Archivi mensili: Novembre 2003

Referrers – Gente che cerca altro

Dagli stessi produttori di Neighbours in associazione con Google.com, Virgilio.it, Shinystat e Yahoo!

1. “liquore della corsica a base di castagne”

La cena era pronta. L’avrebbe riconquistata, lo sapeva. Ce l’avrebbe fatta. Aveva preparato tutto, dall’antipasto al dolce. Tutto quello che avevano mangiato quella sera di molti anni fa, in quel paesino corso, era lì pronto per lei. Le cose erano andate male, poi. E non si ricordava nemmeno perché esattamente. Ma si erano rivisti, avevano parlato di quella cena, si erano guardati negli occhi un po’ più di quello che era successo fino a quel momento. Le aveva chiesto: “Vieni a cena da me”. Lei aveva sorriso, era leggermente arrossita, aveva accettato. Lui non poteva sbagliare. Aveva ripassato mentalmente la cena corsa, aveva ricreato tutto.

Poi il dubbio. Cosa avevano bevuto alla fine del pasto?
Non se lo ricordava. Forse lei non avrebbe dato peso alla cosa, ma lui voleva essere perfetto fino al minimo particolare. Come si chiamava quella cosa che avevano bevuto?
Era un liquore di castagne. Ma non sapeva come si chiamava. Aveva provato a chiedere nei negozi, ma senza risultato.

Allora si era messo su Internet, e aveva digitato “liquore della corsica a base di castagne” in un motore di ricerca. Aveva atteso un po’, e aveva trovato un sito strano. Un diario urbano, bla bla bla. Aveva iniziato a leggere qua e là, ma senza trovare il nome del liquore. Aveva trovato qualcosa di incredibile. Nel blog era descritta una cena, nello stesso posto dove erano stati lui e lei. Continuò a leggere. Dimenticandosi delle cose che erano sul fuoco. Lo destò dalla lettura l’odore di bruciato.

Sono andati a cena fuori, quella sera. Le cose tra di loro non sono andate bene. E lui ancora si chiede come si chiami quel liquore. Non lo sa neanche la sua nuova fidanzata.

Storie raccontate da una donna

Qualche giorno fa è uscito Tales of a Librarian, una raccolta di Tori Amos: venti canzoni per ripercorrere dieci anni di carriera, sempre ad alti livelli. Ci sono due inediti, e molti pezzi sono stati remixati e/o registrati ex-novo. Inoltre il disco esce anche con un bonus DVD in cui ci sono alcuni video di Tori durante dei soundcheck e una galleria fotografica, interessante ed emozionante per vedere come la sua immagine sia cambiata durante il tempo (lo show biz…).
Ci si possono fare infinite domande, più o meno taglienti e graffianti su una raccolta, su un gritistitz, che esce, guarda caso, in un periodo caratterizzato dall’acquisto sfrenato (sì, è già Natale). Eppure io credo sia nei tremendi meccanismi, appunto, dello show biz, sia all’onestà artistica di Tori Amos. Vi rinvio quindi a questa interessante intervista, in cui la splendida quarantenne parla a cuore aperto di temi sulla bocca di tutti, magari sfiorandoli appena, ma riuscendo a colpire, con grazia, classe e intelligenza, come al solito.

Ah, l’intervista è in inglese. Ma, ricordando il nostro leader e la sua geniale trovata delle “tre I”, non ci dovrebbero essere problemi, no? Inglese, e vabbè. Internet, e ci siete. E la terza? Qual era? Informazione? Imparzialità? Inettitudine? Vattelo a ricordare. Che Ignoranza.

P.S. Ultimamente questo blog non parla più dei cavoli suoi. Abbiate pazienza, tornerò a tediarvi presto. Nel frattempo faccio finta di essere un blogger serio.

Ra(d)iot

Che dite, la dovrei smettere con questi titoli creativi? Mi servono per esercizio, se mai la poco-nota agenzia di pubblicità dovesse decidersi a chiamarmi…
Continuo ad espletare i miei compiti per casa, e affronto l’argomento Raiot e tutto quello che ne è conseguito.

