Archivi mensili: Gennaio 2012

Assistenzialismo

Sono abituato malissimo, come voi credo, con le assistenze tecniche, gli help desk e tutto ciò in cui mi mette una situazione di bisogno perché non so fare una cosa. Spesso, quindi, ho raccontato piccole tragedie da camera (Kammertragödien, per i colti maccheronici) svolte in linea con operatori o messe in scena in negozi e simili. Ma molto più di frequente ve le ho risparmiate, un po’ per evitare di farvi pena, un po’ per evitare di farmi pena.

Talvolta, però, succede che tu hai un problema tecnico, non sai come fare, e sei costretto a mandare una mail a help@.
E loro ti rispondono.
E no, non è una risposta automatica di cinque parole le cui iniziali lette in verticale formano l’imperativo P.U.P.P.A. Ti rispondono davvero e provano a risolvere il problema, chiedendoti di mandare il file. Allora tu, sprezzante dell’imminente delusione, mandi il file e aspetti, sentendoti come il naufrago che vede il brillare della bottiglia con il messaggio dentro mentre si riempie d’acqua, a largo.
Ma loro ti scrivono di nuovo, dicendoti di provare questo e quest’altro. E tu lo fai, ma, ohibò, il problema non si risolve. Con il cuore in gola, lo comunichi, con una mail che trasuda timidezza e martirio. Sai che quello che stai vivendo non è reale, è inconcepibile. Ti è già successo una volta, e queste sono cose che la vita concede una tantum. Lo senti: arriveranno sventure bibliche per avere ottenuto quelle risposte. Ma, anche senza scomodare il caro vecchio Testamento (che tutti sanno si tratta in realtà di una novelization di un vecchio film in Technicolor redatta senza editor), semplicemente ti senti in colpa per avere ottenuto un servizio. Anzi, ti senti un parassita rompicoglioni. Come stai messo. Ma ormai è troppo tardi: la mail è partita.
Una nuova risposta, con in allegato il tuo file rimesso a posto da loro. E il problema è quasi risolto.

Ringraziate quindi, con me, il prode team di WordPress. E concentrate le vostre maledizioni su Groupalia, che mi ha fregato venticinque euro. Ho un altro help desk da contattare, un’altra missione da compiere. E si ricomincia.

Grandi soddisfazioni

Conservo ancora gelosamente i primi cd-r che un musicista dagli occhi un po’ spiritati mi diede qualche anno fa. Sul primo c’è una foto ritoccata di Maurizio Merli che imbraccia un mitra. In alto a destra la scritta “Bologna Violenta”, tutto in maiuscolo, con font stencil. Con lo stesso carattere, in basso a sinistra, due iniziali, “N.M.” Molti di voi sapranno che “Bologna Violenta” è il nome d’arte di Nicola Manzan, polistrumentista veneto, che riprendendo un titolo di un poliziesco italiano mai girato, ripensa uno dei generi più estremi della musica, il grindcore (se non sapete cos’è, mica è colpa vostra: ecco che ne dice Wikipedia). A questo promo (e a un altro cd-r chiamato Il concerto) è seguito un primo disco, Il nuovissimo mondo, pubblicato due anni fa dall’appena scomparsa etichetta Bar La Muerte.

Quel primo disco Manzan è venuto a farlo da me dal vivo in radio, e proprio oggi sul sito di Maps esce l’intervista fatta al musicista a proposito dell’ultimo Utopie e piccole soddisfazioni: il suono di Bologna Violenta si apre agli archi, in una combinazione più che interessante. Lasciando perdere le utopie, comunque, è una grande soddisfazione per me unire un party di Maps alla presentazione ufficiale del nuovo disco di Manzan. Dopo il suo concerto, preceduto dal live degli ottimi Fast Animals and Slow Kids, ci saremo io e Alice di Urban Sherpa a farvi ballare. Il tutto domani, al Covo.
Astenersi deboli di cuore.

