Things We Said Today

Dagli archivi: MiceCars – A S I M O / I

MiceCars – A S I M O / I (Black Lodge), 24 febbraio 2014

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Dieci anni fa un ep, quindi l’album I’m the Creature, premio Fuori dal Mucchio per il migliore esordio. Poi nulla fino allo scorso giugno, quando è comparsa “Volunteer”, ora posta a chiusura di A S I M O / I, l’atteso ritorno dei MiceCars. “You should not play with my heart tonight / And praise our love with another lie”, dice la canzone: le parole e il cantato in falsetto rimandano al 2004, ma Little P. e Peter T. (che suonano insieme ad Andrea Mancin, Oliviero Farneti, Pasquale Citera e Marco Caizzi) sono ancora più disillusi e amaramente ironici sin dall’apertura “Mutual Destruction Assistance”, che riporta alla sfera intima e relazionale l’annientamento reciproco paventato nell’era nucleare richiamato dal titolo.

Nell’album, prodotto dal duo insieme a Andrea Sologni, si percepisce un senso di isolamento e abbandono nei confronti di se stessi e dell’umanità. Un concetto su cui i MiceCars sperimentano a modo loro, per fortuna: se alcuni finali sono prolissi e stride un po’ il rap di “In da Ghetto”, convincono gli arrangiamenti su “Interlude”, i richiami “mellotronici” alla “Mr Kite” beatlesiana in “Sloth” e quel senso di torpore psichedelico à la MGMT, mischiato con l’Albarn più agrodolce, di cui il disco è intriso. I MiceCars sono tornati più disincantati, consapevoli della vita e della loro musica; questa maturazione in A S I M O / I si sente tutta. Attendiamo quindi il secondo capitolo, sempre simbolicamente ispirato al robottino della Honda.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Jimmy Villotti. Memorie di un musicista ambulante

Per me Jimmy Villotti era “Jimmy, ballando”, era il nome annunciato da Paolo Conte in Concerti, quando presenta la band, era un preciso suono di chitarra, era un nome che vedevo talvolta sui giornali e sui manifesti affissi in città, ma non era un volto, né una voce. Fino a qualche mese fa, quando Massimo Sterpi (che conoscevo di nome e di vista per il lavoro fatto con l’Antoniano di Bologna) mi ha chiamato proponendomi di realizzare una lunga intervista con Jimmy, per raccontare la sua vita e il suo percorso artistico. “Non sta bene di salute, purtroppo”, mi aveva anticipato Massimo, ma quando siamo andati a casa sua, se non fosse stato per le medicine sparse sul tavolo, non avrei detto che fosse malato. Stanco forse, anziano, senza dubbio, ma pieno di voglia di raccontare, di ricordare. “Se avessimo tenuto acceso un registratore”, ci siamo detti scherzando io e Massimo mentre uscivamo dal palazzo dove abitava Jimmy, “avremmo avuto già almeno una puntata”.

Era il 27 ottobre 2023: nel giro di due settimane abbiamo finito le registrazioni e, neanche un mese dopo l’ultimo “stop, buona”, Jimmy è morto. Credo che, tra tutte le persone che sono andate a salutarlo al funerale e lo conoscevano personalmente, io fossi quella che lo conosceva da meno tempo. Mi sono reso conto, quindi, l’incredibile privilegio che ho avuto nel raccogliere, per l’ultima volta, la sua voce. Oltre a essere un privilegio raro, intervistare Jimmy Villotti è stata per me una delle esperienze professionali più intense che abbia mai vissuto. Sin dal nostro primo incontro ho percepito quanto fosse non solo un artista di enorme levatura, ma anche una persona davvero speciale dal punto di vista umano. Nel podcast “Jimmy Villotti. Memorie di un musicista ambulante”, disponibile in versione audio e video, abbiamo cercato di fare emergere al meglio due dimensioni, quella personale e quella artistica di un uomo versatile, sensibile e intelligente come pochi altri nel panorama nazionale.

Oltre a ringraziare Massimo Sterpi e l’Antoniano, ringrazio anche Sergio Marzotti, che ha curato le riprese video, e Alessandro Renzetti, responsabile di produzione e postproduzione audio.

Dagli archivi: Damo Suzuki: “Faccio la musica dell’oggi”

Il 18 gennaio 2008 Damo Suzuki si esibiva, con il suo progetto Damo Suzuki Network, al Locomotiv Club di Bologna. Quel pomeriggio ho avuto la possibilità di ospitarlo in Maps, la trasmissione musicale pomeridiana di Radio Città del Capo. In occasione della recente scomparsa del musicista, ho trascritto e tradotto l’intervista.

Ti conoscono tutti come il cantante dei Can, ma ormai sono passati 35 anni da quell’esperienza, quindi parliamo del presente, del Damo Suzuki Network. Di che si tratta?
Per lavoro viaggio in tanti Paesi del mondo e cerco volta per volta, nello spazio e nel tempo in cui sono, di creare qualcosa con i “sound carrier locali”. Sono musicisti, ma io li chiamo “sound carrier” [“portatori di suono”, ndr] perché “musicista” è una parola vecchia, perché negli ultimi venti-trent’anni tutto è cambiato nel panorama musicale e noise. Suono ovunque, incontro persone senza fare prove, faccio la musica dell’oggi. Funziona, non è mai noioso perché ogni giorno posso fare cose diverse e incontro persone dalle mentalità molto diverse tra loro. Insomma, il menù del giorno cambia sempre.

Si tratta di improvvisazioni?
Non proprio, non mi piace tanto quella parola. Sì, è una specie di improvvisazione, ma il termine è utilizzato soprattutto dai musicisti jazz, e nel jazz, anche quando si improvvisa, non si fa davvero musica sul momento. Perché comunque nel jazz ci sono strutture definite, i solisti… Ognuno di noi, invece, fa nello stesso momento cose diverse.

Cosa succede quando, suonando, accade qualcosa di talmente bello e particolare che ti va di ripeterlo?
Di solito non ripeto nulla perché ogni volta ho a che fare con musicisti diversi. E poi ripetere significa copiare se stessi: non è proprio cosa per me.

In quanti Paesi diversi sei stato con il tuo progetto e che musicisti hai incontrato?
Non tanti, forse 27 Paesi diversi, e ho suonato con musicisti di ogni tipo: free jazz, hip hop, bande di ottoni…

Com’è stato suonare con gli Zu?
Gli Zu hanno un’energia incredibile ed è la cosa che davvero mi piace di loro. Anche nei miei concerti c’è molta energia, la condivido con il pubblico e me ne torno a casa con una bella sensazione.

Ci sono artisti o dischi interessanti che hai ascoltato di recente?
È una domanda difficile, perché per me ogni sound carrier che suona con me è interessante.

