Archivi mensili: Marzo 2005

Ani Difranco a Monolocane!

Stasera, a Monolocane, riproporrò l’intervista telefonica che ho fatto martedì a Ani Difranco, già andata in onda a Patchanka. Una chiacchierata di una decina di minuti, in cui si è parlato molto di Knuckle Down, l’ultimo disco di Ani, ma anche della difficoltà di rendere poetica l’espressione “corporazione multinazionale”.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se stasera siete nei regi confini bononiensi. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.
(Se stasera andate a sentirla a Milano, beati voi. Potrete recuperare l’intervista da venerdì sulla pagina del programma, come al solito.)

Ora qui!

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My generation

Mi rendo conto che sia un po’ tardi per parlare del primo libro di Dave Eggers, L’opera struggente di un formidabile genio, visto che è uscito cinque anni fa e voi gente colta e attenta al trend sicuramente l’avrete già letto. Tuttavia da un lato non mi importa, dall’altro, se io l’ho letto adesso, magari qualche altro che non l’ha ancora fatto, tra di voi, c’è.
Leggere questo libro adesso, per me, è stata una fortuna. Perché sono già da qualche anno nello schifo dello show (?) business (in una variante, però, in cui gli affari si vedono decisamente poco), perché ho passato i venticinque, perché sono già da un po’ nello status di precario che contraddistingue molti miei coetanei volenterosi. Se l’avessi letto quando è uscito, sarei stato rovinato. Perché avrei preso e mollato tutto per andare da un’altra parte, una qualsiasi. Perché avrei deciso di fondare una rivista, con la sicumera di farla diventare un caso nazionale. Perché avrei iniziato a scrivere in maniera diversa.
Leggerlo adesso, però, alla luce di alcune considerazioni venute fuori di recente, parlando con amici e anche con Nicoletti, perché no, mi ha fatto riflettere su una possibile prospettiva sulla nostra generazione. Oh, iniziamo a capirci bene: una possibile prospettiva; e per “nostra generazione” intendo grosso modo quella che comprende persone dai venti ai trent’anni circa. E so che ogni generalizzazione è, per sua natura, difettosa.
Eggers è spudorato, a partire dal titolo, e dalla trentina di pagine che introducono il libro, in cui infila, una dopo l’altra, delle “Regole e suggerimenti per apprezzare al meglio questo libro”, che comprendono anche una tabella dei costi e dei guadagni dell’autore, uno schema di interpretazione del romanzo e una tabella delle simbologie e delle metafore.
Ma la parte più significativa fa da cesura tra la prima e la seconda parte. L’autore, il Narratore, Eggers, insomma, fa un provino per Real World, il reality show di MTV: l’intervista con la selezionatrice viene trascritta completamente, fino a questo scambio di battute.

Un momento, dimmi una cosa. Questa non è la rappresentazione del colloquio com’è andato, vero?
Vero.
Al vero colloquio non ci assomiglia nemmeno, giusto?
Giusto.
È un espediente, questo andamento in stile di intervista, inventato di sana pianta.
In effetti.
Un buon espediente, devo ammettere. Una sorta di contenitore per tutta una serie di aneddoti che sarebbe stato inefficace combinare in altro modo.
Esatto.

Eggers si svela completamente durante un finto colloquio per essere preso ad una trasmissione che detesta, ma che gli darà notorietà. E usa un possibile prodromo a questa trasmissione (non vi rovino la sorpresa, se vi anticipo che non verrà selezionato) per mostrare la sua inadeguatezza ad usare la forma romanzo per dire tutto quello che ha da dire, per raccontare delle sue sventure, della morte del padre e della madre a cinque settimane di distanza l’uno dall’altra. Dire senza dire, “voler diventare ricco e famoso senza mostrare di volerlo veramente fare” (come si dice quando si parla della rivista Might, da lui veramente fondata), non sono solamente espressioni retoriche: sono l’atteggiamento doverosamente critico ma obbligatoriamente partecipe a determinati schemi della società di massa alla quale non credo sia possibile sfuggire. Quello che Eggers vuole è diventare famoso, e basta. Non importa come. Aspirazione legittima, si dice qui, soprattutto quando è spiattellata in questo modo.
Mostrare i meccanismi e le letture possibili è qualcosa va oltre il postmoderno (che il signore abbia pietà di me): lo scorpora per mostrarne i meccanismi, e lasciarli là, su carta bianca, inerti e a portata di mano di tutti. Ma mostrare il trucco di un gioco di prestigio fa perdere di interesse il gioco stesso.
Ecco perché credo che L’opera struggente di un formidabile genio segni un possibile punto importante (di non ritorno?) nella letteratura e sia uno dei più efficaci ritratti generazionali in cui mi sia mai imbattuto: perché non usa solo le armi del cinismo e dell’ironia, perché non è negativo, né pessimista, è schietto. Il protagonista non si piange addosso, usa il dolore per ottenere compassione, e lo ammette. Si prende in giro e si esalta allo stesso tempo. E’ conscio di essere smarrito, sa che questo vuole dire libertà, sa che la libertà è una possibile fonte di smarrimento, ma non ne può fare a meno.
La nostra generazione, come mi disse Enzo Baldoni qualche anno fa, “non ha avuto in genere grandi tragedie ne’ grandi epopee, e (…) quindi e’ costretta a parlare di cose piccole e di piccoli sentimenti.”
Ecco, la differenza rispetto a tanti dimenticabili altri è che un genio come Eggers lo fa alla grande.