Cum Cordis

All’italiano piace tantissimo creare narrazioni su di sé, il più delle volte non veritiere, ma auto-elogianti o di un’autocritica tanto tragica e grottesca da risultare innocua. Nella terribile vicenda del naufragio della Costa Concordia c’è stato immediatamente lo spazio per ritagliare dai giornali e dalle cronache, come figurine di Propp, le sagome dell’eroe, dell’antagonista, dell’aiutante, eccetera. E, contemporaneamente, di metaforizzare una sciagura (evitabile e per questo ancora più atroce) per parlare, ancora una volta, del nostro Paese.
Probabilmente questa ipernarrativizzazione allontana chi la legge da quello che è il reale oggetto del racconto. Altrimenti non si possono davvero spiegare comportamenti inumani come quello immortalato nella foto in alto, che da qualche giorno gira in rete.

Di |2012-01-23T09:00:10+01:0023 Gennaio 2012|Categorie: Taxman|Tag: , , , , , |2 Commenti

Un racconto su Voices from Italy

Mi piace che, ogni tanto, le mie parole vengano richieste al di fuori di ambiti strettamente lavorativi: è bello farle sgranchire e scorrazzare in territori naturalmente più liberi di quelli di articoli, spot, trasmissioni, post, eccetera. Quando mi ha contattato il collettivo Microphotographers, mi è stato solo detto di scrivere qualcosa sulla famiglia. “In che senso?”, ho chiesto. “In quello che gli vuoi dare tu”, mi hanno risposto. Sapevo, certo, dell’esistenza di questo gruppo di fotografi di stanza a Milano, e di una di essi, A., avevo già parlato qua; conoscevo anche Voices from Italy, ed è proprio là che è finito il mio racconto, intitolato “La foto di famiglia”.

Mi capita, ogni tanto, di voler giocare con il surreale, con il fantastico: ripenso, quando sento di volere scrivere in questo modo, allo sfasamento tra ciò che è narrato e ciò che dovrebbe essere che si trova talvolta nei racconti di Buzzati o in certi episodi di Ai confini della realtà. Poi non arrivo neanche lontanamente a quei risultati, ma sono quelle le immagini e le parole che ho in mente rileggendo questa storiella. Oltre, certamente, alla gioia di vedere ruzzolare parole, pensieri e idee senza limiti se non quelli delle battute e della scrittura su un tema tanto vicino quanto complesso.

Dire no all’artismo

Caro Wayne Coyne,

innanzitutto tanti auguri per il tuo cinquantunesimo compleanno. Ti scrivo questa breve lettera, oltre che per festeggiarti, per metterti in guardia contro un pericolo che si potrebbe profilare all’orizzonte per te e per i Flaming Lips: il pericolo dell’artismo. L'”artismo” è l’atteggiamento per cui ogni cosa che si fa dev’essere considerata arte e che viene creata con questo intento. L’artismo non si manifesta subito, ma ci sono alcuni sintomi che dicono che l’organismo è sotto attacco di questo pericoloso morbo: il malato inizia a parlare di sé in terza persona, l’uso della parola “arte” e derivati nei discorsi del soggetto aumenta vertiginosamente, così come la lapidarietà delle sue dichiarazioni. Questi primi segnali non devono essere sottovalutati, perché in questa fase il malato può ancora essere guarito. Se però questi e altri sintomi sono trascurati, si precipita nell’abisso dell’artismo, e da lì in poi sono solo vernissage.

Tu e i Flaming Lips per me siete l’emblema di qualcosa che è totalmente opposta all’artismo: la geniale cazzoneria. La stessa che aveva John Belushi, mica robetta. Questa geniale cazzoneria la si percepisce ai concerti (ancora è vivida nel mio cuore l’euforia del live di Ferrara di qualche anno fa), ed è presente in molti dei vostri numerosi album, compreso l’ultimo, oscuro e meraviglioso Embryonic. Dopo il riuscitissimo doppio del 2009, però, è scoppiata la locura: il rifacimento di Dark Side of the Moon era solo l’inizio. Avete inciso ep con Neon Indian, Lighting Bolt e Prefuse 73. Non contenti, avete infilato dischi in confezioni stroboscopiche, e chiavette usb con mp3 in orsetti gommosi giganti, feti di gomma, teschi di gomma e pure in teschi umani. Avete stampato poster col vostro sangue. Ma non bastava: avete pubblicato anche una canzone lunga 24 ore.

