Archivi mensili: Marzo 2022

Dagli archivi: Sulle tracce del terzo uomo (Frederick Baker, 2004)

Innanzitutto dividiamo voi lettori in due parti: chi ha visto Il terzo uomo e chi non ha mai visto il capolavoro di Carol Reed del 1949. No, non vale il solo sapere a memoria la famosa frase degli “orologi a cucù” di Orson Welles: è roba da bignami del cinema. Allora, chi l’ha visto si può mettere comodo sulla poltrona dei buoni, chi non l’ha visto se lo procuri. Bene, ora possiamo continuare.

Il film di Carol Reed è uno dei più belli del Ventesimo secolo, d’accordo? Questo lo si capisce anche solo seguendo la storia, scritta da Graham Greene, mica uno qualsiasi, e interpretata da Joseph Cotten e Alida Valli. Ma lo si comprende ancora meglio con Sulle tracce del terzo uomo, un documentario scritto, diretto e prodotto da Frederick Baker per la BBC. In realtà è il contenuto del documentario a essere prezioso, non tanto la sua forma: state pensando a un azzardo, a una messa in scena particolare? Tutt’altro.

Baker torna a Vienna, dove è ambientato il film, con Guy Hamilton (allora aiuto regista) e Angela Allen (la segretaria di edizione) a fare da guide. Dopo qualche considerazione da anziano in gita (“Com’è cambiata la città”) si cambia prospettiva e, grazie alla voce fuori campo del regista Carol Reed e a interviste a Greene e altri personaggi, si torna a un documentario classico. Dopo un po’, però, si cambia di nuovo rotta, accennando a uno dei produttori del film, quel David O. Selznick che, in quegli anni, era un altro modo di dire “Hollywood”. Si parla allora dei contrasti tra la produzione inglese (sotto la responsabilità di un altro grande, Alexander Korda) e quella statunitense? Sì, ma per poco: dopo avere rivelato che sia l’uno che l’altro si sparavano anfetamine sei giorni su sette per lavorare, lavorare, lavorare, si passa a un nuovo argomento, ancora una volta. L’argomento è Orson Welles, detto anche Citizen Kane, dal titolo del film su cui ancora campava. Scopriamo, per modo di dire, che Welles fa mille bizze: si presenta in ritardo sul set, dopo avere giocato a rimpiattino con la produzione tra Roma e Parigi. Poi scopre che deve girare nelle fogne e le fa ricostruire a Londra. Infine improvvisa letteralmente il breve monologo che voi, seduti sui ceci sotto il cartello “cattivi”, avete cercato di giocarvi come carta “io Il terzo uomo l’ho visto”. Che beffa, eh, che le battute più famose del film siano le uniche non scritte da Greene…

Insomma, di carne al fuoco ce n’è tantissima, in questo documentario: non ultima la considerazione che, in effetti, Reed è riuscito a “unire” il coevo neorealismo italiano, grazie all’uso di set reali e comparse prese dalla strada, con quel gusto neoespressionista ben sottolineato dalla strepitosa fotografia di Robert Krasker, grazie alla quale quest’ultimo vincerà un Oscar. Il problema è che tutto questo materiale è raccontato in maniera eccessivamente discontinua, spezzettata e singhiozzante. Un peccato, davvero.

E ora, tutti a ripassare Il terzo uomo.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel marzo 2011

Dagli archivi: Billy, ma come hai fatto? (Volker Schlöndorff, 1992)

Ogni tanto capita di leggere in giro sondaggi sul migliore film di tutti i tempi: i risultati cambiano, come è ovvio, di anno in anno e di generazione in generazione. Quando si parla, però, di “miglior commedia”, c’è un titolo che ricorre più degli altri, quello del celeberrimo A qualcuno piace caldo, del 1959, con Jack Lemmon, Tony Curtis e Marilyn Monroe. Alla regia uno dei più grandi del cinema hollywoodiano: Billy Wilder. È proprio il regista di origini austriache, scomparso nel 2002 a quasi 95 anni, la figura al centro di questo documentario costituito, fondamentalmente, da una serie di lunghe interviste realizzate dal regista tedesco Volker Schlöndorff.