I sound carrier sono molto orgogliosi di suonare con te…
E io lo sono di suonare con loro, perché è davvero speciale. Prima di cominciare a suonare non ci conosciamo di persona e poi comunichiamo con la musica, è molto bello. Per comunicare non mi serve imparare l’italiano, una lingua per molto difficile: con la musica comunico ovunque. Ed è anche un motivo per cui porto avanti questo progetto: voglio usare la musica come arma contro ogni tipo di violenza. In questo mondo c’è molta violenza perché le persone non comunicano tra loro e la musica permette di farlo anche meglio [che con le parole].

Ci hai parlato della diversità dei Paesi che visiti e dei musicisti con cui suoni, ma che mi dici del pubblico?
Ti faccio un esempio: lo scorso aprile [2007, ndr] ho suonato a Londra con un quartetto d’archi, con musicisti classici, in un posto dove almeno l’80 per cento del pubblico era composto da appassionati di classica. Per me è stata un’esperienza interessantissima e la reazione del pubblico è stata magnifica: c’è stata una standing ovation e abbiamo fatto due parti, la prima da due pezzi, per un totale di 45 minuti e la seconda con un pezzo solo da 77 minuti.

Intervista andata in onda originariamente in diretta su Radio Città del Capo di Bologna il 18 gennaio 2008

30×30 – Il mio 1994 in musica

Quasi vent’anni fa pubblicavo sul blog un post in cui si citavano alcuni dischi chiave usciti nel 1994 e una decina di anni fa espandevo questa lista di meraviglie su Facebook,

Questi sono i semi da cui nasce 30×30 – Il mio 1994 in musica, un progetto che ha “debuttato” qualche giorno fa in forma di newsletter e minipodcast, sebbene all’inizio la mia idea era quella di creare dei video per ognuno dei dischi di cui avrei parlato. Non avevo calcolato, però, che YouTube non si sarebbe accontentato di non farmi monetizzare i video, arrivando a impedirne la pubblicazione.
Quindi sono tornato ai miei amori di sempre, la scrittura e la radio.

Il 1994 è stato un anno memorabile per la musica di ogni genere: allora avevo sedici anni e ho avuto la fortuna di ascoltare, proprio quando uscivano, una serie di capolavori che hanno segnato la storia. Per voi ho selezionato 30 dischi che mi porto dentro da trent’anni: li ho scoperti da adolescente e non li ho più abbandonati. Io sono Francesco Locane e questo è 30×30: il mio 1994 in musica.

Queste sono le parole che introducono ogni puntata, disponibile più o meno nel giorno in cui è stato pubblicato il disco di cui parlo. È possibile leggere e/o ascoltare 30×30 in diversi modi:

  • iscrivendosi alla newsletter;
  • sintonizzandosi su Radio Popolare, perché l’amica Elisa Graci ospita il micropodcast nella sua trasmissione Playground, in onda in etere e streaming dal lunedì al venerdì alle 1630;
  • andando sulle tante piattaforme di streaming che lo ospitano.

Come sempre, ogni commento, feedback e parere è ben voluto.

Dagli archivi: If a Tree Falls: A Story of the Earth Liberation Front (Marshall Curry, 2011)

Quando si parla di terrorismo internazionale, tutto è ormai relativo all’undici settembre del 2001. Ma quasi dieci anni prima nasceva in Gran Bretagna una delle organizzazioni terroristiche più potenti ed efficienti della storia, l’Earth Liberation Front. L’ELF (azzeccare una sigla non è cosa da poco: per esempio, in questo caso l’acronimo permette di chiamare gli attivisti “Elves”, cioè elfi) si costituisce per combattere, attraverso azioni mirate e di guerriglia, chiunque sfrutti e distrugga l’ambiente. Sono parole dell’ufficio stampa del Fronte, non mie: capirete che, da un lato, l’obiettivo è condivisibile (i metodi – sabotaggi, incendi, devastazioni varie – molto meno, sebbene non abbiano mai provocato vittime), e che dall’altro, avendo un ufficio stampa, stiamo parlando di un’organizzazione strutturata e pronta a comunicare all’esterno.

Di questo strano organismo, composto da cellule indipendenti e sparse su tutto il pianeta, parla If a tree falls, documentario presentato all’ultima edizione del Sundance Festival.

Marshall Curry, che ha scritto il film insieme a Matthew Hamachek, racconta in meno di un’ora e mezzo la storia dell’ELF, concentrandosi in particolare sul momento più importante dal punto di vista narrativo: è quello che va dal 2001 (non a caso) al 2005, sei anni di azioni continue, culminati con l’arresto di Daniel McGowan (un normalissimo impiegato dei Queens, con laurea in economia e figlio di un poliziotto) da parte dell’FBI, in un’operazione che mette le manette intorno ai polsi di altre tredici persone dando una poderosa stoccata alle cellule nordamericane del Fronte.

Attraverso interviste e, soprattutto, moltissimo materiale inedito, i registi riescono a parlare di terrorismo con obiettività e controllo: un risultato non facile, dopo l’attentato alle Torri Gemelle. La materia narrativa è facilmente gestibile se si usano gli strumenti giusti: gli autori adoperano delle griglie quasi da thriller per riflettere sull’operato dell’ELF, di conseguenza sulle questioni ambientali e, infine, su cosa sia definibile come terrorismo.

Tutto è partito da un fatto vero: ce lo racconta McCurry stesso nella cartella stampa del film.

In una fredda giornata di dicembre di circa cinque anni fa, mia moglie, tornando dal lavoro, mi raccontò che quattro agenti federali erano entrati nel suo ufficio e avevano arrestato uno dei suoi dipendenti, Daniel McGowan, per “ecoterrorismo”. (…) Come era successo che uno come lui dovesse affrontare un ergastolo per terrorismo? Era corretto usare la parola “terrorismo” per descrivere distruzioni di proprietà in cui nessuno veniva ferito? Che cos’era questo gruppo che agiva nell’ombra, l’ELF? Come si era formato e perché? Che cosa poteva fare pensare a qualcuno che un rogo fosse una risposta ragionevole ai problemi ambientali? Sam Culman (direttore della fotografia e co-produttore) e io abbiamo deciso di scoprirlo.