Come si dice ne L’odio, “fino a qua, tutto bene”. Si sa: tu e i tuoi compari, Wayne, siete matti. Questa follia, divertente e genuina, sebbene sia cresciuta esponenzialmente negli ultimi tempi, non mi ha mai fatto pensare ad un possibile attacco di artismo. Fino a qualche giorno fa, quando ho ascoltato l’ep che avete inciso con Yoko Ono. Wayne, so cosa pensi: che io ce l’abbia ancora con Yoko per quella vecchia storia dei Beatles. No, non è così, e anni fa ho esposto il mio punto di vista. Il problema è che la Ono è una portatrice di artismo totale, colpita da esso ben prima del fatale incontro con John Lennon. Sono certo, infatti, che Yoko Ono sin da giovanissima mostrasse evidente lo scempio più tremendo che compie l’artismo sull’essere umano: lo rende certo dell’essere capace di tutto. Anche di avere capacità musicali e di rovinare un momento come questo (prego, favorire il filmato).

[youtube=http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=h9kgu71d81U#t=146s]

L’hai vista la faccia di quei due quando la nipponica ulula?
Ecco.
Facciamo quindi finta che questo ep sia un passo falso, e che il tuo prossimo passo sia con la band verso uno studio di incisione, ma non da soli. Sempre con la vostra sincera, sghemba, stramba, bizzarra e fantasiosa cazzoneria per la quale vi sono eternamente grato.

Tanti auguri ancora,
Francesco

La logica delle predizioni

Da qualche giorno impazzano in rete i commenti (spesso aspramente critici) a un articolo scritto da Gino Castaldo su Repubblica nel giorno della Befana. Che cosa dice, in sintesi, il critico musicale? Che, essendo le classifiche 2011 dominate dal pop, il rock è morto e che, inoltre e quindi, la musica non ha più valore di protesta. La tesi è alquanto pesante e dovrebbe essere ben argomentata: a mio avviso, tuttavia, non sempre ogni passaggio dell’articolo è chiaro. D’altro canto, ho letto ben poche critiche argomentate: spesso si è trattato di insulti gratuiti o di osservazioni negative mosse da un’identica mancanza di chiarezza. Tentiamo quindi di capire cosa c’è che va e non va nell’argomentazione di Castaldo. Per farlo, ahivoi, bisogna essere analitici: credo che sia una qualità spesso mancante nel giornalismo di oggi e che è sicuramente rarefatta in questo piccolo “dibattito” recente.

Il primo errore che fa Castaldo è nell’identificare il rock come “genere” di un’ipotetica colonna sonora del “movimento”.

I giovani trovano luoghi e ragioni per nuove proteste, che si chiamino Indignados o Occupy Wall Street, ma curiosamente, forse per la prima volta nella storia moderna, non esiste una colonna sonora che racconti di queste nuove esperienze. Il rock? Latita, è assente, così come sta praticamente scomparendo dalle classifiche, lasciando il posto a un dominio pressoché assoluto del pop commerciale.

Seguiamo un ragionamento logico:

  • i giovani continuano a protestare ma
  • non c’è una musica che racconti questa protesta.

Subito dopo si introduce “il rock”, che quindi dovrebbe essere – a rigor di logica appunto – la musica che, secondo il giornalista, deve per forza accompagnare un movimento “politico” di qualche tipo. Primo dubbio: e perché il rock? Perché non il dub o il reggae delle rivolte inglesi a cavallo tra ’70 e ’80, perché non le posse della “Pantera” italiana, perché non certa disco che è rimasta legata ai giorni di lotta per l’affermazione dei primi diritti degli omosessuali? Non si sa. Il problema, comunque, sta già nella questione dei generi: non leggevo “commerciale” in ambito musicale da anni. Cos’è il pop commerciale? Io, personalmente, non lo so. In fondo, se qualcosa è in classifica è per forza commerciale. Sarebbe, se no, come dire “un bestseller da poche copie”. Ossimoro. Ma la confusione di generi prevale poiché, dopo avere detto che c’è anche il rap in classifica, Castaldo conclude affermando che “in generale prevale l’imperativo della dance”. Quindi il pop commerciale è la musica dance? E cos’è esattamente la musica dance, allora? Perché se è musica-da-discoteca in senso stretto (che ne so, la house), be’, non c’è neanche quella in classifica. Insomma, una gran confusione.