Nicoletti reloaded: waiting for the (blog) revolution

Stasera a Monolocane, intervista con Gianluca Nicoletti, l’uomo che fece incazzare i bloggers. Cioè, spero di intervistarlo. Nel senso che ho un appuntamento telefonico intorno alle undici, quindi tra meno di due ore. Se avete domande, suggerimenti di domande o risposte, fatevi sotto nei commenti.
A stasera, quindi. Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se vivete a Bologna. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.

Aggiornamento. Sulla pagina del mio programma potete sentire l’intervista completa, in Real Audio.

Ecco l’intervista!

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Metodo Mon3ssori

E così mi capita di vederti in coda alla posta, tu e il tuo maglioncino rosa con maglietta rosa, tono su tono, e i jeans quelli giusti, e le scarpe da ginnastica rosse, “sneakers l’ultima moda” ha sentenziato il sempre attento Venerdì di Repubblica. Sei davanti a me, come non posso vederti, e penso che un po’ di tempo fa io e i miei amici bolognesi adottati, ti avremmo definito “socciachebellamamìna”, con un lieve prolungamento del suono dell’ultima “i”. Espressione che sta per ragazza anziana (o donna giovane) con prole, di solito infilata in un passeggino che costa quanto un’utilitaria, ma non la tua, perché la tua, ovvio, è una Smart, ragazza anziana o donna giovane che ricordi con precisione le parole di lui “no, non ti preoccupare, non vengo dentro”. E subito dopo ricordi le parole “Ogino Knaus”, le tue, stavolta, immediatamente precedute da un pagano “speriamo in”. E invece hai sfornato un pupo, e non lo volevi. Adesso c’è e pare brutto. Ma sei orgogliosa del tuo culo, del tuo seno, delle tue amiche che ti dicono “ma come sei in forma, nonostante”, e pensano di ricominciare a prendere la pillola.
Sei davanti a me, e hai una bimba, decisamente calma e pacifica. E tu come fai a mantenerla buona in coda alle poste?
Facile.
Le piazzi in grembo il tuo videofonino che trasmette un video che vede l’infante stessa come protagonista.

Ora. Se fossi in forma, brillante, arguto, intelligente e colto tirerei fuori Freud e Lacan, Meyrowitz e McLuhan.
Ma sono stanco. E non sono tutto il resto.
Quindi, anche se non ne so nulla di metodi educativi, non ho un bambino, nonnesonulladellavita, lascia che ti dica solo una cosa: cogliona.

Sentire un sorriso

Questa mattina, sulla strada per la radio, mi sono sentito chiamare. Ho visto due ragazzi che reggevano una signora vecchissima, che non parlava, bianca, con gli occhi chiusi. Stava su come un pupazzo sbilanciato, sorretta da due paia di braccia, che lottavano contro il richiamo della forza di gravità.
“Chiamo l’ambulanza”, ho detto.
E’ arrivata un’altra ragazza, che ha iniziato a dire alla signora “Nonna nonna nonna nonna nonna ci sei mi rispondi nonna”. Poi è arrivata un’altra signora, e ha iniziato a dire “Mamma mamma stai bene mamma mi senti”
In quel momento la voce del 118 mi ha chiesto ancora una volta dove mi trovassi. E poi anche se la signora fosse cosciente. “Sì, mi pare di sì”, ho detto. “Le pare? Ma le sta davanti o no?” “Sì, le passo una parente.” Ho sentito la figlia della signora dire “Ha novantaquattro anni, e ha l’Alzheimer”, mentre la nipote continuava a dire “nonna nonna dove hai male me lo indichi con la mano.”
L’ambulanza è arrivata poco dopo, e la signora ha iniziato a riprendersi lentamente.
Ho sentito uno dei due ragazzi scendere dall’ambulanza e sono stato investito dal tepore del suo “Come andiamo”, rivolto, prima di tutti, alla vecchia signora. Ho visto il sorriso del ragazzo del pronto soccorso, nonostante fosse di spalle.