Un bel documentario, controverso e coraggioso: un po’ come l’ELF, ma meno incendiario.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nell’aprile 2011

Dagli archivi: BlackStarman: addio a David Bowie

Look up here, I’m in heaven
I’ve got scars that can’t be seen
I’ve got drama, can’t be stolen
Everybody knows me now

(da “Lazarus”)

Quando questa mattina la notizia è rimbalzata sui profili di amici (veri o fittizi) su Facebook, ho pensato: è una bufala. Poi ho sentito “Heroes” alla radio e la conferma della notizia: David Bowie è morto ieri, dopo diciotto mesi di battaglia con un cancro che l’ha avuta vinta su una delle figure che ritenevamo immortali. Bowie è morto davvero, pochi giorni dopo avere dato alle stampe Blackstar, l’ultimo di una lunga serie di album che hanno definito non solo la musica, ma – nell’accezione più ampia del termine – il mondo degli ultimi cinquant’anni. Mezzo secolo in cui Bowie ha scritto, composto, recitato, inciso, suonato dal vivo, è caduto e si è rialzato, ha dato vita e ucciso alter ego (da Ziggy al Thin White Duke), ma anche mezzo secolo in cui uno dei più grandi artisti che il pianeta abbia conosciuto ha ascoltato, nel senso più ampio, le pulsioni del mondo intorno a lui per ridarne una sua lettura e, spesso, anticipandone gli sviluppi.

Il beat e il pop dei primordi, l’ariosità degli anni ’60 e l’amarezza con cui quel sogno è finito, il senso di cupezza e speranza, fine e progresso insieme degli anni ’70, la (ri)scoperta e la visione algida e plastica della disco e del soul, le oscurità elettroniche e la jungle, la consapevolezza degli anni Zero: queste rapide tappe sono quelle percepite da chiunque abbia vissuto gli ultimi decenni, ma sono anche delle linee di lettura possibili del percorso artistico di Bowie e, allo stesso modo, una traiettoria nella cultura pop moderna e post-moderna. Questo perché il musicista è stato al nostro fianco per tutto questo tempo, ha commentato con le sue canzoni, i suoi film, i suoi concerti, i suoi vestiti il nostro mondo, per poi tornare a se stesso negli ultimi due splendidi dischi.

Sono proprio The Next Day e Blackstar a darci tante importanti “lezioni” riguardo a questi tempi, in cui ognuno di noi è star e impresario di se stesso.
La prima è la discrezione: quando uscì la prima canzone dopo anni di silenzio, “Where Are We Now?”, uscì di sorpresa. Niente teaser, trailer, gif, nulla. Solo un brano e un video: le sorprese sono belle proprio perché in quanto tali arrivano dal nulla. La stessa che (non) ha circondato l’uscita di Blackstar e la malattia di Bowie. La stessa discrezione che pare sia impossibile da mantenere in questi giorni, in più di un contesto in cui sarebbe da ambire.
La seconda ha a che fare con il rapporto con la nostalgia e la memoria: tornando a The Next Day, è chiaro come Bowie, in quello che si rivelerà il suo penultimo disco, rilegga se stesso, riguardi la sua carriera, dalla copertina al testo del primo singolo: tutto lo indica. Ma lo fa creando qualcosa di nuovo, come ha fatto quasi sempre, non limitandosi – come si fa spesso in questi giorni di retromanie – a copiare-e-incollare il passato (e lui è uno dei pochi che se lo poteva permettere, di nuovo quasi sempre).
L’ultima riguarda il rapporto con il presente e il futuro: Blackstar è un disco che ha tanti riferimenti ai lati più difficili dell’oggi, senza avere la pretesa di raccontarli direttamente, ma usando parole e musica per evocare e suggerire, lasciando molto lavoro all’ascoltatore. Rivoluzionario, in un’epoca di pappe precotte di ogni gusto e per ogni occasione. E inoltre Bowie ha voluto realizzare il suo ultimo disco con dei giovani jazzisti: avrebbe potuto suonarlo con chiunque, ma davvero chiunque sulla faccia della Terra, e invece no. Le sette canzoni che compongono il testamento di Bowie sono lanciate verso il futuro: un futuro che ora, nell’immediato, vedrà miliardi di parole, incluse queste, spese per ricordare la stella, ma che poi sarà composto da tanti attimi in cui godremo della sua luce, perdendoci ancora una volta nelle meravigliose musiche che ci ha lasciato.

Originariamente pubblicato sul sito di Radio Città del Capo, gennaio 2016

Neneh Cherry: la libertà è oggi

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“Seven Seconds”? Sì, va bene. Ma la canzone più famosa interpretata da Neneh Cherry insieme al fratellastro Eagle Eye è un granello nella vastità del patrimonio musicale della figlia(stra) del grande trombettista Don, della giovane post punk frontwoman dei Rip, Rig & Panic, di un’artista che si è continuamente messa in discussione flirtando con ogni genere musicale e mettendo in primo piano, sempre, “l’espressione di ciò che sono”, come mi ha detto nell’intervista che potete leggere qua sotto, ascoltare sul sito della radio e sentire in onda oggi alle 16, durante l’ultima puntata di Maps. Ma la chiacchierata con la splendida cinquantenne è cominciata con le sue scuse, ripetute più volte, per il ritardo con cui ha risposto al telefono. E si è conclusa con svariati “tesoro” e ringraziamenti sinceri. Senza contare i grazie che potete leggere qua sotto. Insomma, la Cherry non è solo una musicista rara, ma anche una persona speciale e pare speciale il rapporto con Bologna. “Oh sì, ci sono stata… Quand’era… Mi sa che è passato un po’ troppo tempo perché mi ricordi bene. Credo sia stato quando l’Italia ha vinto la Coppa del Mondo di calcio, quando può essere stato… Nell’82? Ero proprio a Bologna con i Rip Rig & Panic e con mio padre. È stato fantastico: tutta la città sembrava morta, tutto era chiuso e si potevano sentire le persone a casa che guardavano la partita. Al fischio finale tutti si sono riversati per strada ed è stato il delirio.”

Mi sa che si è verificato lo stesso quando abbiamo vinto l’ultima Coppa del Mondo…
Lo immagino… Be’, insomma, io c’ero, ero a Bologna!

Incredibile… Parliamo dell’ultimo album: è stato uno dei nostri dischi della settimana… un lavoro bellissimo che abbiamo amato molto…
Che bello! Grazie mille! Queste sono davvero le cose che danno senso alle mie giornate. Grazie.

Che cosa ti ha spinto a farlo?
Be’, penso che ogni tanto sia la vita che ti spinge fino al limite e l’unico modo che conosco per risolvere alcune questioni della mia vita è essere creativa: ed è venuto fuori Blank Project. Mia madre è morta, quand’è stato?, tre anni prima che il disco uscisse, anzi, prima che lo registrassimo. Ho iniziato a scrivere come una specie di terapia, con un po’ di disperazione, per provare a uscire da un momento difficile. Ma è stata un’arma a doppio taglio: da un lato una sorta di terapia, per uscire da un periodo buio, ma anche un modo per ricordare e celebrare nuovamente la vita. Quindi penso che allo stesso modo ci siano due lati nel disco: intensità e imbarazzo, insieme a una parte più pesante, per rimettere insieme i pezzi, quelli del lato più bizzarro e divertente della vita.