Dopo avere spiegato il fenomeno dei Coldplay (che sono “una bandiera rock” ma in classifica) affermando che il tutto si spiega con una pesante iniezione di pop all’interno della musica della band di Chris Martin (curioso però che nelle interviste il frontman definisca “pop” la sua musica), Castaldo abbandona le classifiche e passa ai Grammy Awards. Lì, dice, ci sono voci femminili che spadroneggiano: niente da dire, è vero. Ma davvero Adele, Rihanna e Lady Gaga hanno tanto in comune, a parte il fatto di vendere ancora dei (tanti) dischi? Rimango dubbioso. Castaldo, però, allarga sempre di più il suo sguardo secondo una prospettiva temporale, e scrive:

I margini [del possibile successo del rock, Ndr] sembrano ridotti, come se il rock stesse diventando una riserva, da proteggere e magari conservare con cura, come un retaggio del passato. Ogni tanto arriva un acuto un segno forte (Springsteen, Radiohead, Arcade Fire tanto per fare esempi), ma i nomi in grado di contrastare la marea montante del disimpegno musicale sono sempre meno e più isolati.

Quanti concetti mischiati in poche righe: prima si parla di rock come retaggio del passato. Perché, il pop non lo è? Rinviamo, ancora una volta, quanto meno ai temi tirati fuori da Simon Reynolds in Retromania. E poi: perché pop equivale a disimpegno musicale? Che cosa vuol dire “impegno musicale”? Sono concetti che davvero faticano a trovare un posto in un mondo in cui ha poco senso la cara vecchia distinzione tra musica classica e musica leggera: perché era in contrapposizioni come quella che si fronteggiavano la serietà e l’impegno da un lato e il “passatempo” dall’altro. Radiohead e Arcade Fire si sono impegnati per Haiti, in modi diversi, ma a parte questo? E Springsteen? Dobbiamo ricordare la sua partecipazione a “We Are the World”? C’era anche Michael Jackson, in quel brano, anzi: l’ha scritto lui, ed è pop, il brano e l’autore. E i Poison? Per essere rock, lo sono, ma quando mai hanno preso posizione su qualcosa? E i Metallica? E gli Emerson, Lake and Palmer? Da rock progressivo a rock progressista?

La mia è ovviamente una provocazione, ma dare un senso ai termini che si usano è importante, così come lo è non perdere di vista ciò di cui si sta scrivendo. E invece Castaldo…

(…) il popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato, sembra tornato a un’era pre-rock in cui la musica era soprattutto intrattenimento, magari licenzioso, qualche volta trasgressivo, ma pur sempre solo e soprattutto divertimento. Di nuovi gruppi rock ce ne sono, a centinaia, ma preferiscono un profilo più basso e aristocratico, nessuno di loro sembra volersi fare carico di essere portavoce di alcunché, tantomeno di esprimere nelle canzoni un grande respiro generazionale.

A questo punto necessitiamo di una cronologia, di un riferimento che divida l’era rock da quella pre-rock, che separi la musica-solo-per-passare-il-tempo da quella impegnata. Da sempre la musica è stata intrattenimento e altro. Questi discorsi si sentivano anche negli anni ’90 (me li ricordo, c’ero), e pure prima: rimando a due bei post scritti da Scott Ronson che ha fatto delle interessanti ricerche d’archivio su come la musica di largo consumo (quindi pop) è stata trattata dai quotidiani italiani.

Sulla questione, invece, di “farsi portavoce di una generazione” il discorso è invece diverso e, per me, pieno di interrogativi.
Innanzitutto: pare facile, diventare portavoce di una generazione. Perché questo accada come un tempo bisognerebbe (semplicemente) tornare indietro di qualche decina d’anni, quando le canzoni venivano ascoltate di più, ce n’erano di meno a disposizione e, soprattutto, la coesione sociale (in senso ampio) era più forte. È difficile, di questi tempi, radunare le folle nelle piazze nonostante ci siano tutti i motivi per farlo, figuriamoci “dare loro una canzone”. Poi: una canzone “portavoce di una generazione” è automaticamente “politica” e “di protesta”? E i giovani del movimento “Occupy Wall Street”, chi sono rispetto al “popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato”?
Gli esempi che Castaldo fa più sotto,