Come forse sapete, è finito da un’oretta uno spettacolo “sostitutivo” della trasmissione della Guzzanti&Co., che io ho seguito sulle frequenze della mia radio. Lo spettacolo si è tenuto all’Auditorium di Roma ed è stato trasmesso, tramite megaschermi, in molti posti in Italia e, appunto, sulle radio di Popolare Network. Non si è trattato della seconda puntata del programma, che probabilmente mai andrà in onda, ma di qualcosa di più complesso e ricco. Sono intervenuti, tra gli altri, Luttazzi, Grillo, Fo e Rame, addirittura la Mannoia accompagnata al piano da Piovani (!). Oltre allo staff di Raiot.

In molti hanno criticato la prima puntata, che potete trovare qui, dicendo che era un autogol per la sinistra, che non faceva ridere, eccetera. Andiamo con ordine.
Guardo da sempre le trasmissioni della Dandini, dalla TV delle ragazze in poi. E devo notare che, effettivamente, le ultime trasmissioni (diciamo da dopo Tunnel) avevano dei problemi di ritmo, normali nelle prime puntate, ma che potevano infastidire quando si protraevano. Quindi il fatto che la prima puntata di Raiot fosse imperfetta è assolutamente normale. I tempi si affinano volta per volta, e tutto dipende dalle condizioni in cui si crea, si scrive e si può provare uno spettacolo. Non so in che condizioni abbiano lavorato autori e attori, ma non mi sembra un male tremendo.
Dal punto di vista “politico”, invece, mi è sembrato un urlo disperato, ma non di parte. Lo sketch del consiglio comunale di sinistra avrebbe dovuto fare accapponare la pelle a molti compagni, con o senza virgolette. Mi è sembrato un urlo disperato, come se si sapesse già che quella era l’unica e ultima chance per dire delle cose. Non è una cosa bella, me ne rendo conto, ma probabilmente le cose stavano così.
Dario Fo e Franca Rame, e, per certi versi, anche Beppe Grillo, hanno detto che è stato un bene essere censurati, perché così il governo si sputtana. Sono d’accordo, ma fino ad un certo punto.
Idealmente, sarebbe stato strategicamente più efficace iniziare a salire piano piano con i toni, puntata dopo puntata, in modo tale da conquistarsi un pubblico ampio, l’audience nel vero senso del termine, al quale parlare (anche se, diciamolo, la prima puntata ha fatto un bel 18% di share: non male).
Invece è stato scelto il “colpaccio”. Non so se attuare il “piano A” sarebbe stato meglio: forse Raiot sarebbe rimasto un programma di nicchia, di cui parlare “tra di noi”. Così un po’ di rumore c’è stato. Ripeto: non so se questa sia stata la soluzione migliore, entrambe presentano – o avrebbero presentato – pro e contro.

Lo spettacolo di stasera mi ha lasciato con uno strano stato d’animo. Da un lato molto emozionato nel sentire tanta partecipazione e affetto intorno al gruppo. Ma dall’altro la domanda che mi sono fatto (e che mi faccio sempre più spesso) è: quanti siamo? Contiamoci. Quanti siamo veramente? E tutto questo basta?

L’ultimo urlo della Guzzanti (bravissima, lodi e plauso a lei e agli altri) è stato: “Non finisce qua!” Io lo spero, lo spero vivamente. Tutto questo non basta. Sinceramente, e ammetto per primo le mie colpe, non so proprio cosa si possa fare. Boicottare le aziende che comprano gli spazi pubblicitari Mediaset, certo. Firmare questa petizione. Ma soprattutto parlare, parlare, parlare delle cose che questo governo sta combinando. Informandosi e leggendo molto (magari il problema potrebbe essere dove leggere ed informarsi… me ne rendo conto).

Ma non parlarne “tra di noi”, è troppo facile. “Noi” già lo sappiamo che questo Paese sta andando a scatafascio.

I Beatles e la teoria dell'attualismo

Come mi ero ripromesso di fare, parlo dei Beatles. Qualcuno ha sollevato il solito interrogativo: ma Yoko Ono? E molti altri dicono: ma Let It Be… Naked? Partendo da un brano di una mail che scrissi mesi fa ad una cara e splendida fanciulla, tento di dare la mia risposta all’annoso problema. (Scusa, R., se stai leggendo, spero che tu non ne abbia a male.)

