EXPOrsi

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Ormai, lavoro a parte, ogni volta che penso di scrivere qualcosa su questo blog, ma anche e soprattutto su Facebook, sempre lavoro a parte, ci penso molto prima di farlo. Non mi scordo, infatti, delle parole spese sull’accrescimento di questo “rumore di fondo” a cui contribuisce ogni foto, parola, video pubblicato. Tuttavia, dopo i fatti di ieri di Milano, il brusio delle opinioni immediate, delle sentenze sparate ad alzo zero, mi ha infastidito, forse per un accumulo che dura da anni. Mi è venuto in mente di quando si è costretti a urlare ancora più forte per imporsi su un litigio: quello che segue non è un urlo, ma di certo ne ha l’irruenza.

Chiarisco subito la mia posizione. L’EXPO in sé non è un male. Il fatto che sia stato gestito approssimativamente (a quanto leggo da molte fonti, visto che non ci ho messo piede) e che una buona occasione in Italia sia per l’ennesima volta mandata in vacca (ed era prevedibile) è uno schifo. Una cosa grave, gravissima, uno spreco che perpetua un modo di gestire le cose (leggi: una politica) che non mi trova d’accordo e che è il frutto di un modello dominante al quale non credo, ma con il quale, giorno dopo giorno, devo scendere a patti. Cerco di comportarmi bene, pur opponendomi ad esso, combattendo ogni giorno piccole lotte nel nome di un’idea di civiltà che deriva da tantissimi fattori: dall’educazione che mi è stata impartita a scuola a quella politica, dall’età che ho a quello che ho vissuto, eccetera. Non sono mai stato un violento: non ho mai picchiato nessuno e nessuno mi ha mai picchiato, ma certo, ho urlato, imprecato, risposto male e malissimo a persone che non se lo meritavano.

Detto questo: bisogna cambiare le cose, ma non penso che la violenza sia il modo giusto per farlo. Distruggere vetrine, dare fuoco alle auto: perché? Cosa accade poi? Dice: e ma le rivolte che portano a cambiamenti devono essere così e giù esempi (ma mica tanti) di sommosse violente che si sono tradotte in qualcosa di concreto. Mi chiedo: siamo sicuri che sia la violenza il fattore decisivo per la riuscita di queste manifestazioni? Io non ne sono certo: i processi sociali sono complessi ed è molto difficile fare paragoni, soprattutto quando alcune variabili decisive (il tempo, le tecnologie, il livello di salute, tanto per fare tre esempi) cambiano. Però, dice: qualcosa deve cambiare. Come, mi chiedo io.

Uno strumento ci sarebbe e, attenzione, non sarebbe meno violento, per certi versi: è lo sciopero, ma quello vero. Qualcosa che paralizzi il Paese, che porti all’attenzione di tutti (cittadini e opinione pubblica, non solo nazionale) i veri problemi politici, sociali ed economici d’Italia: e ce ne sono a iosa. Però per farlo ci vogliono elementi che questo Paese non possiede affatto: onestà, altruismo e senso del bene comune. È necessaria una progettualità, il senso di una missione, la comprensione del senso di (chiamiamolo così) sacrificio per un fine più alto. C’è bisogno di affinare il pensiero, che colga la complessità della realtà. Ci vuole unità, di intenti e di opere, ma che sia unità.

E invece, no: il “dibattito” è facilitato come gli schemi delle parole crociate, ridotto a schede e schedine (vittoria, sconfitta, pareggio), a manicheismi bicromatici, a “sei pro” o “sei contro”. Io rivendico la mia posizione critica verso l’EXPO per come è stato gestito, verso il Governo e verso i black bloc; ma soprattutto verso un “pensiero” sempre più pigro e affrettato, che si liquefa immediatamente in sentenze sputazzate qua e là, incapace di fare da guida a un’azione che quindi si rivela altrettanto scomposta e inefficace.