(…) come We shall overcome o Blowin in the wind, per rimanere alle vecchie posizioni anni Sessanta, ma neanche pezzi incendiari come London calling o come gli ultimi vagiti di rabbia espressi dal grunge (…)

sono per forza di cose appartenenti a un’altra epoca che non solo aveva suoni, modi, cultura diversi, ma che era completamente diversa. Sotto molti punti di vista (compreso quello che riguarda tutta la filiera produttiva della musica) i vent’anni trascorsi tra Dylan e i Clash sono molto meno pesanti di quelli trascorsi tra i Nirvana e il giorno d’oggi. I cambiamenti (non il cambiamento) sono stati rapidi e tumultuosi: ma del resto buona parte dell’analisi di Castaldo è basata sulle classifiche di vendita, che ormai interessano sempre di meno anche i discografici più “mainstream”. Il punto focale sono i concerti, e in questo Castaldo ha ragione.

(…) Come se il calendario si fosse inceppato nella maglie del tempo, tra i tour più attesi dell’anno nuovo ci sono in programma molti eventi di riunione, con un ampio raggio che va dai Black Sabbath ai Beach Boys.
Parlando di rock si investe molto sui concerti, che ancora funzionano, soprattutto se si parla di nomi consolidati, meglio ancora se sono vecchie glorie capaci di risvegliare anche nel pubblico giovanile il sogno, ormai tramontato, di una musica capace di far fantasticare, di parlare una lingua nuova, di risvegliare il nostro orgoglio di cittadini del mondo, alle prese con le difficoltà del mondo reale.

Pur tralasciando la visione quasi taumaturgica della musica impegnata (tornando a una band citata che amo, gli Arcade Fire: giuro che quando li sento da solo o dal vivo mi sento “cittadino del mondo” – argh – quanto prima), è vero: concerti di tale portata richiedono soldi che gli investitori se la sentono di scommettere solo sui grossi nomi “sicuri”. Ma questo accade comunque: è la macanza di soldi dei pesci piccoli (tutti: dalle radio ai promoter ai gestori di locali) il problema, e non “la crisi della musica rock”. Un concerto di Springsteen, Bowie, McCartney, dei Coldplay, Rihanna o dei Muse sta da tutt’altra parte rispetto al resto, compresi i tour dei Ministri e del Teatro degli Orrori (che sono molto vicini all’essere dei rappresentanti generazionali), anche loro citati nell’articolo, ma che

(…) fanno una gran fatica a emergere dalla trama asfissiante del mercato, con le sue rigide regole di imposizione mercantile.

Tutta la cultura fa fatica a emergere. Soprattutto quella “nuova”. Il problema, ancora una volta, è generale: fa fatica a emergere il cinema medio/piccolo, in Italia, così come annaspano tutti i nomi non blasonati dell’arte e della fotografia, i piccoli festival (per quanto ce ne sono ormai troppi, soprattutto in ambito cinematografico), le compagnie di danza. Chi è che non fatica? Chi fa soldi, chi va in classifica, appunto, perché ha avuto fortuna, perché rimastica ciò che è stato, perché vive di rendita. E questo accade da sempre: i casi in cui “reale valore” (o impegno?) e “consenso popolare” vanno d’accordo si contano sulle dita di una mano, soprattutto se il lasso di tempo considerato è breve. I Beatles, tanto per tirarli sempre fuori, sono uno dei pochissimi esempi di innovazione e successo enorme di pubblico, sono stati cioè tra i pochi a innovare realmente (nel loro caso anche oltre l’ambito musicale) mentre scalavano le classifiche. Eh già, perché una delle caratteristiche del “pop”, intenendolo come “roba da classifica”, è avere saputo attingere dalle aree nascoste (underground, off, come vogliamo chiamarle) e di ridigerire alcune cose (talvolta tradendole, ma mica sempre) per ridarle a un pubblico più vasto. In fondo è quello che ha fatto Bowie durante quasi tutto il corso della sua carriera, ma senza dubbio negli ultimi trent’anni. Allora Bowie è pop? O dance? O rock? Non sarà mica tutto?