Non è rischioso collegare canzoni che suonerai, suonerai e suonerai ancora a un dolore tale?
Per me la creatività ha sempre a che fare con l’espressione e con ciò che sono. Quando si ascolta Blank Project, probabilmente si sente che ha molto a che fare con il tempo in cui è stato prodotto, ma le canzoni, per quanto siano legate a un periodo, cambiano sempre. Magari certe sono molto significative rispetto a un momento definito, ma per me sono sempre cangianti, e hanno una vita propria, raccontano la loro storia. Se pensi a Blank Project, anche se le canzoni sono legate al momento in cui mia madre se n’è andata e cose simili, penso che la maggior parte non siano semplicemente biografiche. Non so se mi capisci… Insomma, cerco sempre di non scrivere solo di me stessa, anche se uso le mie emozioni. Mi segui? Sono una specie di trampolino, ma cerco di immaginarmi come fossi un’altra persona, come se prendessi in prestito altre vite per metterle nelle canzoni. Fare il disco è stato un sollievo, mi ha riportato in vita e anche se ci sono delle parti di canzoni che sono malinconiche o tristi, il processo di produzione mi ha reso felice.

Un processo che è stato molto breve, durato solo cinque giorni. Come hai coinvolto i collaboratori?
Innanzitutto ho lavorato con Cameron, mio marito: lo faccio da tempo. C’erano poche persone coinvolte nella fase di scrittura, poi abbiamo passato le canzoni ai Rocketnumbernine, che sono un duo, Ben e Tom Page. Sono in due e possono suonare come fossero effettivamente due persone, ma anche come se fossero in sei. È interessante, perché sebbene siano un duo elettronico live, nulla è programmato, suonano tutto dal vivo. La collaborazione insomma è andata nella direzione che volevo: musica elettronica, ma suonata in modo sperimentale. Insomma: il disco è cominciato tra me e Cameron e poi è cresciuto con i due ragazzi che hanno portato il suono giusto e la forza alla musica, dando il via alla produzione e al viaggio che si è concluso in cinque giorni, con la chiusura del disco. Prima di andare in studio a registrarlo, abbiamo provato le canzoni moltissimo, in modo tale che, una volta in studio, abbiamo avuto la possibilità, semplicemente, di lasciarci andare, di suonare le canzoni senza pensarci su troppo. Kieran Hebden, Four Tet, che ha prodotto il disco, aveva le idee molto chiare: “Faremo questa canzone, ci metteremo insieme in una stanza, e suoneremo insieme, senza sovraregistrazioni, aggiustamenti e cose simili”. E avevamo solo una settimana, cinque giorni per fare il disco: era tutto il tempo che Kieran aveva a disposizione. Quindi ci siamo detti: “Bene, dobbiamo chiudere due canzoni al giorno”. Ed è quello che abbiamo fatto! Era il modo giusto per produrre il disco, e anche il modo che ha di fare Kieran ci ha rilassati, ci siamo fidati di lui e delle sue opinioni e ciò ci ha permesso di essere sciolti, di seguire il nostro istinto e il cammino che ha tracciato. Un viaggio interessante, collaborativo in modo naturale: con i Rocketnumbernine siamo vicinissimi, c’è intesa molto forte tra tutti noi.

Oltre ai nomi che hai fatto, nel disco c’è anche Robyn: sei aggiornatissima sul mondo musicale! Sei un’ascoltatrice vorace, ti stimolano le novità, ascolti dischi compulsivamente?
Diciamo che a volte mi piace molto ascoltare bella musica e c’è musica nuova letteralmente ogni giorno, in ogni ora della giornata, specialmente grazie alla rete. Ci sono momenti in cui sto bene, in cui mi piace riempirmi le orecchie di musica; a volte capita che per settimane non ascolti nulla ed ecco che mi perdo una ventina di cose. Penso che la musica nuova sia importante, ma amo tantissimo anche i classici: insomma, ascolto cose diverse. Tuttavia musica nuova vuol dire nuove energie, diventa fonte di ispirazione. Ho ascoltato proprio oggi questa nuova rapper, Tink, davvero meravigliosa: l’ha prodotta Timbaland, ha un paio di pezzi davvero belli.

C’è qualcuno che ti passa la musica? Tuo marito o qualcuno di cui ti fidi, che magari quando ti passa un link lo apri senza indugi?
Sì, dietro l’angolo di casa c’è un negozio di dischi fantastico che si chiama Honest Johns: è sopravvissuto a tanti alti e bassi… Vendono vinili, musica africana, jazz… un gran negozio. E c’è un ragazzo che lavora con me, Phil, il figlio di Sean Oliver, il bassista dei Rip Rig & Panic: è un tipo davvero in gamba, a volte mettiamo i dischi insieme e mi passa un sacco di musica. Sa quali sono i miei gusti e mi dice “ascolta questo, ascolta quest’altro”… E poi… Be’, ci sono i miei figli ai quali rubo un sacco di musica!

Hai avuto una vita avventurosa, movimentata, anche musicalmente parlando. Ascolti mai i tuoi vecchi album? Cosa provi?
Mica così spesso! A volte mi dico: “Oddio, oddio che roba…”, altre volte sono sorpresa, ma la sfida è sempre quella che deve arrivare. Ciò che farò mi interessa di più rispetto a ciò che ho già fatto. Se ascolto cose vecchie è perché capita, del tutto casualmente, oppure perché mi devo ricordare una canzone che devo cantare, fare dal vivo… Capisci? A volte mi dico “Oh, ma è meglio di quel che pensassi” (ride), altre volte sono sorpresa… Ma vedi, di solito guardo avanti e, quando ascolto musica, è di altri, non la mia. Se capita, c’è una ragione… Ed è interessante perché da un lato suona molto familiare, è ovvio, l’ho registrata io quella musica, fa parte di me; d’altro canto è interessante perché è un lato di me dal quale mi sono separata ed è quindi andare altrove, in un altro tempo che però è quello che mi ha condotta fino a qua, al presente che viviamo ora. La cosa bella è che se mi guardo ora riesco a percepire finalmente un pizzico di libertà, un’apertura che ho sempre cercato, sai. In un certo senso mi sento come se avessi appena iniziato (ride): è bellissimo provare oggi questa sensazione di novità.

