Archivi mensili: Aprile 2007

Ten Days in the Life

“Capitolo primo. Adorava New York. La idolatrava smisuratamente”. No, no, è meglio “La mitizzava smisuratamente”, ecco. “Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero, e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin”. Ahhh, no, fammi ricominciare da capo. “Capitolo primo. Era troppo romantico riguardo a Manhattan, come lo era riguardo a tutto il resto. Trovava vigore nel febbrile andirivieni della follia e del traffico. Per lui New York significava belle donne, tipi in gamba che apparivano rotti a qualsiasi situazione”. Eh, no… stantio, roba stantia… di gusto uhm… Insomma, dai, impegnati un po’ di più. Da capo. “Capitolo primo. Adorava New York, anche se per lui era una metafora della decadenza della cultura contemporanea. Com’era difficile esistere in una società desensibilizzata dalla droga, dalla musica a tutto volume, televisione, crimine, immondizia”. Troppo arrabbiato. Non voglio essere arrabbiato. “Capitolo primo. Era duro e romantico come la città che amava. Dietro i suoi occhiali dalla montatura nera, acquattata ma pronta al balzo, la potenza sessuale di una tigre”. No, aspetta, ci sono. “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata”.

Ci rivediamo tra una decina di giorni.

Di |2007-04-19T22:54:00+02:0019 Aprile 2007|Categorie: I Me Mine, There's A Place|Tag: , , , |17 Commenti

Sapere elettronico

Credo che tutti i negozi che vendono materiale elettronico, quei posti in via d’estinzione in cui si può comprare dallo stereo alla presa tedesca, dalla videocassetta al televisore al plasma, abbiano qualcosa in comune. Più precisamente credo che chi gestisce questi negozi sia un tipo ben definibile.

A Gorizia, da ragazzino, frequentavo un posto del genere, vicino casa. Mentre io andavo lì per comprare caterve di musicassette vergini, altri clienti trattavano su testine al platino, termostabilizzatori ionici e raggi laser. Era un negozio che, nel magazzino, aveva probabilmente tutti i pezzi per costruire uno Shuttle, a saperli montare.
Il gestore di questo negozio si chiamava Furio, e lo era di nome e di fatto. Perdeva la pazienza se uno esitava nella scelta, gli metteva le mani alla gola se osava dubitare della qualità della sua merce o del prezzo che aveva. Capite bene che Furio mi faceva aspettare ore, dall’altra parte del bancone, quella vicina alle cassette, per darmi cinque Sony HF da 60, mentre lui si intratteneva mostrando componenti che, per quanto mi riguarda, potevano andare bene in una lavatrice o in un reattore nucleare. Capite bene quanto poco potessi soddisfare l’incazzoso (questo era uno dei soprannomi di Furio), chiedendogli semplicemente di aderire alla sua personalità di negoziante (chiedo, ottengo, pago), cosa che, giustamente, fa andare in bestia chiunque, soprattutto se ha un negozio. La situazione migliorò leggermente quando passai dalle semplice HF alle musicassette con nastro al cromo e guida in ceramica, ma lui si stufò presto comunque, appena prima di quando finirono i miei risparmi, accumulati a suon di paghette.

Ho trovato un negozio del genere a Bologna, in centro, a pochi passi da casa. È un posto piccolo e stipatissimo di cose, compresi i genitori del gestore, piazzati perennemente su due sedie, ai due lati di un espositore, che credo in origine fosse rotante, ma che immagino l’ultimo scampolo di buon cuore del negoziante abbia fermato, per non rendere troppo aspro il contrasto con i suoi vecchi.
Caratteristica del gestore è che possono esserci cinquecento clienti in attesa, lui comunque vorrà finire la spiegazione dettagliata delle caratteristiche tecniche dell’oggetto che sta vendendo, e che venderà sicuramente, prendendo per sfinimento l’acquirente con dettagli che annoierebbero anche chi, l’oggetto, l’ha progettato.
Ogni volta che entro in quel negozio, quindi, vengo preso da sentimenti contrastanti: da un lato l’ansia di rischiare di perdere un’ora della mia vita assistendo ad una lezione della Scuola Radio Elettra, dall’altro con la consapevolezza che il tipo ne sa, i prezzi sono buoni, e quindi ogni volta potrebbe scapparci la dritta o l’affare.