Nelle quasi tre ore di film, Wilder è sempre prodigo di racconti e aneddoti: parla volentieri dei suoi film, ma pochissimo di sé. Un modo di fare, questo, che gli ha permesso di lavorare bene anche con attori difficili: “Non dovevo essere un padre per loro”, dichiara uno che, vera rara avis a Hollywood, è rimasto sposato per cinquant’anni con la stessa donna.

È un’etica del lavoro (e forse anche della vita) molto teutonica quella che pervade Wilder: scrivere una buona sceneggiatura (ne ha firmate una settantina) è un compito da svolgere seguendo determinate regole, così come lo è girare un film. Ma non c’è freddezza nelle sue parole, il regista comunica entusiasmo, divertimento, ironia e leggerezza in ogni frangente di queste lunghe chiacchierate multilingue. Sì, perché i due comunicano tra loro passando dall’inglese al tedesco anche all’interno di una sola frase, come a voler sottolineare lo straordinario misto di solidità delle origini e sogno americano che davvero costituiscono la personalità di Wilder.

Billy, chiamato così dalla madre dopo che aveva fatto un profetico viaggio negli Stati Uniti, si forma infatti nella Berlino dei meravigliosi anni ’20. Il cinema della UFA, per il quale lavora, è importantissimo, ma non meno del cabaret e del teatro. Schlöndorff scopre insieme a noi che moltissime trame alla base di film eccezionali come L’appartamento erano ricalcate da commedie teatrali viennesi e tedesche, rigorosamente in tre atti. E il cotè di formazione permane in Wilder, anche sotto forma del famoso cartello appeso a una parete del suo studio, che recita: “Come avrebbe fatto Lubitsch?”. La ricerca della semplicità, dell’eleganza e dell’efficacia, il rispetto dello spettatore, la quasi totale scomparsa della macchina da presa: ecco alcune “regole” che espone il regista che Wilder snocciola spesso, per rispondere a una domanda o per esemplificare un suo pensiero, ma sempre con modestia e understatement. Si presta più volte a spiegare il significato e la funzione di un determinato movimento di macchina, o a giustificare uno scambio di battute: sentire la sua voce descrivere sequenze che ci vengono riproposte come “materiale di studio” supplisce alla ovvia mancanza di alcun suo commento nei dvd dei film che ha firmato, gran parte dei quali entrato a pieno diritto nella storia del cinema.

È forse questa la parte più entusiasmante di un documentario girato nella maniera più semplice e diretta possibile: Billy, ma come hai fatto? dà a ognuno di noi la possibilità di assistere a delle vere e proprie lezioni di sceneggiatura e regia. Insomma, si tratta di materiale da proiettare nelle scuole di cinema, da far mandare a memoria a chi vorrà anche solo tentare di lambire le vette conquistate da questo eccezionale cineasta.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel dicembre 2011

Dagli archivi: L’ultima sequenza (Mario Sesti, 2003)

Immaginate uno dei film più famosi, affascinanti, dibattuti e complessi del mondo, 8 e ½ di Federico Fellini. Immaginate che, dai soliti, mitici e magici scatoloni e archivi vengano fuori delle foto di scena che ritraggono gli attori sul set, in una scenografia inedita, quella di un vagone di un treno. Proprio l’ambiente che viene descritto in alcune versioni della sceneggiatura, nelle ultime pagine: scene che, però, non sono mai finite su pellicola.

Ci sono già elementi a sufficienza per un mistero: Mario Sesti, quindi, indaga. Per certi versi, L’ultima sequenza può essere visto come un’inchiesta-documentario in cui l’autore segue un principio logico, quasi da indagine poliziesca, appunto. Ci mostra le centinaia di foto, gran parte delle quali inedite, che Gideon Bachmann ha scattato sul set, e già queste immagini valgono il documentario. Non solo: Sesti intervista attori, tecnici e altri personaggi che, in qualche modo, hanno avuto a che fare con il film. E qui inizia la magia di L’ultima sequenza.