Che live vedremo a Bologna? Chi suonerà con te e come sarà composta la scaletta, considerando il tuo vastissimo repertorio?
Sarò con Rocketnumbernine e faremo per lo più le canzoni di Blank Project e poi faremo qualche classico, se avremo tempo, come “Manchild” e “Woman”. Sarà bello, perché abbiamo avuto bisogno di focalizzarci su Blank Project per definire il nostro stile in maniera unitaria, ma poi inserire in scaletta alcuni brani vecchi ha decisamente funzionato. Poi chissà: stiamo anche lavorando a dei pezzi nuovi e magari ne faremo uno dal vivo… È una scaletta piuttosto potente… Ci sono anche pezzi più calmi, ma se tutto andrà bene ci sarà una gran forza sul palco… È come un viaggio, la nostra musica è cresciuta col tempo e, paragonata a quella che puoi ascoltare su disco, è più piena e l’energia è diversa, nel senso migliore del termine. E siamo solo in tre: io, Ben al sintetizzatore e sequencer, e Tom, suo fratello, alla batteria.

Torres: una musicista in fuga, tra musica, Dio e marijuana

torres

Lo ammetto senza problemi: il primo disco di TORRES non mi aveva detto molto e non mi dice moltissimo ancora adesso. Ho trovato Sprinter decisamente più interessante e maturo. E ci mancherebbe: Mackenzie Scott è del 1991, è salutare che un debutto sia, diciamo, incerto, e che la crescente maturità si mostri con il tempo. La vera sorpresa, però, è stato conoscere la musicista di persona nello scorso Primavera Sound di Barcellona. Nella mezz’ora passata insieme mi è parso di avere colto un giovane talento in fuga da tutto ciò che l’ha formata, opprimendola, dal punto di vista politico e religioso: e probabilmente non solo in quegli ambiti. Quando mi parlava di Rob Ellis, produttore di Sprinter, aveva gli occhi che brillavano; quando ha nominato la marijuana ha ridacchiato come un’adolescente colta con le mani nella bustina. E quando ha parlato di Dio, del suo Dio, lontano da quello imposto da riti e rituali, si è illuminata. In conclusione: è stata una delle interviste più intime e intense che abbia mai fatto. La potete leggere qua, ascoltare sul sito della radio o ascoltarla a Maps oggi pomeriggio intorno alle 16.

Vorrei innanzitutto parlare del suono del nuovo disco: è differente dall’esordio, per quanto ci siano dei punti in comune. Qual è stato il ruolo del produttore Rob Ellis, com’è andata con lui?
Gli ho mandato una mail dopo avere registrato le versioni demo delle canzoni. Ero alla ricerca di un produttore che mi aiutasse a registrare l’album: l’ho contattato, gli ho mandato i demo e gli ho chiesto se potesse darmi una mano in qualche modo, se avesse un po’ di tempo per me. Lui ha acconsentito e, nei due mesi successivi, abbiamo parlato della preproduzione su Skype, perché vive nel Dorset, in Inghilterra, discutendo del disco, del suono che avevo in mente. È cominciato tutto così.

All’album ha lavorato anche Adrian Utley dei Portishead: mi pare che il disco abbia un tocco decisamente britannico…
Sì, sì, è vero!

Era qualcosa che volevi oppure è semplicemente capitato?
No, io volevo lavorare con Rob, siamo amici da un paio di anni, è uno dei pochi produttori che conosco. Sapevo anche che è un batterista e volevo che suonasse la batteria nell’album. Ma non pensavo avremmo registrato in Inghilterra, all’inizio credevo che sarebbe venuto lui negli Stati Uniti. Alla fine sono andata io là e lui ha chiesto a Adrian e altri amici se volessero suonare anche loro sul disco. È stata una bella sorpresa.

Accidenti! Quindi sei entrata in studio e hai trovato là Adrian Utley?
No, no. Sono arrivata in Inghilterra e Rob mi fa: “Ho chiesto a un po’ di amici di suonare nel disco. Ci sarà Ade, Olly…”. Al che gli ho detto: “Ma chi è Ade?”, e lui “Oh, è Adrian Utley!”. Con lui a dire il vero abbiamo registrato proprio nell’ultimo giorno in cui ero là. Siamo andati a Bristol nel suo studio e Adrian ha fatto qualche chitarra…

Ti brillano gli occhi ancora oggi, mentre me lo racconti.
Oh sì, è stato un sogno!

Uno dei temi principali del disco è la religione: ho letto qualcosa sulla tua vita e mi pare che il tuo rapporto con la religione abbia sia dei pro che dei contro. Ti va di parlarmene?
Sono cresciuta nella Chiesa Battista: era tutto ciò che conoscevo. La scuola che ho frequentato fino a quando avevo 18 anni, era una scuola cristiana presbiteriana. Sono stata indottrinata per bene, ma a questo punto della mia vita il mio rapporto con la religione… Be’, è molto diverso da quello che avevo allora. Non vado più in chiesa, ma posso dire che la mia fede è migliore di prima, si è evoluta in una forma molto più personale e ne sono stata felice. A dire il vero non ne parlo molto. Invece di andare in chiesa di domenica, agitando le mani di fronte a tutti e mettendo su uno spettacolo, prego in privato.

Ti dispiace se ne parliamo?
No, no, assolutamente.

Allora ti chiedo quale sia la differenza tra il Dio nel quale credevi anni fa e quello in cui credi oggi.
In realtà è lo stesso Dio: la differenza è che le persone per tutta la vita, per la maggior parte della mia vita, mi hanno insegnato delle cose sul Dio che adoravo che non credo fossero giuste. Il Dio che ho imparato a conoscere mentre crescevo era un Dio rabbioso, che condannava, che condannava teoricamente tutti… Sono le persone che mi hanno incasinato, che hanno danneggiato il rapporto che potevo avere allora con Dio. Ma ora ho posto una distanza tra me e queste persone che hanno rovinato tutto, sto riscoprendo Dio. Ed è grande.

Nel disco parli molto di te e di come stai cambiando: sei molto giovane e si cambia molto quando si è giovani. Parli di una “nuova pelle per la quale moriresti” e di umori cangianti. Ci sono delle parti diaristiche, come quando dici esplicitamente “farò 23 anni a gennaio”. Cosa è stato per te mettere nero su bianco queste parole e cos’è cantarle ogni sera di fronte a degli sconosciuti?
A dire il vero trovo che i live abbiano un potere quasi lenitivo: è stato molto più difficile all’inizio scrivere le parole che cantarle. La parte più dura è stata metterle su carta e pubblicarle. Ora che faccio i miei concerti e canto le canzoni dal vivo è come se questi versi siano già stati liberati e appartengano a tutti. Le performance non sono più su di me, quindi suonare le canzoni è facile e perfino divertente, proprio perché non parlano solo di me.