Una volta ci sono entrato, con fare baldanzoso, sicuro di me, e ho detto: “Vorrei una spazzolina in fibra di carbonio per pulire i vinili.” (Anni di attesa dall’incazzoso mi hanno formato, almeno un po’.) Il gestore è rimasto un po’ spiazzato, mi ha preso la spazzolina, e lì ho commesso un errore gravissimo: ho chiesto quanto costasse. Assurdo. Il vero compratore professionista chiede e paga. Il prezzo, in un negozio, è un dettaglio marginale. “Nove e novanta”, mi ha detto, con un’espressione che significava qualcosa come “Ti rendi conto? Te la do a nove e novanta! No, se vuoi discutere di questo prezzo, fai pure, eh, voglio proprio vedere se la trovi a meno.” Ho ovviamente pagato senza batter ciglio, ho fatto per uscire, quando il negoziante mi ha chiamato. “Sai come si usa?”, mi ha chiesto. Ora, voi che faccia avreste fatto? Ecco, proprio quella, quella che indica un momento di smarrimento tale che dubitereste anche del vostro nome di battesimo. Al che lui, pietosamente, mi ha dato il prezioso consiglio di non toccare le setole (di carbonio) con le dita, se no si ungono. E io che pensavo di dare alla spazzolina una ripassata in padella, per migliorarne le qualità.

Ultimamente, invece, ci sono andato per comprare dei cd e dvd vergini. Ovviamente ho sbagliato ancora, insistendo stupidamente per sapere il prezzo della merce. Ma questo non ha semplicemente fatto scaturire la solita espressione di sfida e pietà al tempo stesso. Coadiuvato da un’altra cliente, sicuramente una complice, il negoziante mi ha iniziato a fare un discorso sulla “politica dei prezzi in Italia” (sic). La sua conclusione è stata semplice: in Italia i prezzi sono falsi (arisic). Ma esiste un modo per uscire da questa sorta di Matrix del commercio, il gestore del negozio di elettronica me l’ha detto, e io voglio condividere le sue parole. “Sai come faccio io? Vado a fare la spesa in Germania: perdo una giornata, ma risparmio anche cinquecento euro.”
Quindi, donne e uomini che mi leggete, se il vostro partner o la vostra partner esce di casa dicendo “Vado a comprare le sigarette” e poi non si fa vedere per ore, state tranquilli: non siete capitati in una brutta situazione da film. Accendete Isoradio: sicuramente ci sono code sul Brennero, in entrambi i sensi di marcia.

Down In It: Nine Inch Nails, Live@Alcatraz, Milano, 01.04.07

Esattamente otto anni dopo avere visto uno dei concerti più belli della mia vita, torno nello stesso posto, con lo stesso amico, a rivedere uno dei miei gruppi del cuore.
Quando passano così tanto tempo tra due eventi del genere, è evidente che la lunga attesa prima del concerto potrebbe essere riempita da pensieri come “L’ultima volta che li ho visti qua avevo 21 anni”, ma queste meditazioni sono interrotte dall’incubo che mi perseguita in tutti i concerti a cui tengo di più: come era successo già all’ultimo concerto dei Karate a cui ho assistito, ecco che si presentano puntuali quelli che io chiamo “gli ultras dell’Andria”. In quell’occasione, infatti, un gruppo di veneti ubriachi aveva cantato per tutto il concerto gli inni della loro squadra del cuore sulle melodie dei Karate. Encomiabile, come tentativo, penosa e fastidiosissima la riuscita della cosa.
I Ladytron si sono appena esibiti, la folla aspetta i NIN, ed eccoli, i tifosi: sono in tre, e si devono reggere insieme per non cadere per terra. Ovviamente, spingendo qua e là, si piazzano accanto a me. Dopo qualche sguardo interrogativo, vedo che uno ha un bicchiere di plastica pieno e lo tiene a mezz’aria, dritto davanti a sè. Fa per rovesciarlo per terra (in uno spazio di un metro quadro in cui ci sono almeno dieci persone), ma prima mi guarda. Io gli faccio “no” con la testa, lui mi prende come arbitro morale della situazione e mi dice “No, eh?”. Gli suggerisco di passare il bicchiere ad altri, in modo tale che raggiunga i limiti della sala. Lo fa.
Dopo poco mi pone un altro grande interrogativo etico. Biascica: “Ma se uno dovesse venirgli da pisciare (sic), la farebbe qua, no?” e nel chiedermi questo inizia ad armeggiare coi pantaloni. Sudo freddo. Riesco solo a scuotere la testa, sperando di mantenere il ruolo appena acquisito. Miracolosamente rinuncia. O se la fa addosso, non so e non voglio sapere.
Un altro po’ di tempo e uno dei tre, quello più basculante di tutti, inizia a strusciarsi su una ragazza di fronte a me. Nessuno fa niente e io conquisto la seconda onorificenza sul campo, togliendo la ragazza dal pesante ed etilico abbraccio del barcollante giovane.
Si spengono le luci, inizia “Pinion” e quindi, non appena partono le prime note di “Mr Self Destruct”, non capisco più niente. Una violenza inaudita travolge il pubblico, con un attacco di concerto memorabile. I tifosi dell’Andria, probabilmente, vengono calpestati dalla folla, la temperatura emotiva si innalza a dismisura, ma mai quanto quella fisica: dopo due pezzi siamo tutti sudati e distrutti.