Già, perché molti di questi personaggi, semplicemente, non ricordano la sequenza, esattamente come tanti altri ricordano perfettamente di averla girata. Il documentario, anche grazie all’uso delle voci di Fellini, di Mastroianni e di altri grandi nomi del cinema italiano che non camminano più su questa terra, assume un tono da sogno, onirico, felliniano, appunto. Si torna con la memoria alla sequenza iniziale di 8 e ½, quella in cui Mastroianni fluttua nel cielo legato a una corda: “Ingegnere, venga giù…”

Ci si chiede come sia possibile che, nonostante gli intervistati abbiano lavorato in centinaia di film, non siano certi dell’esistenza o meno della sequenza, o neanche si ricordino davvero di averla girata. C’è quasi un senso beffardo in tutto, anche questo tipicamente felliniano: si dice che il Maestro fosse un tipo divertente, che amava fare scherzi e prendere in giro la gente, oltre che appropriarsi di aneddoti altrui facendoli propri. Lo scopo principale, per Fellini, era l’affabulazione: qualcosa di ben distante da preoccupazioni di veridicità o di “proprietà autoriale”. Il racconto era tutto.

Nel documentario di Sesti, allora, ci troviamo improvvisamente in un film di Fellini: l’oggetto dell’indagine diventa l’indagine stessa. Alla fine dell’ora scarsa di durata ne sappiamo meno di prima sull’ultima sequenza di 8 e ½: o meglio, ne intuiamo i contorni, grazie alle foto di Bachmann e alle testimonianze a favore della sua esistenza; ma allo stesso tempo dubitiamo di quello che abbiamo sentito, quando ricordiamo le parole di chi nega che questa sequenza sia mai stata girata.

L’indagine è finita, non abbiamo appurato la verità, ma abbiamo sentito un sacco di belle storie. E Fellini, da qualche parte, ne siamo certi, se la ride.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel marzo 2011

Dagli archivi: The Fog of War: La guerra secondo Robert McNamara (Errol Morris, 2003)

C’è un nome che ricorre nella storia statunitense della seconda metà del secolo scorso: quello di Robert McNamara, nato nel 1916. Un uomo che ha svolto dei ruoli fondamentali nella politica estera USA e, di conseguenza, negli equilibri mondiali, in uno dei periodi chiave della storia dell’umanità: quello che va dal secondo conflitto mondiale alla Guerra fredda. Ottavo segretario della difesa degli Stati Uniti, si trova a ricoprire il delicato incarico proprio nella prima fase della guerra del Vietnam.

Immaginate ora di avere quest’uomo, laureato ad Harvard, già ai vertici della Ford, presidente della Banca Mondiale, davanti a una videocamera per 30 ore, che parla a ruota libera. Il risultato (ovviamente montato e ridotto a poco più di un’ora e mezzo di lunghezza) è The Fog of War, diretto da Errol Morris nel 2003, che nell’anno successivo ha collezionato una quantità di premi, tra cui l’Oscar come miglior documentario. McNamara parla di fronte alla camera, lo vediamo mentre ascolta dei nastri di conversazioni storiche o mentre è in macchina e risponde alle domande incalzanti di Morris. Spesso il regista lo riprende in primissimo piano, come per cercare i segreti nascosti di quest’uomo, ma, lo dice McNamara stesso, “preferisco essere bastonato per una cosa che non ho detto, piuttosto che dirla.”

Non pensate, però, di vedere un uomo che fa sfoggio di potere e che gioca sulle sue evidenti abilità dialettiche: McNamara, che all’epoca delle riprese ha quasi novant’anni (morirà nel 2009), è pacato, riflessivo, brillantissimo nell’eloquio senza però neanche sfiorare la retorica. Il documentario tocca vertici davvero alti, grazie alla bravura di Morris e con l’aiuto “emotivo” delle musiche di Philip Glass, quando si affrontano i capitoli legati alla figura di Kennedy, il presidente che lo volle al suo fianco. McNamara si commuove e ricorda con intensità una delle crisi internazionali che più fecero tremare i blocchi contrapposti durante la Guerra Fredda, quella della “Baia dei porci”. Quei giorni, raccontati da lui, si trasfigurano in due direzioni opposte: da un lato c’è la sensazione (peraltro reale) di sentire parlare uno che in quel momento era presente e aveva enormi responsabilità. Dall’altro l’episodio diventa quasi una parabola filosofica e politica sul conflitto come concetto storico.