Charles Lyell

sostengo che yoko ono abbia rotto i coglioni. ora, questo non vuol dire che lei sia la causa dello scioglimento dei beatles. a questo punto, per spiegarmi, apro una lunga parentesi. io credo profondamente nella teoria dell’attualismo, di lyell, credo. lyell diceva e direbbe tuttora, se potesse, che ogni fenomeno del passato va spiegato con i mezzi del presente. lui, se non sbaglio, si riferiva a grossi cambiamenti geologici del passato. insomma, nessun diluvio universale. bastano terremoti forti, inondazioni forti, eccetera. cosa c’entra questo con i beatles? c’entra. perché, immagina la situazione: quattro pischelli amici che si vogliono bene e vivono praticamente insieme 24 ore su 24. arriva una tipa, uno si innamora di lei. e il tipo in questione, che per mantenere l’anonimato, chiameremo mister x lennon, è piuttosto debole, complesso di edipo irrisolto, oltre che complesso ben avviato. la tipa in questione, che chiameremo per motivi noti mrs y ono, inizia a dire: ma molla quei tre sfigati. e fammi cantare pure a me (questo accade in the continuing story of bungalow bill. lei è quella del coro che stona. e si sente di brutto). considera, inoltre, che i quattro sono piuttosto stressati e pressati, da impegni ed altro. che si fanno un po’, e questo aiuta la creatività, ma non l’equilibrio e la calma. e, dulci$ in fundo, hanno appena deciso, o meglio, qualcuno ha deciso per loro, di fondare un’etichetta, la apple. di cui a loro, tranne ad uno, non interessa minimamente la gestione. (piccolo quiz: chi è l’unico a cui interessa, secondo te?).

per concludere: se uno ti raccontasse questa storia, senza citare i quattro di liverpool, come se fossero quattro ragazzi di verbania, che so, come penseresti andrebbe a finire?
la teoria di lyell (ripeto, non sicuro che sia lui) mi ha convinto ancora di più quando sono andato per la prima volta al festival di venezia, e ho visto grandi attori sospirare, avere dei problemi di stomaco, inciampare, grattarsi. e ho scoperto che anche a nicole kidman, quando suda nelle scarpe da ginnastica, puzzano i piedi.
Ovviamente l’ultima affermazione è frutto di speculazione. No, metti che non si era capito.
E veniamo, adesso a Let It Be… Naked (se non vi dispiace, d’ora in poi LIBN). Già ne ha parlato il mio fratello di parole, e concordo con quello che ha detto. Ci sono recensioni molto buone in rete. La mia, al solito, è un’accozzaglia di riflessioni assolutamente “amatoriali”.
La domanda che mi faccio da quando l’ho comprato è: “Consiglierei a qualcuno di comprare LIBN?” Non lo so. Il punto è che il disco che ha fatto storia è stato Let It Be. Per un gruppo come i Beatles conta anche l’impronta lasciata nella storia, in tutta la cultura occidentale dal 1962 in poi; spesso si tratta di un’impronta perfetta, splendida, netta. A volte non è così. Insomma, LIBN non è il disco da ricordare dei Beatles. Tra tutti i loro dischi, intendiamoci, neanche Let It Be è un disco da ricordare (sebbene tutta la produzione dei Beatles è grandiosa e decisamente oltre il tempo). Diciamo che è una chicca per filologi e appassionati, che quando lo sentono, di solito, godono. Certo, se avessi tanti soldi e dovessi regalare ad una persona che non ce l’ha Let It Be, regalerei anche la nuova versione. Due dischi, anzi, tre.
Altro punto: il bonus disc di LIBN, che viene chiamato Fly On The Wall Disc. Ecco, secondo me è veramente poco utile. Se ne poteva fare a meno. Pezzi di conversazione e pezzi di canzone, per ricordare il clima in cui venne registrato Let It Be. Come se uno ti desse un barattolo con l’odore di un arrosto e ti dicesse: “Ah, però, com’era buono!”
LIBN come una bieca operazione commerciale? Non saprei. Certo che è emozionante sentire “The Long and Winding Road” in questa versione.
Ho fatto una prova. Ho fatto sentire prima la versione della canzone di Let It Be, poi quella di LIBN. La mia amica ha fatto prima “oooh” e poi “ooooooh”.
Emozioni, dopo trent’anni, fresche e frizzanti. Anche per questo i Beatles sono grandi e li amo.

