Archivi mensili: Gennaio 2007

Ciò che basta per non dimenticarsene

Mi capita per lavoro di leggere una buona quantità di libri di autori italiani contemporanei, e una rapida occhiata alla sezione “Ho letto”, quassù, e soprattutto il suo tasso di cambiamento, lo confermano. Spesso si è trattato di libri interessanti, divertenti, curiosi. Ma altrettanto spesso, dopo aver finito di leggerli, ho avuto la sensazione che mancasse qualcosa alla scrittura che mi aveva intrattenuto – magari anche piacevolmente – fino a là. Sentivo che spesso le storie che leggevo erano forzatamente ironiche, o costrette in “spazi” minimali, timide, quasi, ridotte in qualche parte.

Quando ho terminato la lettura di Perduto per sempre, ho pensato: “Oh, finalmente un romanzo con le palle“, e ho esordito allo stesso modo, con picchi di finezza inaudita, quando ho chiamato al telefono Roberto Moroni, l’autore.
Il suo romanzo non ha paura di niente, neanche di sbagliare: e le piccolissime imperfezioni che lo punteggiano raramente sono del tutto coperte dallo spazio, appunto, che il romanzo occupa. Lo spazio temporale, visto che abbraccia un periodo di venti anni e più nella vita degli Steiner, focalizzandosi negli occhi di Luigi, seguendo la sua vita da bambino fino all’età adulta. Pur iniziando alla fine degli anni ’70, Perduto per sempre (altro pregio) non sguazza nella forma-revival che, più o meno in filigrana, affligge molti dei romanzi italiani recenti. Non vuole fare una storia della cultura popolare, del costume, della società del nostro paese in un passato recente. Quello che importa è il tempo e i personaggi, una relazione che è sufficiente per strutturare un romanzo. Ecco, nel libro di Moroni c’è quello che serve, senza però scomodare assiomi “minimalisti” (le virgolette sono obbligatorie). Ci sono personaggi forti, e li sentiamo mutare pagina dopo pagina; le parole che dicono sono quelle che ci aspetteremmo di sentire, senza alcuna fastidiosa tendenza al discorso alto, alla chiosa, all’eco di un monologo interiore che aggiunga, o sia costretto a spiegare.
D’altro canto la storia non è originale, non si serve di colpi di scena, ha poco sesso, poca violenza (esplicita, almeno), pochissimo rock’n’roll, zero droga. Eppure Perduto per sempre c’è, esiste e si impone al lettore e alla lettura. Un libro che non si dimentica è un libro che, comunque, è una tacca sopra quelli di cui ci siamo scordati quasi tutto.

Ne parlerò in diretta con Roberto Moroni giovedì a Sparring Partner.

Luttazzi non gioca a dadi

Ieri prima nazionale di Barracuda 2007, il nuovo spettacolo di Daniele Luttazzi (se volete sentire un’intervista che gli ho fatto, andate qua).

Ecco l’intervista!

Ad un certo punto Luttazzi dice che il mondo va male perché Dio, ormai piegato dall’alcolismo e dalla sodomia, l’ha affidato ad un suo cugino scemo, Loris. Subito dopo si sente un prolungato rumoreggiare dalle gradinate del Paladozza, si sente una voce che protesta. Lo spettacolo si interrompe per qualche secondo, poi si vede una signora che se ne va, e lo spettacolo riprende.

Si è scoperto poi che la signora aveva un parente di nome Loris.

Mi sa che dico sempre le stesse cose

Non per altro, ma perché l’immagine qua sopra, gentilmente elaborata e donatami da Vito Hi-NRG Mc per l’altro blog, e che immagino possiate usare liberamente, però dicendo che è opera di Vito Hi-NRG Mc, sintetizza il mio ultimo post e il primo in assoluto che ho scritto.
Che uomo palloso. Io, eh, mica Vito Hi-NRG Mc.

Di |2007-01-23T21:46:00+01:0023 Gennaio 2007|Categorie: I Me Mine, The Word|Tag: , , |5 Commenti

Eh?

Negli ultimi giorni mi è capitato di intervistare per la trasmissione tre persone diverse. Non posso scendere in particolari, come capirete, ma si tratta di persone abbastanza “in alto”, per così dire. Non personaggi famosi, ma uomini e donne in posizioni che comportano un certo potere, quanto meno culturale.