Sono incuriosito anche dal tuo rapporto con la natura e col mito. È sorprendente, alla fine di un disco spesso duro, sentire il cinguettio degli uccellini, o scoprire che in “A Proper Polish Welcome” ci sono riferimenti diretti alla mitologia. Come combini questi elementi con la religione di cui abbiamo appena parlato? Mi sembra sia una questione molto più complessa di quanto appaia a un primo ascolto.
Grazie! Dunque… Be’… Sono stata nuovamente ossessionata dalla natura negli ultimi due o tre anni. In parte ciò è dovuto alla marijuana, ma diciamo che per alcuni versi sono tornata bambina nell’accezione migliore del termine: sto riscoprendo un sacco di cose che davo per scontate. Ho recuperato il senso di meraviglia. Insomma, deriva un po’ da questo, un po’ dal fatto che ho riletto alcuni testi con i quali sono cresciuta. Conoscevo la storia di Adamo ed Eva e del Giardino dell’Eden, quella di Noè e della sua arca: sono una specie di parabole che, negli anni, si sono annacquate. Le ho riprese in mano e le ho rilette: sono terrificanti e maestose e ho provato a leggerle nella maniera più obbiettiva possibile, dal punto di vista di chi non abbia mai conosciuto queste storie. Si è venuto a creare un misticismo, la natura è diventata mistica ai miei occhi e ho voluto mettere tutto ciò nelle canzoni.

C’è un pezzo che mi ha davvero colpito, “Cowboy Guilt”, dove parli esplicitamente del tuo Paese. Si tratta di un lato politico del tuo disco, qualcosa che magari verrà sviluppato in futuro?
Non so se esplorerò in futuro questo lato politico. Se c’è una canzone politica nel disco, be’, è proprio quella. È molto ironica, va presa così, ma… Insomma, sono cresciuta nel profondo Sud del Paese, quello che ha celebrato George W. Bush, e la canzone parla del mio trasferimento a Nashville, nel Tennessee, che è stata la prima volta per me lontano da casa. Ho cominciato a bere whisky, ho trovato per la prima volta amici che pensavano in maniera molto diversa e che avevano idee politiche assai differenti da quelle con le quali sono cresciuta. La canzone, insomma, ci vede prendere in giro l’ambiente politico nel quale siamo stati allevati. Insomma, si ride per non piangere! (ride).

Mi pare che tu abbia iniziato una specie di nuova vita, ma ricordi quando è uscito il tuo primo disco? Sei letteralmente esplosa, tutti i giornalisti parlavano di questa Torres, ci si chiedeva: “Ma chi è questa ragazza?”. Che ricordi hai di quel periodo?
È strano, sai, perché ora tutto sembra relativo, non sono davvero cosciente di ciò che la stampa dice di me… All’epoca semplicemente sapevo di dover fare più concerti, più viaggi: tutto era molto eccitante. In quel periodo pensavo che avrei avuto delle royalties, che avrei alloggiato in hotel splendidi… ma mi è capitato anche di suonare in locali che non avevano nemmeno il bagno. Quando sono in tour mi succede anche di starmene seduta in furgone per dieci ore di fila, quando ci spostiamo da uno Stato all’altro. È strano: per certi versi è fantastico, ma per altri, per tanti altri mi sento davvero come se avessi appena cominciato, come se non avessi nemmeno grattato la superficie della cosa.

Pensi che tornerai prima o poi a casa, nei luoghi da dove provieni? E non intendo solo i luoghi geografici, ma anche dello spirito. Te lo chiedo perché mi sembra tu abbia tracciato un confine ben preciso tra quello che eri e quello che sei ora. Uno degli insegnamenti della religione cristiana è di perdonare e di stare insieme. Che ne pensi?
La scrittura del disco è stata, per me, un processo di perdono: è una delle ragioni principali per cui l’ho prodotto. Avevo bisogno di perdonare tante persone, me compresa, per tutta una serie di problemi emotivi e spirituali che ho provocato ad altri quando ero più giovane. C’è un grande bisogno di perdono nel’album, l’ho messo brani che lo compongono. È difficile dire che succederà: tutti dicono che prima o poi si ritorna alle proprie radici, a casa, in un modo o nell’altro. Quindi, se lo intendiamo nel senso letterale, è molto probabile che io “ritorni da dove provengo”, che torni in chiesa, ma sarà a modo mio, stavolta. E solo se lo riterrò giusto. Ho tracciato una linea netta, sì: ci sono sistemi politici e sociali dei quali non vorrò mai più fare parte, e lo so con certezza. Non so però che succederà.

L’ultima domanda, dopo tutti questi discorsi profondi, è più leggera: mi dici quali sono i tuoi cinque dischi dell’isola deserta?
(ride) Ok. Allora: Strange Mercy di St Vincent, sempre. Another Green World di Brian Eno. Poi… Rumours dei Fleetwood Mac. E… aspetta, posso controllare il mio telefono? Non sono sicura di che dire, non mi ricordo! Ah sì! In Utero dei Nirvana e poi… Accidenti… Sì: Live at Folsom Prison di Johnny Cash.

Di |2015-06-23T11:14:34+02:0023 Giugno 2015|Categorie: I'm Happy Just To Dance With You, Things We Said Today|0 Commenti

Enzo Baldoni, dieci anni dopo

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Ero teso, nella sera del 26 agosto 2004. Era un estate difficile. Un editore con il quale stavo lavorando aveva rifiutato il mio romanzo, in maniera piuttosto inaspettata. Da pochi mesi avevo un lavoro “vero”, nel senso che era svolto e pagato con continuità: un impegno non da poco. Ma, soprattutto, da qualche giorno non c’erano notizie di Enzo Baldoni, partito per l’Iraq un mese prima.
Conoscevo Enzo come si conoscono ormai sempre di più le persone: attraverso la rete. Da fedele lettore di Linus ero incappato nella sua ZonkerList, mi ero registrato con il mio soprannome di allora. Nelle mail che ci scambiavamo, Enzo mi chiamava Il Malva: gli avevo mandato la mia prima raccolta di racconti e, anni dopo, gli avevo proposto una collaborazione con la Radio per la quale lavoro ancora. “Cartoline da Baghdad”: ecco come si chiamava la rubrica che registravo nello studio più piccolo della radio, con l’emozione del giornalista tesserato da poche settimane e con la gioia di un ventiseienne.

Mia madre mi svegliò quando arrivò la notizia del rapimento. Corsi a Bologna, feci una rassegna stampa in diretta, dal treno che mi portava nella mia città adottiva. Da quel momento iniziava un turbinio totale, troppo grande per me di certo, ma non feci in tempo ad accorgermene. Tenevo botta, non mi preoccupavo di parlare al telefono con giornalisti molto più blasonati di me, gente che sentivo alla radio o vedevo al TG e che, in quell’agosto di dieci anni fa, si riferivano a me, perché ero uno dei pochi con cui Enzo aveva dei contatti. Mi ricordo una sera, seduto per terra in piazza San Francesco. Il mio cellulare squillava spesso e spesso comparivano numeri che non conoscevo, e c’erano dei ronzii sulla linea. Dicevo quello che sapevo, prendevo appuntamenti e pensavo: “Ma io sono troppo piccolo per questo.” Su quello stesso telefono, poco dopo, quando ero in un’altra piazza di Bologna, mi arrivò un sms della mia amica A. Diceva solo “mi dispiace”.