Trailer

Vorrei scrivere un po’ di più su questo blog. Ma mi sto rilassando e sto facendo una solitaria battaglia personale contro la legge Fini sulle droghe. Faccio… una sorta di resistenza passiva continuata, diciamo. O qualcosa del genere. E su, che avete capito.
Quindi, ecco alcuni appuntini, disordinati, sparsi, sconnessi.

  • fra qualche ora si laurea F. e andrò a fargli le feste: ma prima mi comprerò il nuovo disco di Tori Amos. Anche la mia adorata è caduta nella trappola del greatesthits? Basteranno i due inediti e il dvd a giustificare l’uscita di un disco? E basteranno i soldi o quelli della banca verranno a casa mia per spezzarmi i pollici?
  • è uscito Let It Be… naked dei miei amati Beatles: ne ho parlato lunedì in radio, e ho fatto sentire dei pezzi, ma vorrei scriverne qui. Seguendo le orme fraterne… Discorso complesso, quello sul disco dei Beatles, liquidato un po’ troppo in fretta, anche nei blog che leggo;
  • devo assolutamente mettere a posto il template del blog: è una schifezza, me ne rendo conto. Se n’è accorto più di qualcuno, e ringrazio per suggerimenti, testate mandate (non nel senso che hanno mandato quelli della banca a prendermi a testate: poco elegante, non trovate?) e quant’altro. Rimane il fatto che a smanettare col template sono uno schifo;
  • sono riuscito a perdere Raiot, domenica (stanchezza, resistenza passiva di cui sopra), ma grazie a qualcuno sono riuscito a recuperare le puntate in rete, le ho scaricate e me le sono viste. Subito dopo ho mandato a raiot@rai.it una mail, in cui semplicemente esprimevo la mia solidarietà per la prevedibile e avvenuta cancellazione “provvisoria” del programma. Se fossi un buon blogger trovereste qua i link per scaricare anche voi le puntate. Se. Inoltre in molti hanno liquidato un po’ bruscamente la puntata. Dirò la mia. Forse;
  • le avventure di Neighbours vi hanno entusiasmato? Dagli stessi produttori, in associazione con ShinyStat, presto la nuova serie: The Referrers. Gente che cerca altro. Ma non preoccupatevi: se non dovesse piacere potrà essere sospesa “provvisoriamente”.

E così mi sono dato i compiti per casa.

Io e Carver

Sono emozionato. Scrivo quando ho finito di vedere da pochissimo un documentario sul “poeta, scrittore di racconti, saggista” americano, edito in un cofanetto insieme al libro Io e Carver di Tess Gallagher, sua moglie e molto di più, nonché scrittrice anch’essa. La mia passione, la mia riconoscenza, il mio amore per Carver non è mai stato esplicitato in queste pagine. E non saprei come farlo. Potrei scrivere un post lunghissimo. Raccontare tutto, raccontare di questa persona che non ho mai conosciuto, eppure è stata fondamentale per la mia vita. Raccontare di quando ho letto le sue cose per la prima volta. Parlare del mio incontro con il suo traduttore italiano e di quanto mi ha emozionato sentirlo parlare di Ray. Potrei dirvi che Raymond Carver smise di bere esattamente un anno prima della mia nascita. E che morì meno di due mesi dopo il mio decimo compleanno.

Invece per ora lascio solo qui le sue parole. Chi le conosce potrà rileggerle. E spero che possano donare una nuova emozione a chi non le conosce.
“Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, «creature di sangue caldo e nervi», come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita.”

Un pomeriggio

Mentre scrive, senza guardare il mare,
sente la punta della penna che comincia a vibrare.
La marea si ritira sulla ghiaia.
Ma non è per quello. No,
è perché lei sceglie proprio quel momento
per entrare nella stanza senza nulla addosso.
Insonnolita, neanche tanto sicura di dove si trova
per un momento. Si scosta i capelli dalla fronte.
Si siede sulla tazza con gli occhi chiusi,
il capo chino. Le gambe allargate. Lui la vede
dalla porta. Forse
sta ricordando cosa è successo la mattina.
Perché dopo un po’ apre un occhio e lo guarda.
E sorride dolcemente.