Uno era tra i curatori della mostra su un fotografo del passato. Prima di intervistarlo mi sono documentato con una (una) pagina di Wikipedia sul fotografo in questione, tanto per. Quando gli ho chiesto qualcosa di più specifico oltre alla cartella stampa, ho sentito chiaramente il rumore delle sue unghiette sul vetro – e badate bene che un’intervista non è e non dev’essere un interrogatorio. Alla mia domanda sull’evidente importanza e rivistazione dei temi del fotografo oggi, con una finta l’intervistato mi ha parlato del fatto che “prima o poi tutto viene ripreso dalla moda”. Mi mancava solo che mi parlasse della completezza di uno sport come il nuoto, come mi ha detto prima FedeMC.

Una era la direttrice del luogo dove veniva esposta una collettiva di fotografi del presente. Ha definito “inglese” uno nato a Dublino, e ha raggruppato diversi paesi dell’Europa del nord, da dove provenivano altri artisti, dicendo “da nord”. Hic sunt leones. Con quel freddo.

Uno era il responsabile di un’importante galleria milanese. Ha citato un film sbagliandone la data. Ne ha citato un altro sbagliandone la pronuncia (e non stiamo parlando dei capolavori della cinematografia ungherese). Ma soprattutto ha usato continuamente l’espressione “mentre che” completamente a caso, messa in mezzo alle frasi, così, come si lanciano i coriandoli. Per non parlare dell’uso ormai diffusissimo di “piuttosto”, adoperato alla stessa maniera di un “o” congiuntivo.

Lo so, sono discorsi spocchiosi e pallosi. Ma così non solo si parla male, ma lo si fa credendo di essere colti. L’esempio di questo “piuttosto” usato a cazzo è evidente. Semplificando al massimo:
– qualcuno, in una posizione culturale di potere X, usa “piuttosto” nel modo sbagliato (per motivi che non ci è dato di sapere);
– un altro, in una posizione X-1, riprende l’uso sbagliato senza porsi domande, perché il signor X vuoi che parli male? Inizia ad usare quindi “piuttosto” in quel modo, sentendosi anche quasi manzoniano, colto, all’altezza di tutto quello (esagero) che il signor X rappresenta.
E la catena è infinita.

Sì, ci sono problemi più grossi al mondo, è vero. Ma non posso pensare che, anche in questo, siamo un paese approssimativo, arretrato, per molti versi orrendamente borbonico. E ciò si vede anche dalle parole, e da come sono usate per esprimere dei contenuti, per di più talvolta inesistenti.

Mentre che, piuttosto, eh?
Appunto.

Christ Is Now

Carissima/o,
forse fino ad oggi non hai saputo che Gesù ti ama e che ha in serbo per te un’enorme quantità di doni: la vita in abbondanza, la guarigione da ogni malattia, la libertà da ogni schiavitù, la prosperità economica, la serenità personale e familiare, la gioia, e soprattutto la Vita Eterna; e tutto assolutamente gratis!

(Tratto da un volantino per fare conoscere un gruppo di preghiera, trovato in una cabina telefonica a Lacona, Isola d’Elba)

Di |2007-01-14T23:30:00+01:0014 Gennaio 2007|Categorie: Lady Madonna|Tag: , , , , |12 Commenti

The Ikea Experience: I don't like Mondays (but they do)

Sono passati otto mesi da quando ho scritto l’ultima volta dell’Ikea. Ci sono tornato una volta, all’inizio dell’estate. E ieri. Tra l’altro con V., che faceva parte della truppa del primo capitolo (G. detto Peppino, se mai ve lo stiate chiedendo, sta bene e lo vedrò domani a cena, anche se è a dieta: riso in bianco per tutti). Missione: liberare gli ultimi libri dagli scatoloni, grazie all’acquisto e successiva costruzione di libreria Ivar (sì, proprio come la prima volta, preciso).

V. ha scoperto che l’Ikea ieri sarebbe rimasta aperta fino alle 23. “Ci sono i saldi, è vero, ma avremo tempo.”
Siamo partiti verso le sette e mezzo. Siamo arrivati alle otto meno dieci in prossimità dell’Ikea. Ho visto i primi cadaveri alle otto meno cinque. Alle otto e cinque, ormai dentro all’enorme scatolone svedese, ho pensato che avrei dovuto fare testamento, o lasciare almeno un messaggio diverso da “scongela”, sul tavolino, per ricordarmi di tirare fuori delle cose dal frigo.
II punto è che ieri all’Ikea iniziavano i saldi e, udite udite, in quel giorno (e sono quello) sarebbe stato applicato un ulteriore sconto del 20% sulla merce già in offerta. Quando l’abbiamo scoperto, io e V. ci siamo guardati in faccia e, senza dirci niente, ci siamo chiesti: “Perché?”. Troppo tardi. Mi sono rassegnato. “Intanto che aspetto l’arrivo dei caschi blu”, mi sono detto, “tanto vale provare a comprare.”