Mi precipitai a casa e iniziai a navigare, per cercare di capire. Mandai un sms a Pino Scaccia: ci “conoscevamo” solo attraverso il blog di Enzo, ci sentimmo subito. Mi confermò che la notizia dell’avvenuta esecuzione era veritiera. Piansi molto, quella sera, e una risacca di lacrime affiorò anche la mattina dopo in radio, quando il direttore di allora, appena mi vide, mi portò fuori. Poco dopo ero là che cercavo di capire i molti lati oscuri di quei giorni, con l’istinto, la rabbia e la goffaggine di un giovanissimo giornalista che si occupava di cinema, di cultura e che ora si trovava a chiamare in Iraq, a filtrare scemenze, a dare notizie all’ANSA.

Domani sono dieci anni che Enzo è morto. Non è stato facile, in questi ultimi giorni, rimettere mano alla mole di documenti, registrazioni e trascrizioni accumulate in un periodo brevissimo, neanche un mese, e poi confluite in diversi speciali realizzati per Diario, Radio Popolare e Radio Città del Capo. Ma era ora che le “Cartoline da Baghdad” tornassero sul sito di Radio Città del Capo. Non solo per non dimenticare, ma anche per godere dell’acume e dell’intelligenza di Enzo Baldoni, del suo occhio su un Paese che, dieci anni dopo, non è minimamente pacificato.

Musica in cui immergersi: intervista ai Temples

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Di Sun Structures, uscito per la Heavenly Recordings a febbraio, mi ha colpito immediatamente la copertina: la band è ritratta in una radura in mezzo a un bosco, con alle spalle una costruzione che, pur “montata” nella fotografia, sembra quasi elevarsi, staccarsi da terra. Ho pensato, prima ancora di ascoltare l’album, all’esoterismo britannico e alle sue rappresentazioni, così diverse da quello mediterraneo. E mi è venuto in mente uno dei miei film preferiti, The Wicker Man, che mischia esoterismo, paganesimo e riti druidici. Capirete la mia sorpresa quando il bassista e cantante dei Temples, Thomas Warmsley, ha citato proprio la pellicola di Robin Hardy come “una delle preferite” della band britannica: eppure c’è un legame profondo che lega questi venticinquenni delle Midlands a qualcosa di ancestrale, attraverso la via del pop psichedelico a cui chiaramente il quartetto si rivolge. Molti hanno bollato l’album di debutto come una scopiazzatura: credo, invece, che certi suoni e certe strutture musicali il popolo britannico le abbia dentro, e che affiorino assumendo forma diversa a seconda del momento storico. Dopo avere parlato proprio di psichedelia anche con gli Horrors, ecco l’intervista con i Temples, che potrete ascoltare in onda a Maps oggi pomeriggio o in streaming sul sito della radio.

Vorrei innanzitutto parlare del vostro futuro e della pressione che immagino sentiate da parte della stampa musicale britannica e mondiale. Siete una band molto giovane, ma il vostro successo sta crescendo rapidamente. Qual è il vostro antidoto?
Credo che sia qualcosa che le band non possano controllare, è qualcosa che avviene esternamente rispetto a quello che succede all’interno di un gruppo: ma come Temples, da subito, abbiamo dovuto suonare molto dal vivo e siamo dovuti crescere come band di fronte a tutti. Credo che questo ti porti all’onestà, non puoi nascondere nulla, devi essere quello che sei sul palco, come gruppo nel suo complesso. Non abbiamo pensato molto a quello che stavamo facendo, ci siamo solamente concentrati su chi eravamo e sul suonare al meglio. È stato un lungo processo di apprendimento: non direi che siamo “arrivati” come band e questo rende ogni concerto molto divertente.

Che mi racconti del tipo di musica che suonate? Sentite nell’aria il revival psichedelico di questi tempi? Hai scoperto questo genere per caso o sentendo un disco dei tuoi?
Per quanto riguarda il revival psichedelico, ci sono un sacco di gruppi che finalmente hanno un po’ di attenzione, band che sono in giro da diverso tempo, pensa ai Black Angels, per esempio: suonano da dieci anni, o quasi. Penso che la gente stia finalmente prestando più attenzione a questo tipo di musica, magari perché ci si rende più conto dell’importanza di andare ai concerti e sentire com’è davvero una band dal vivo. È un’esperienza unica, e in quanto tale semplicemente non si può sostituire o replicare. Ecco forse perché sta diventando più popolare, ma non ne sono sicuro. La cosa vale di certo per noi: siamo fan della musica psichedelica e specialmente della musica pop degli anni ’60 e ’70. Mi piacciono i dischi che puoi ascoltare dall’inizio alla fine, capaci di creare un’atmosfera: molti degli album che preferisco lo fanno, e portano l’ascoltatore altrove, in cinquanta minuti, dall’inizio alla fine di un disco, nel quale ti immergi completamente. Credo che questa sia una caratteristica molto importante della nostra musica.

Torniamo agli anni ’60 e non al lato pop: in quell’epoca la musica e la cultura psichedelica era un modo per evadere, per sfuggire alla realtà. Secondo te questo assunto vale ancora oggi, visto che fate musica psichedelica? Ha ancora questa funzione?
Penso che ogni tipo di musica abbia un suo immaginario e una sua ragion d’essere, ma penso che sfruttare un’idea e creare un’immagine vivida con la musica sia davvero ciò che ci interessa. Come ho detto prima, molte delle nostre band preferite e dei nostri dischi preferiti lo fanno. Penso che ci sia una qualche forma di escapismo, se non altro perché l’ascoltatore è immerso nella musica e nel mondo del disco, ma nel nostro caso creare questo non ha una ragione precisa, non è una reazione a qualcosa. Siamo più interessati agli effetti sull’ascoltatore.

Le reazioni al vostro album di debutto sono state piuttosto diverse, ma spesso estreme. Non mi interessano tanto le recensioni positive, perché sono d’accordo: il vostro è un buon disco. Cosa pensi, invece, che abbiano in comune le critiche negative, sempre che tu le abbia lette?
Penso che le persone tendano a essere molto critiche nei confronti di chi si ispira al passato, specialmente a un certo tipo di musica che attinge dagli anni ’60, quell’epoca lì. Di certo se suoni musica di quel tipo, devi aggiungerci qualcosa e portare qualcosa di nuovo a quello che fai. Penso che ci siano sicuramente citazioni nella nostra musica, ma cerchiamo di andare oltre a questo. Le nostre canzoni possono anche essere scritte in maniera tradizionale, ma mi piace pensare che il modo in cui lo facciamo e il nostro approccio alla musica sia qualcosa di nuovo, e che le cose forse non sono mai state mischiate prima. Forse la gente non si interessa davvero a noi e l’unica cosa che nota è questo pastiche con musica del passato, ma è solo una piccola parte di quello che facciamo.