Infatti sono gli eventi bellici a occupare il centro del documentario, che in Italia è uscito non a caso con il sottotitolo La guerra secondo RobertMcNamara. Negli undici capitoli che compongono il film il conflitto è sempre presente, sia quello reale della Seconda guerra mondiale, sia quello più astratto, ma non meno distruttivo, tra ragione di Stato e umana razionalità. Ed è la guerra che vince, alla fine: il sogno di McNamara, anticomunista ma umanista allo stesso tempo, pragmatico e idealista insieme, è svanito. Le conseguenze si leggono sui giornali ogni giorno e rimangono impresse nello spettatore di The Fog of War nell’espressione triste di quest’uomo potentissimo sulla quale si chiude il documentario.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel gennaio 2011

Dagli archivi: Flightplan – Mistero in volo (Robert Schwentke, 2005)

Di Robert Schwentke
Con Jodie Foster, Peter Sarsgaard, Sean Bean, Kate Beahan, Greta Scacchi
Durata 98’
Distribuzione Buena Vista International Italia

La storia: Kyle Pratt, ingegnere aeronautico, sta volando da Berlino a New York con la figlia Julia, insieme alla salma del marito, morto accidentalmente, che deve essere seppellita negli Stati Uniti. Durante il volo la bimba scompare, e Kyle inizia una ricerca, aiutata dall’addetto alla sicurezza di bordo Gene Carson e dai membri dell’equipaggio.

Leggendo la trama e il cast di Flightplan, vengono in mente altri due thriller di ben altro spessore, La signora scompare di Hitchcock e di Panic Room di Fincher. Ma la scomparsa misteriosa di un personaggio in un luogo chiuso, e “Jodie Foster con la figlia in un luogo chiuso” sono gli unici due elementi che aprono e subito esauriscono i paralleli con questa opera seconda del tedesco Schwentke. Flightplan, infatti, è carente proprio nei due punti che hanno fatto la forza dei film citati.

Tipico di Hitchcock è il “mcguffin”, un espediente che innesca e mantiene il meccanismo narrativo, e la tensione che ne deriva. La sparizione di Julie Pratt, così come quella di Miss Froy nel film di Hitchock, vorrebbe funzionare proprio in questo senso, ma non riesce nello scopo. Un difetto non proprio trascurabile di un prodotto che vorrebbe essere un thriller, infatti, è proprio la mancanza quasi assoluta di tensione: ce n’è un accenno nella prima parte, ma poi scema fino al necessario e annunciato colpo-di-scena-di-tre-quarti-di-film. La sceneggiatura, però, non riesce a tenere insieme tutti gli elementi, e quindi la loro soluzione nel finale appare davvero improbabile e forzata.

L’elemento chiave di Panic Room, invece, era lo spazio (cinematografico) e la sua gestione. Le scenografie di Alec Hammond in Flightplan, per quanto convincenti nel mostrarci un enorme aereo di linea a diversi piani, con salotti, salottini, scale e posti per quasi quattrocento persone, non sono sfruttate dalla macchina da presa di Schwentke, che si limita a qualche scolastico virtuosismo con immagini riflesse e superfici lucenti varie. Il senso spaziale è, insomma, annullato, tant’è che ci si dimentica presto di essere in/su un aereo: lo spazio si caratterizza semplicemente come un “luogo dell’azione” anonimo e viene privato di alcun tipo di forza narrativa o di tensione.

L’unico tentativo di opposizione a questo appiattimento progressivo dell’ambientazione del film è dato da alcuni richiami alla situazione dei voli dopo l’undici settembre. Mano a mano che la tensione tenta di crescere, nascono paranoie e razzismi vari tra i passeggeri, che sfociano in un attacco dell’esasperata Kyle nei confronti di un arabo. Ma anche quel tipo di tensione, se sulle prime rischia di trasformarsi in lapidazione collettiva, viene facilmente risolta dall’arabo che tende una mano verso la protagonista, in un finale che più lieto non si può.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, dicembre 2005

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