Archivi mensili: Dicembre 2022

Dagli archivi: Sono stato Dio in Bosnia – Vita di un mercenario (Erion Kadilli, 2010)

Vi ricordate la guerra nei Balcani? Si è trattato di uno dei conflitti più cruenti, spietati, feroci e incomprensibili nella storia dell’uomo. E questo non lo dico io, ma uno che la guerra l’ha fatta: Stefano Delle Fave. È lui il protagonista assoluto del documentario Sono stato Dio in Bosnia – Vita di un mercenario, realizzato dal regista italo-albanese Erion Kadilli.

Delle Fave vive un’adolescenza non proprio felice a Bordighera, collezionando guai con la giustizia e una passione per il giornalismo. Proprio in qualità di giornalista-fotografo decide di andare in Croazia: siamo nei primi anni ’90 e la situazione nella ex-Yugoslavia inizia a farsi pesantissima, al punto tale che la sua “guardia del corpo”, una soldatessa dell’esercito croato, gli muore tra le braccia colpita da una raffica di mitra. Delle Fave perde definitivamente la boccia e inizia la sua carriera di soldato di ventura, prima in Croazia e poi in Bosnia.

Kadilli decide di affidare la narrazione di tutto a questo quarantenne che si definisce “pazzo” (mentre “Hitler era solo un folle”), che confessa delitti raccapriccianti (ma dirà sempre il vero?), e che racconta senza peli sulla lingua la guerra e il codazzo di orrore, soldi e sangue che ogni conflitto si porta dietro.La camera è fissa sul mercenario, soprannominato “Red Devil” nei Balcani. Coscientemente, il regista compare appena in campo per le prime domande ma, mano a mano che il film va avanti, rimaniamo da soli con gli occhi spiritati di Delle Fave e ascoltiamo quello che ha da dirci.

Tuttavia non di sole interviste è fatto Sono stato Dio in Bosnia: una parte notevole del documentario, infatti, è affidata a materiali di repertorio di tipo molto diverso. Da un lato ci sono i filmati girati dal mercenario in Croazia e Bosnia; dall’altro ci sono filmati della RAI in cui Stefano Delle Fave è protagonista. Eh già, perché una puntata di un’edizione di Domenica In, condotta da Elisabetta Gardini e Toto Cutugno, ebbe proprio lui come ospite. Lì, sul divano azzurro, davanti a scenografie pastello, il poco più che ventenne Delle Fave raccontava la sua guerra, rispondeva a domande come “Cosa si prova a uccidere un uomo?” e altre amenità.

Basterebbe questo, e i contrasti che il film solleva, perché Sono stato Dio in Bosnia rimanga nello stomaco e nel cervello per molto tempo: invece Kadilli esagera appena un po’, calcando inutilmente la mano su una traballante critica alla società dello spettacolo, tirando fuori il seggio europeo della Gardini e una citazione di Adorno in capo al film. Peccato, ma sono nei in un prodotto a budget bassissimo e dal fiero spirito indipendente che speriamo non sia relegato a proiezioni sporadiche qua e là.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel febbraio 2011

 

Dagli archivi: Wild Man Blues (Barbara Kopple, 1997)

Ebbene sì, care lettrici e cari lettori di questo blog: io Woody Allen l’ho visto, all’Auditorium di Roma, il 31 marzo scorso. L’ho visto salire sul palco, vestito esattamente come me l’aspettavo (camicia e pantaloni di velluto a coste), con la sua New Orleans Jazz Band, con la quale suona da un quarto di secolo.

Woody Allen l’ha visto (e molto) anche Barbara Kopple, di cui abbiamo già parlato a proposito di Harlan County, USA, nel 1996. Da ore e ore di girato, la Kopple ha fatto uscire nel 1997 Wild Man Blues. Il documentario, in pratica, segue Allen e la sua band (e non solo) in un tour europeo, tra Spagna, Italia e Gran Bretagna. Dico “non solo” perché in quel periodo Woody aveva lasciato tutti di stucco a causa del fidanzamento con Soon Yi, figlia adottiva della ex Mia Farrow. Inoltre, grazie alla macchina da presa della Kopple, conosciamo anche membri della famiglia di Allen: sorella e genitori, in particolare.

Nelle note di copertina del DVD la Kopple spiega che la spinta per girare questo documentario è stata soprattutto l’attività cinematografica di Allen: e come contraddirla? L’Allen cineasta è ben presente, per quanto il documentario si sforzi di parlare di musica: e che musica!

Allen, lo sanno soprattutto i suoi fan, ama da morire il jazz classico. Le sue predilezioni, però, oltre ai grandi come Cole Porter e Gershwin, vanno soprattutto alla musica che ha originato il tutto: quelle canzoni, spesso solo strumentali, suonate negli Stati del sud, che univano la ripetitività delle work song, e di conseguenza del blues, con una tavolozza sonora più ricca. Piccoli complessi, che si esibivano nei cassoni dei camion per aggirare leggi strettissime sui concerti in pubblico: un banjo, una batteria, qualche fiato. Una musica che, dice Allen all’inizio del documentario forse esagerando, “non interessa a nessuno”. Eppure Woody la suona, imperterrito, prima in un piccolo pub di New York tutti i lunedì sera (leggenda vuole che a causa di uno di questi concerti non andò a Los Angeles a ritirare l’Oscar per Io e Annie: ma tutti i fan di Allen sanno che lui odia la California), più recentemente nel lussuoso Carlton Hotel di Manhattan (se vi interessa ci sono da sborsare diverse decine di dollari per avere un tavolo, nelle sere in cui la New Orleans Jazz Band si esibisce).
È vero che questa musica non interessa a nessuno?

Diciamo che interessa relativamente alla Kopple, affascinata soprattutto dalla persona-Allen, ben lontana dalle aperture che, negli ultimi anni, Woody ha concesso alla stampa.
Interessa relativamente anche al pubblico che affolla i suoi concerti.
Ma interessa moltissimo ad Allen stesso: questo si percepisce in Wild Man Blues, backstage dopo backstage e albergo dopo albergo. È una passione che viene dopo il cinema, ma non si distacca da esso così tanto.
Verso la fine del documentario Allen osserva che il tour è finito: il tempo è passato, è ora di tornare a New York, a mostrare i souvenir del viaggio in Europa ai genitori. In questi piccoli sprazzi la Kopple riesce ad avere un occhio particolare e ci rivela davvero qualcosa di inedito di un’icona dell’oggi. Per il resto il film è un documento curioso di un hobby importante di un grande scrittore e regista.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel febbraio 2011

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