Incastrati tra carrelli, passeggini, donneincinte, tamarri e matitine appena temperate (dalla punta aguzza e dolorosa), abbiamo proceduto a passo d’uomo per i primi trenta metri. Poi un impiegato di banca è crollato e siamo riusciti a muoverci più speditamente: su di lui. È stato subito riciclato come oggetto d’arredo in un salotto ricolmo di libri di cartone e cd vuoti. “Comodo da morire, quel divano”, ha commentato uno accanto a me, segnando il numero di scaffale sull’apposito foglio-note.
D’un tratto, una voce.
“Ehi, ciao, sono Matteo! E oggi ci sono un sacco di occasioni all’Ikea! Giovanna, dove sei?”
“Ehi, ciao Matteo! Sono Giovanna! Ma lo sai che oggi al ristorante Ikea potete mangiare con soli 70 centesimi?”
Come le scimmie di 2001 davanti al monolite, le persone intorno a noi hanno iniziato a saltare, indecise se mangiare al ristorante svedese o comprare dei mobili. In quel momento sono iniziati i primi scontri, con sedie “Ossen” brandite come armi. Io e V. ci siamo rifugiati là vicino.
“Ehi, viviamo in una casa di 30 metri quadri!” recitava un cartellone che indicava una soluzione-Ikea (cheiddiomiperdoni) per una famiglia costretta in quello spazio. E lì ho capito perché l’Ikea è una delle poche cose che ha vinto sul pur resistente costume italico: perché nessuno ha scritto “Cazzi vostri” sotto il cartellone, neanche con le apposite matitine.

Placatisi gli scontri, siamo usciti, e ci siamo diretti verso la zona-librerie.
“Ci siamo”, ho detto a V., schivando un set di posate.
Ho visto da lontano la libreria che cercavo.
Ho tirato fuori il foglio-note facendo il passo del giaguaro.
Mi sono avvicinato alla libreria.
Ho guardato meglio un cartellino appeso al montante.
“Momentaneamente non disponibile”

“Ehi!”, mi ha detto Matteo di Radio-Ikea. “Gentile cliente Ikea, oggi ci sono i saldi! E al ristorante-Ikea vi tirano la roba addosso! Che meraviglia i cibi svedesi. Però io non so pronunciarne i nomi! E tu, Giovanna?”
“Li pronuncio di brutto! E col 20% di sconto, ma solo per oggi! Anzi, da adesso in poi, sai cosa faccio, Matteo? Pronuncio tutto con il 20% in meno! E al rist sved lo sform di truciolat si montda sol!”
“Ehi, Giovanna! Sembra proprio che parli svedese! Tutti al ristorante!”

“Momentaneamente non disponibile”
La missione è cambiata: il nome in codice è “Uscirne vivi”. Un uomo tenta di azzopparmi con un carrello: solo quando straccio il foglio-note davanti a lui capisce che non sto scherzando, che io non c’entro nulla con questa brutta storia. Vedo V. alle prese con una cassettiera: è una trappola. Da dentro il modello “Tombal” sbuca una mamma rifatta e tenta di strangolare il povero V. Tramortisco la donna con un sacchetto di viti e scappiamo verso l’uscita, non degnando neanche di uno sguardo le offerte del settore bagno: solo prendiamo due assi da cesso e le usiamo come scudi, fino a che siamo all’aria aperta.
Mentre saliamo in macchina, sentiamo ancora provenire da dentro il magazzino il vociare di Radio-Ikea, ma non capiamo se Giovanna stia facendo un ulteriore sconto a se stessa o se qualche cliente sia salito in postazione e la stia strangolando con un metro di carta.