(Blu oltremare, Roma, minimum fax 2003. Traduzione di Riccardo Duranti)

Dolore

Ultimamente mi capita spesso di sentire usare questa parola da persone vicine e lontane, con le quali parlo, mi scrivo, scambio pareri. Mi capita spesso. Ovviamente non si tratta di reumatismi, né di ossa rotte e ferite, se non in senso metaforico.
Si parla, insomma, di dolori d’amore, o emotivi in genere. Il dolore invade il mondo.
Mettiamo delle cose in chiaro: ho estremo rispetto per il dolore altrui, e in genere per i sentimenti altrui. Una sorta di pudore. Per cui penso che ogni dolore sia a sé stante, che ogni dolore sia irripetibile e non paragonabile agli altri. Altra cosa: personalmente ho avuto una vita emotiva e sentimentale normale, nella media (sempre che esista una media del dolore). Ho vissuto molto intensamente, e ne sono contento, e ne ho prese di mazzate. L’ultima, lo dico, è stata veramente pesante. Quasi pirotecnica. Ma anche le mazzate, secondo me, servono, alla fine.
Non sto facendo discorsi ottimistici, non mi sento un ottimista. Guardo le cose e le persone che mi circondano e me stesso. E traggo delle conclusioni, ovviamente soggettive, personali e provvisorie.
Sento sempre più spesso parlare di dolore, metaforizzato in vari modi, e rispetto il dolore del prossimo. Però…

Pensate a questo: due persone ferite, spaventate dalla vita, dal dolore possibile, rimangono distanti, non si avvicinano, perché hanno paura. Paura poi di stare male. Nonostante – e questo è il bello – si piacciano, seppure in maniera superficiale, seppure solo istintivamente. E rimangono a guardarsi da lontano.
È una visione che mi atterrisce. Non credo all’anima gemella (e tutto il discorso che sto facendo non è personale, no), però credo (in negativo) alle possibili occasioni perse. E credo profondamente che valga la pena di vivere. Detta così suona molto “Viva la gente // La trovi ovunque vai”. Ma io, con “vivere”, intendo la vita tutta. Sesso, tradimenti, amore, sofferenze, gioia, disperazione, tristezza. Tutto.
Abbiamo sofferto (uso un plurale ecumenico). E/Ma siamo qui. Vivi. Ovvio che non vogliamo, o non vorremmo, soffrire ancora.
Ma per me il gioco vale comunque la candela. Soprattutto quando si tratta d’amor (senza la “e”).
È aperto il dibattito.

Queste forse banali riflessioni nascono anche da un bellissimo scambio di messaggi che ho avuto con il mio amico M., ultimamente pendolare da Piacenza a Milano. Mi dice che sull’interregionale per Bologna delle 1850 c’è sempre qualcuno che piange. E aggiunge: “C’è una concentrazione di infelicità su questo treno mostruosa, trovo qualcuno che piange tutti i giorni. Non c’è tempo per pensare a sé se non in treno”.

Di |2003-11-14T00:28:00+01:0014 Novembre 2003|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , |22 Commenti

Post Scriptum (o, secondo l'ordine di Splinder: Pre Scriptum)

È uscito Ero un autarchico, l’ultimo disco di Frankie Hi NRG MC, forse l’unico vero rappresentante dell’hip-hop italiano. Mi ricordo la prima volta che ho sentito una sua canzone. Era “Fight Da Faida”, eseguita dal vivo durante una puntata di “Avanzi”, una decina di anni fa. Da allora l’ho seguito sempre. Mi ha affascinato, come tutte le persone che hanno un rapporto meraviglioso con le parole. E Frankie, direttamente da Città di Castello, è semplicemente un grande, da questo punto di vista. Ero un autarchico, secondo il mio modesto parere di non-esperto-di-musica, è semplicemente meraviglioso. Lasciate che le parole scorrano. Grazie Frankie.