Ma torniamo, prima di concludere, ai problemi concettuali. Castaldo afferma che il rock sia nato “sostanzialmente come moto di rivolta”. Ma quando? Come? Perché? Parliamo di rock’n’roll? Little Richard non mi è mai parso un “guerriero politico”: semmai è stata la diffusione come genere di intrattenimento del rock’n’roll che poi ha portato ad altro. Oppure parliamo del “cambiamento” degli anni ’60? Ma le canzoni di protesta dell’epoca derivavano dal folk, a sua volta legato a tradizioni musicali ancora più antiche; e la musica psichedelica per lo più era poco “impegnata politicamente”. O ci riferiamo alle prime forti commistioni tra generi degli anni ’70 e ’80, come il rap? E proprio il rap e la cultura hip hop non sono stati “generi di rivolta” anche quelli? E il soul di Marvin Gaye, con il suo disperato e quasi cronachistico “What’s Going On”?

Proseguiamo. Con un azzardato passaggio logico, il giornalista sottolinea che alle manifestazioni suonano sempre i soliti vecchi: ma il problema non è del rock, è della generica distanza dei giovani dal pensiero politico. I musicisti citati (Patti Smith, Graham Nash, Lou Reed e anche Tom Morello) sono legati a un altro modo di pensare la politica, forse l’unico, che è quello della partecipazione, dello scendere in piazza, del mostrarsi, dello stare insieme. Ma siamo sicuri che davvero ci siano solo degli anziani a suonare alle manifestazioni? Non proprio: direi che Merrill Garbus, più conosciuta con il nome d’arte di tUnE-yArDs, abbia meno di trent’anni, ed era in piazza insieme ad altri colleghi più vecchi e blasonati. Direbbe Castaldo che tUnE-yArDs non vende. È vero, così come è tutto sommato limitata (nel tempo per i suoi risultati e/o per numero di partecipanti) buona parte del movimento politico degli ultimi anni, dalla manifestazione in piazza all’occupazione, compresi i moti recenti citati nell’articolo. Non è della fine del rock che dobbiamo preoccuparci, caro Castaldo, ma della sempre più decisa atomizzazione della società, dello scarso investimento culturale, della lontananza della politica (dei suoi rappresentanti, del suo linguaggio) dalle nuove generazioni. Il rock, qualunque cosa si intenda, non è morto: è vivo e lotterà insieme a noi, quando ci sveglieremo.

Magri bottini

Cara Befana,

di tutti i personaggi che popolano questi giorni (Babbi Natali, GesùGiuseppiMarie, Re Magi) sei di certo quella che ho sempre considerato di meno. Ma spiegalo ai miei genitori che (giustamente pieni di orgoglio anticonsumista) hanno sempre fatto finta che non c’eri. Ero abituato a non ricevere regali per la Befana a tal punto che mi ricordo con assoluta certezza quelli che ho ricevuto, o almeno di due ho un ricordo nitido.

Il primo è arrivato perché, probabilmente, in quel Natale passato coi cugini di Messina, c’è stata una specie di amnistia generale dell’austerity e quindi ho ricevuto l’ambito “veicolo superostacoli” di Big Jim. Ritrovarlo su e-Bay, con un prezzo accessibile e definito, non so se mi ha fatto bene o male. Quello che mi ricordo di quel veicolo era la tremenda lentezza. Sì, d’accordo, era studiato per superare gli ostacoli, ma si muoveva come se ce ne fossero comunque, a prescindere che arrancasse su un terreno accidentato o se si facesse una passeggiata su un pavimento domestico tirato a lucido. Una specie di tartaruga, che probabilmente col senno di ora potrei trovare quasi rilassante, con il suo incedere ronzante.
Il secondo mi è stato donato, se non ricordo male, perché ho rotto tantissimo le scatole: e giustamente mi è arrivato un bel robottino-roulette. Ho considerato pochissimo la roulette in quanto tale (forse dimostrando già un carattere pavido di fronte all’azzardo – giochi d’), poiché era evidente che si trattasse di una qualche potentissima arma il cui sparo aspettava solo di essere sonorizzato sputazzando qua e là.