Hai mai pensato che qualcuno potrebbe vedervi come “invasori” di un’epoca storica, di cui magari si è molto nostalgici, e che quindi qualcuno si possa “lamentare”?
Forse sì. Penso che quello che la gente va cercando sia il suono del disco e come lo usi per creare ciò che stai facendo. Anche se non ci abbiamo riflettuto più di tanto, volevamo essere certi che il mix fosse giusto, che il risultato suonasse autentico, ma che fosse anche fresco e diverso allo stesso tempo. Altre band hanno fatto lo stesso nel passato, si tratta di dare la tua impronta alla musica, di trovare la formula giusta, e noi abbiamo cercato di fare il meglio che potevamo. Ma alla fine credo si venga semplicemente influenzati dal tipo di musica che ti piace davvero, non c’è altra ragione per suonarla. Che alle persone piaccia o meno, penso sia irrilevante.

Cosa significa fare musica nel Regno Unito oggi e non venire da o vivere a Londra? A dire il vero non sono sicuro che voi non abitiate a Londra, ma non provenite da lì di certo.
Sì, a dire il vero ora sono a Londra, ma comunque penso che il maggiore vantaggio di non vivere nell’ambiente di una città sia la possibilità di concentrarsi in maniera diversa sulla musica, un vantaggio quando devi creare il tuo album. Si tratta di focalizzarsi in maniera diversa, a seconda che ti trovi in campagna o in città. Per noi però la cosa fondamentale è che veniamo tutti e quattro dalla stessa cittadina, dallo stesso luogo: e spero che questo si traduca anche nella nostra musica, che non sembri che veniamo da posti qualsiasi. Non penso che la band sarebbe la stessa altrimenti. Ci sono tante città nel mezzo dell’Inghilterra in cui si produce buona musica, e le band che ci sono si possono considerare più isolate o comunque con una cultura diversa di quelle di città. C’è un’ispirazione unica e diversa.

E il vostro modo di comporre? Come hai detto, vivere a Kettering e cominciare a suonare in camera, come molte band fanno, ha mantenuto e formato la vostra musica dagli inizi, ma ce n’è di distanza tra il suonare tra quattro pareti e di fronte al pubblico del Coachella.
I Temples sono essenzialmente nati in studio, come un esperimento di registrazione, direi. L’idea di suonare qualcosa dal vivo, un set intero o qualsiasi altra cosa di fronte a un pubblico ci era un po’ ostile, o almeno era una cosa che non avevamo considerato assolutamente all’inizio. Tradurre canzoni che erano nate per essere suonate in studio in una forma che potesse funzionare dal vivo è stato un processo strano. Molte band provano per mesi e poi registrano un disco: noi abbiamo fatto al contrario, abbiamo registrato molto velocemente e poi fatto più concerti che riuscivamo a fare, così suonavamo dal vivo, tutti e quattro insieme: abbiamo così sviluppato i brani dal vivo, registrando anche mentre eravamo in tour, tornavamo in studio a lavorare su canzoni che avevamo imparato a sviluppare suonando live. Questo test dal vivo è stato una parte enorme del lavoro fatto con la band. E sono certo che il disco suonerebbe in maniera molto diversa se non l’avessimo fatto, se non fossimo una live band, se non ci fossimo permessi di sperimentare con le canzoni dal vivo.

Ti piacciono ancora le canzoni di Sun Structures sentite su disco?
A dire il vero non lo ascoltiamo più molto. Molte delle canzoni sono state registrate nel corso dell’ultimo anno. Abbiamo raggiunto l’obiettivo di creare un’atmosfera su disco, ma non ci pensiamo molto, visto che ora siamo concentrati sui concerti: come ho detto prima, è qualcosa di completamente diverso, che ti obbliga a dimenticare ciò che hai definito in studio e imparare di nuovo le canzoni suonandole live. Credo che in questo modo il concerto diventi qualcosa di unico e speciale, perché non ci sono confini nel suonare un pezzo dal vivo, può prendere forme diverse…

Quindi avremo modo di sentire nuove versioni di brani che già conosciamo o i prossimi concerti in Italia potranno riservarci qualche sorpresa?
Ci saranno momenti di improvvisazione, non abbiamo paura… Voglio dire che se decidiamo di espandere una parte di una canzone dal vivo, lo facciamo, anche se prende una forma diversa dal disco. Una decisione importante da prendere è quello che si vuole mantenere e quello che si vuole cambiare dei pezzi, o quello che ti puoi permettere di sviluppare dal vivo. Quindi non posso dire molto, ma immagino di sì.

C’è un disco che ti ha cambiato la vita, come persona o musicista?
Tanti, mi sa… Ma citerei il primo disco dei Pink Floyd,
The Piper at the Gates of Dawn. La prima volta che l’ho ascoltato ho pensato che allo stesso tempo avesse un’incredibile energia punk e fosse in grado di creare un immaginario unico, con un’eloquenza notevole. Penso che sia proprio la combinazione di questi due elementi che fa di quel disco un grande album, con idee interessanti: penso che sia un modo interessante di vedere il pop, perché poi è di quello che si tratta. Ci sono suoni inusuali e incredibili, di certo è per noi Temples uno dei nostri dischi preferiti.

Di solito concludiamo le nostre interviste con la solita domanda dei dischi dell’isola deserta, ma questa volta la cambiamo un po’, e quindi: che libro, film e cibo ti porteresti sull’isola deserta, se dovessi partire ora?
Il libro sarebbe di certo
The Old Straight Track di Alfred Watkins: sarebbe una lettura interessante. Si tratta di un libro scritto negli anni ’20 che ha a che fare con antiche mitologie britanniche, con le linee temporanee [linee immaginarie che collegano monumenti o megaliti, alle quali sono attribuiti poteri magici o particolari, ndr.] che attraversano la Gran Bretagna. Sì, sarebbe una cosa interessante da portarsi dietro, così come tutto ciò che ha a che fare con le fiabe e con i tempi passati della Gran Bretagna, quando tutto era più semplice. Il film sarebbe The Wicker Man, uno dei preferiti della band, ci piace guardarlo. La regia è di Robin Hardy e ha una colonna sonora fantastica: un film tipicamente britannico che ci ricorda casa. E il cibo, be’, due fette di pane. Poi vediamo che metterci in mezzo.

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