La folla mi spinge da una parte all’altra e godo come un riccio: la scaletta sembra quasi quella di un set di The Downward Spiral, non si fa in tempo ad esultare per un brano che ne parte un altro. Così mi trovo, fortunello, in un’altra zona del locale, dove faccio la conoscenza di uno strano personaggio. Capelli lunghi, barba lunga, occhi spiritati, fa headbanging facendo roteare la chioma e inondando di sudore chiunque si trovi nel raggio di qualche metro dalla sua seminuda persona. E’ coperto da uno strato viscido di sudore, e quando, approfittando del macello incessante, gli do una bella spinta, torna indietro, incrocia le braccia all’altezza dei polsi, sfodera due belle corna metal e rovescia gli occhi mostrandomi la lingua.
All’ennesima ondata di sudore mi allontano.
Lo vedrò, un po’ dopo, mentre, immobile in mezzo alla folla, tiene il cellulare all’orecchio. Ho pensato che, forse, si chiedesse se la voce che risponde facendo il numero 666 (“Il numero che lei ha composto è inesistente”) sia quella del Principe delle Tenebre in falsetto. O forse è la prova che l’Inferno non esiste?

La temperatura aumenta, e Trent Reznor, mosso a pietà, lancia delle bottigliette d’acqua sul pubblico. Il frontman dei NIN è un po’ troppo pompato, ma chi se ne importa: continuano a suonare come una macchina, senza tregua, senza sosta, e soprattutto senza fare brani troppo recenti.
Il ritmo, infatti, cala solo nei due pezzi del prossimo disco, Year Zero, che però il buon Trent ci invita tranquillamente a “rubare”.

E poi arriva il momento che mi aveva fatto levitare, nel novembre 1999, dalla decima alla seconda fila, “con una forza dentro che neanch’io so come”. Ancora una volta, “Hurt” (versione solo voce e piano, fino all’entrata finale delle chitarre) distrugge nel senso migliore del termine tutti i presenti (e forse fa finire in lacrime anche i veneti ubriachi e l’emulo di King Diamond). Ma il finale è per “Head Like a Hole”, durante la quale credo siano stati concepiti diversi pargoli, vista la ressa mostruosa a cui nessuno è riuscito a sfuggire.

Quindi, che dire? Che sono una live band fenomenale, che, rispetto al concerto del ’99 sono mancate le parti combinate strumentali-video, che probabilmente parte della creatività che Reznor aveva raggiunto con The Downward Spiral e The Fragile se n’è andata, che inizio a tifare contro l’Andria Football Club e che, se il Diavolo c’è, ha cambiato numero.

Nine Inch Nails – Alcatraz, Milano, 01.04.07 – Setlist:
Pinion – Mr. Self Destruct -Terrible Lie – Heresy – March of the Pigs – The Frail – The Wretched – Closer -The Becoming -The Beginning of the End – Wish – Gave Up – Help Me I’m in Hell – Eraser – Reptile – No You Don’t – Survivalism – Only – Down in It – Hurt – The Hand that Feeds – Head Like a Hole

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