Però, nonostante l’assenza di regali, il giorno della Befana (a meno di ponti come in questo 2012 appena iniziato) era davvero quello che si portava via tutte le feste. E quando non se le portava via per bene, lasciando qualche decorazione e alberello superstite in giro, erano traumi, come ho raccontato qualche anno fa su queste pagine. Quest’anno, cara Befana, le feste sono state davvero rapide, seppure intense, e per me sono finite già da qualche giorno. Quindi non mi dai l’idea di esserti portata via un bel niente. D’altro canto non mi hai neanche mai portato nulla, quindi mi permetto di chiederti qualcosa io, visto che agli altri due personaggi bene in vista non credo, e – per rimanere nei detti popolari – tentare non mi nuoce. Non ti chiedo un oggetto, però: più passa il tempo più penso che non ne abbiamo così bisogno. A parte i libri, i dischi, i film, qualche pupazzo-gadget, e l’indispensabile per cucinare e… Ok, abbiamo bisogno degli oggetti, ma io per ora sto bene così e comunque non ti chiedo nulla di materiale: nella calza (a questo punto immateriale anch’essa) ti chiedo di portare serenità a me e a tutti i miei cari, per questo 2012. Mica poco, lo so: ma io ci provo. E ti assicuro che, se questa serenità arriva a tutti, il prossimo anno scriverò un post per celebrare il terzo regalo della Befana che ho ricevuto in vita mia: stavolta spero di non avere nulla da linkare su eBay, perché se fossi sul punto di dovere fare un’asta on line per avere un po’ di serenità, be’, cercherei di vincerla con ogni mezzo, usando anche il robottino e la temibile macchinona di plastica.

Finalmente tuo,
Francesco

Trattamento di fine rapporto

Un'immagine usata per una campagna della Volkswagen può assumere altri sensi oltre che l'imperativo "comprate le nostre auto"

Sul sito di Repubblica si parla dell’ultima indagine di EURES sui suicidi in Italia. I risultati (che possono essere scaricati qua) parlano di un nesso sempre più evidente tra aumento di suicidi (con un’inversione di tendenza rispetto al passato) e crisi economica. Insomma, la gente (soprattutto gli uomini) si uccide per motivi legati alla perdita dell’impiego, sempre di più. Questo dato (provato con cifre e statistiche) segna un ulteriore risultato tangibile di quello che succede in Italia in questo periodo. Ma davvero da questo periodo di crisi bisogna partire, quando si analizzano le relazioni tra un fenomeno di disagio sociale come il suicidio, e uno dei pilastri del vivere sociale, il lavoro, appunto?

Non solo, a mio avviso. Il punto è che è cambiato da tempo il rapporto con il lavoro e con il denaro, nel nostro Paese come in altri. Il meccanismo di creazione di bisogni (assai più antico della crisi economica ma ad esso strettamente legata), intanto, è sfuggito di mano sia da un punto di vista materiale (si produce troppo) sia psicologico, nel senso che è ormai impossibile “stare dietro” a ciò che è lì per essere desiderato. Nessuno, ovviamente, si toglie la vita perché non ha i soldi per l’iPhone, ma di certo alcuni oggetti (nonostante la crisi) continuano a essere venduti e quindi, prima ancora, bramati. Ci si arriva a indebitare, talvolta, per accessori.

Ma non è tutto: è importante pensare anche che si lavora molto di più, o meglio, si è costretti a lavorare più ore per portare a casa uno stipendio decente. Certo, ci si può interrogare su cosa sia il livello di decenza, senza parlare delle “soglie” fissate (ad esempio) dall’ISTAT, ma a prescindere dai bisogni di cui sopra si guadagna meno di prima. Ecco quindi lo scollamento psicologico (e il logoramento fisico) che deriva da un attrito tra desideri, potenzialità e tempo. La mia storia lavorativa, abbastanza tipica nella sua atipicità, non è più lunga di dodici anni: ciononostante io stesso ho percepito, nel mio piccolo, la frustrazione che deriva (per esempio) dal non vedere raggiunti degli obiettivi minimi di indipendenza economica, sulla quale – a un certo punto, se si ha qualcuno alle spalle – è bene anche passare sopra, proprio per una questione di salute.

E quando mancano alcuni fattori e altri ben più gravi si sommano? Non me la sento di dire che la solitudine (c’è notoriamente una maggiore incidenza di suicidi tra gli uomini separati o vedovi), la mancanza di prospettive, la frustrazione e l’umana debolezza non siano probabilmente ragioni terribilmente sufficienti a uccidersi.

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