolazioni ovunque in Europa.
Un grande, grandissimo libro.

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