Nel disco, tra gli altri ospiti (Franca Valeri, Paola Cortellesi, Pacifico, Arnoldo Foà) c’è anche Antonio Rezza, un genio, secondo me. Ecco quello che dice in “Zero a zero”:

“Mi sento un accessorio della società, un soprammobile della civiltà contemporanea. ‘Ndo me metto sto male, dovunque faccio danno. Mi siedo in un angolo e penso ‘Forse sto messo male’. Mi sposto e penso ‘Forse stavo meglio prima’. Amici: zero. Genitori: due. Genitori batte amici due a zero. Tra una cinquantina d’anni, quando non ci saranno più i genitori, porterò a casa un pareggio per zero a zero? Interessi: zero. Interessi e amici: zero a zero. In un ipotetico triangolare, gli unici che vanno a punti sono i genitori. Genitori: uno. Genitori batte amici uno a zero. L’attacco comincia ad incepparsi. Genitori: zero. Genitori e amici: zero a zero. S’è chiuso un ciclo. Mi sento un accessorio. Della società. Mi sento un accessorio. Della società. Mi sento un accessorio. Della società. Mi sento un accessorio. Della società.”

Ed ecco il testo di “Virus”, sempre interpretato da Rezza:

“Ho perso il lavoro”
“Nun te preoccupà. ‘O ritrovamo. ‘Ndo t’o s’i perso?”
“L’ho perso al Ministero”
“Embè, ‘o ritrovamo. Quanto po’ esse grosso ‘o Ministero? Lo mettiamo sotosopra e ‘o ritrovamo”
“Ho perso pure tutti gli amici”
“Nun te preoccupà. Li riachiapiamo. Li riachiapiamo tutti. Cerca de fa’ mente locale de dove te s’i persi”
“Ho perso anche la fiducia, la fiducia nel prossimo, l’ho persa”
“Tranquillo. Ritrovamo pure quella. Io sto a fa’ ‘a lista: hai perso il lavoro, l’amicizia, la fiducia. Ritrovamo tutto”
“Ho perso anche la fede”
“Ecco qua, aggiungo io. Se ritrova. Basta ricostruì gli ultimi movimenti, su, ottimismo, ritrovamo tutto”
“Ho perso l’ottimismo”
“E che ci vo’? Tu ti s’i perso… tu ti devi sempre fa’ ‘a domanda: ‘ndo stavo, che facevo, che movimenti facevo… Ritrovamo tutto”
“Ho perso anche l’entusiasmo”
“Ecco qua, aggiungo io: entusiasmo. Guarda: ce sta da lavorà, ce sta da lavorà perché i posti sso tanti, però ritrovamo tutto”
“E l’ultima cosa che me so’ perso… so’ stati i soldi”
“Eh, e qua, amico mio… non ritrovamo proprio un cazzo”

Ritorno a scuola

Insomma, sono davanti al portatile tutto il giorno per preparare le lezioni da tenere alla nota-università-con-le-scale-mobili, e ho poco tempo per scrivere sul blog quanto e quando vorrei.
Tra l’altro questa preparazione continua ad essere difficoltosa. Quando devo preparare le diapositive mi si blocca PowerPoint e quando devo preparare le clip video mi si blocca VirtualDub. Ma io resisto.

Insomma, già qualche settimana fa ricevo una mail da un’agenzia di pubblicità di Bologna, che recita (sic):

“Re: sua lettera del 24 febbraio. Se è ancora interesato ad un colloquio, mi chiami”.

E io chiamo, nonostante l’interese per quello che fanno in quell’agenzia non sia mica così grande. Ma sapete com’è… E vado al colloquio. Quando vado ai colloqui nelle agenzie di pubblicità (tre colloqui in tutto compreso questo, che credete) capita sempre un momento in cui viene recitato il seguente copione.