From the morning, till the day is done

Ho passato due interi giorni con Nick Drake, senza neanche uscire di casa. Sono stato a Rangoon, in Birmania, dove è nato, sono andato e tornato più volte con lui nella tenuta di Far Lays, a Tanworth-in-Arden. Ho viaggiato con lui in Francia, Spagna e Marocco. Mi sono innamorato anche io di Françoise Hardy. Sono stato in giro, mentre lo seguivo nei suoi pochissimi concerti dal vivo in piccoli pub e in posti troppo grandi per lui. Ho conosciuto i Fairport Convention, il tecnico del suono John Wood, Paul Boyd, e anche John Cale e John Martyn. Con loro, a Londra, ho assistito alle registrazioni di Five Leaves Left e Bryter Layter. Ho tentato di parlare con lui dopo gli insuccessi di vendite dei primi due dischi, ma non ce l’ho fatta. Nick Drake mi ha sorpreso per l’ennesima volta col suo ultimo album, Pink Moon, registrato in poche ore e consegnato in una semplice busta ai dirigenti della sua etichetta, la Island. Ho visto la boccetta semivuota di Tryptizol, l’antidepressivo che l’ha accompagnato verso la fine.

Ho ascoltato i suoi dischi, ma anche gli “inediti”, contenuti in Time of No Reply e in Made to Love Magic. Ho letto il libro di Stefano Pistolini Le provenienze dell’amore, tutto d’un fiato. E, lo ammetto senza pudori, mi sono commosso più e più volte vedendo il documentario A Skin Too Few e sentendo lo speciale della BBC2 Lost Boy – In search of Nick Drake. Hanno risuonato in me per lungo tempo le parole della madre Molly e del padre Rodney, e la commozione della sorella Gabrielle.

Una canzone di Molly Drake

Ho capito ancora una volta quanto grande e fragile fosse Nick Drake e quanto lieve e possente allo stesso tempo fosse la sua musica.

Cercherò di parlare di tutto questo e di farvi ascoltare il più possibile nella prossima monografia di Sparring Partner, dedicata a Nick Drake, da lunedì. E se non vi piace Nick Drake (possibile?), venerdì c’è Luttazzi.
E se non vi piacciono né Drake, né Luttazzi, che accidenti ci state a fare qua?

Neighbours 9 – New Year's Edition

Nella nuova casa, nella quale abito da sei mesi, non mi sono mai preoccupato dei vicini. Nel senso che non ho mai avuto problemi di alcun tipo. Ho suonato spesso il piano, quasi ogni giorno, ad ore decenti, e anzi, ho ricevuto solo apprezzamenti. Un po’ di cortesia, ma insomma, si mettono sempre in saccoccia.
Per la mia intima festa del 31, quindi, non mi sono posto il dubbio di dare fastidio. “Non suonerò il piano, e poi è l’ultimo dell’anno”, ho pensato mentre preparavo con l’amico M. un bel cd di mp3 che avrebbe accompagnato le danze. E infatti a mezzanotte (più o meno, chiaro) le danze sono partite. E sono arrivate anche altre persone. Tutti a ballare il Disco Samba, capolavori come “Bette Davis Eyes” e robaccia del genere. All’una e trenta la modalità random ha scelto “Everybody Needs Somebody to Love” dei Blues Brothers, e la mia vicina ha deciso che non ne poteva più. Mi arriva una telefonata sul cellulare da un numero che non conosco.
“Francesco, buon anno, eh, auguri, sono la vicina di sotto. Insomma, tanti auguri, buon 2007, però la musica che arriva nel pozzo luce è insopportabile. Però auguri.” Riesco a capire che non si tratta della scelta della musica (se no le lamentele sarebbero arrivate su “I’ve had the time of my life”, quanto meno), ma del volume. Quindi mi sono trovato costretto a smorzare tutto.
“Mi è arrivata una telefonata dalla vicina del piano di sotto”, ho detto. “Mi dispiace, basta musica della discoteca, metto Vivaldi”.
La gente che c’era ha capito che non scherzavo quando ho chiuso le finestre e nella stanza si sono diffuse le note delle “Quattro stagioni”.
Dopo i lapalissiani commenti del tipo “E vabbè, però è l’una e mezzo, è Capodanno”, eccetera, abbiamo trovato una soluzione e abbiamo ballato con la musica bassa fino alle quattro del mattino, senza che nessuno si lamentasse. Uno a zero per i giovani.

Ma è l’epilogo quello che mi ha sorpreso. Alle undici e mezzo del mattino mi arriva un messaggio dalla vicina. “Ancora tanti auguri e buon anno. E scusa per ieri notte.”
Sono rimasto di sasso. Lei che chiede scusa a me? Mi è sembrato comunque un gesto carino. Quest’anno inizia nel segno dell’ammore. E del ballo silenzioso, ovviamente. Ancora buon 2007 a tutti.

Torna in cima