Interno giorno. La sala riunioni dell’agenzia di pubblicità. Il capo dell’agenzia dà un’occhiata al curriculum di Francesco, che attende una domanda.
Capo: “Ma lei, scusi se glielo chiedo, con le cose che ha fatto… Insomma, qui le parole si usano in maniera diversa, sono piegate ad un bieco interesse commerciale. Mi dica: che ci fa unocomelei [giuro, mi dicono così: secondo me si confondono con qualcun altro] in un posto come questo?”
Francesco: “Sa, con l’arte, o come la vuole chiamare, non si mangia”
Capo: “Ah”
Francesco: “Eh”

Alla fine dell’ultimo colloquio, il Capo di turno si alza e mi dice: “Che ne dice se la metto alla prova subito?”. Come in un film, proprio in quel momento entra nella stanza il giovane art director e porge delle bozze di volantino al Capo, tanto che mi chiedo se ci siano i microfoni nascosti, da qualche parte.
“Ecco, guardi. Questi sono dei volantini che noi abbiamo fatto. Io perfidamente ho fatto togliere tutte le parti scritte. Ci provi, le scriva lei”. Detto questo mi dà un bloc notes e una penna e il “brief”, cioè le indicazioni sul prodotto in questione. Io rimango un po’ perplesso, chiacchiero con il capo, abbozzo a voce un paio di slogan, e, alla fine, la spunto: manderò i miei compiti per casa via mail.

Ieri ho chiamato l’agenzia di pubblicità, perché volevo dire loro che ancora non sapevo nulla della data dell’inizio del mio seminario alla nota-università-con-le-scale-mobili, e che quindi non sapevo quando potevo iniziare il mio periodo di prova. Il Capo si è mostrato molto comprensivo: “Sa, il mio socio vuole che lei provi a lavorare su qualcosa di più complesso, tra un paio di giorni ci faremo sentire. Dimenticavo: ho letto le prove che ha fatto, quelle dell’altra volta… Beh, benino, sono andate benino”. Io mugolo qualcosa, ma il Capo incalza: “Se permette…” “Prego” “Un sei più, diciamo”. E ridacchia.
Il punto è che la campagna sulla quale mi sono esercitato aveva a che fare con il mondo dell’automobile, e io non ho neanche la patente.
“A professò, ma proprio quel capitolo mi doveva chiedere?”

Regalo (per voi che leggete)

Se fossi giulio mozzi, vi racconterei per filo e per segno cosa sto andando a fare a Milano per il fine settimana. Anche perché un po’ giulio mozzi c’entra. Invece, siccome me ne sarò via fino a lunedì, vi lascio un dono culinario. No, nessun link da cliccare e poi vi viene fuori dal lettore cd una torta al cioccolato. Ma questo. Che, in parte, c’entra con uno dei motivi per cui sono a Milano.

Pasta col cavolfiore al forno

Dosi per quattro persone: 400 grammi di pasta corta (dipende da quanto mangiate, ovviamente) tipo tortiglioni, penne rigate, sedani; 900 grammi circa di cavolfiore molto fresco; due spicchi d’aglio; sei filetti d’acciuga sott’olio; una manciata di capperi sotto sale; olio e parmigiano quanto basta.

Pulire il cavolfiore togliendo le foglie esterne e il torsolo più duro, tagliarlo a cimette, sbucciare la parte tenera del torsolo e tagliarla a fettine. Mettere tutto a lavare in acqua fredda. In un tegame basso e largo mettere l’olio, i capperi ben lavati le acciughe e l’aglio (non tritato), quindi aggiungere il cavolfiore senza scolarlo troppo. Porre il tegame sul fornello a fiamma media e mescolare per distribuire bene gli ingredienti. Quando l’olio si è ben scaldato, abbassare la fiamma e mettere sul tegame un coperchio. Lasciare cuocere lentamente mescolando di tanto in tanto, badando che non si asciughi troppo. Le acciughe, l’aglio e parte del cavolfiore si devono disfare, ma senza che si spappolino. Assaggiare per regolare di sale (che va messo dopo).
Cuocere la pasta al dente, scolarla e mescolarla al cavolfiore. Ungere una teglia con un po’ di olio, versare la pasta condita, livellare e cospargere di parmigiano grattato. Mettere nel forno caldo e fare gratinare.

Fatemi sapere. Buon appetito e a lunedì.

Francesco prepara il suo famoso piatto, i testicoli di porco flambè, ad una simpatica coppia di clienti nel suo ristorante di Pasadena. O di Seattle. Non ricorda.

Di |2003-11-07T02:15:00+01:007 Novembre 2003|Categorie: I Me Mine, Savoy Truffle|Tag: , , , |7 Commenti
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