Dedicato a Serena, Roberta e tutti quelli che affrontano ogni giorno il dolore, la malattia e la morte con un inestinguibile, modesto e grandioso senso di umanità.

Di |2005-03-17T15:47:00+01:0017 Marzo 2005|Categorie: Doctor Robert, I Me Mine|Tag: , , , , |8 Commenti

Di cosa parlano quando parlano d'amore

La prima volta che ho sentito The Plural of the Choir, o quantomeno la sua penultima versione, è stato in una sera d’estate, credo ad agosto, seduto nella camera del fratello di Emilio, uno dei due chitarristi dei Settlefish. Da subito ho colto l’intimità del disco, anche grazie alla particolare situazione di quella sera. In silenzio davanti ad un computer per quaranta minuti scarsi, a bocca aperta.
Il mio amore per i Settlefish non è cosa nuova: conservo ancora con cura uno dei loro primi demo, il “tre tracce” che poi ha dato vita al loro primo disco per Deep Elm, Dance Awhile Upset. E di loro ho sempre apprezzato la grande apertura musicale, l’ottima preparazione tecnica e il loro naturale sfuggire della loro musica da qualunque tipo di etichetta.
Con il loro ultimo disco si va oltre, perché c’è un impressionante miglioramento della qualità di scrittura della musica, diretta e modesta (nel senso migliore del termine), nonostante la puntigliosa produzione di Brian Deck. I Settlefish stavolta parlano d’amore, e di relazioni che finiscono, con canzoni per lo più brevi, con un’attitudine pop nel vero senso del termine, e si mettono a nudo con semplicità, cercando l’unico rifugio, se così si può chiamare, nei testi sempre abbastanza ermetici di Jonathan, che però si lascia sfuggire un “the warmth i get when i play when i play in this band.” (“Ice in the Origin”). È calore, non è “emo” o “indie”.
Provate ad ascoltare The Plural of the Choir in cuffia, mentre passeggiate, e guardatevi intorno: vi sembrerà la colonna sonora di un film. Questo non è una novità. Ma il film che vedrete sarà bellissimo.

(Se volete vederli, non perdetevi il release party di The Plural of the Choir, venerdì prossimo al Covo.)

The Monolocane Sessions (John Peel, si fa per scherzare, eh)

Puntata decisamente speciale quella di Monolocane di stasera. Infatti, saranno miei graditi ospiti in studio Jonathan Clancy e Bruno Germano dei Settlefish, che presenteranno per la prima volta in radio alcune tracce del loro ultimo disco The Plural of the Choir, in uscita tra pochissimo per Unhip records, in versione acustica.
Roba grossa, amici. E delicata allo stesso tempo, come piace a noi.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se pasteggiate a lambrusco e tortellini. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.

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De fiducia (it all started from a salama da sugo)

L’esperienza non insegna nulla, cari e care. E quindi, ho ridato fiducia alla salama da sugo e lei me l’ha fatta pagare di nuovo. Non contento della passata esperienza, lo chef S. (sempre più rapito dalla figura di Allan Bay), quando ancora doveva cuocere i tortelloni, ha detto: “E dopo tutto questo, un bel ‘Between the sheets'”. Noi commensali l’abbiamo guardato stupiti, capendo che il nome del cocktail vuol dire “tra le lenzuola”, ma abbiamo guardato rapiti la salama, immersa nell’acqua bollente per gli ultimi minuti, dopo la solita lunga cottura di sette ore. La salama è stata servita a tavola, ma con più spavalderia dell’altra volta. Ed è stata mangiata velocemente, troppo velocemente, accompagnata da abbondante vino rosso. Ho sentito distintamente la salama ridacchiare, mentre la finivamo a colpi di cucchiaio. Poi è arrivato il famoso cocktail di cui sopra. Poi…

Stamattina mi sono svegliato in condizioni orrende. La testa pulsante. La Novalgina scaduta. Una giornata di lavoro davanti. Ma prima, un altro impegno: andare a dare dei soldi all’agenzia immobiliare che dovrebbe portarmi alla mia nuova casetta.
Arrivo davanti al bancomat, che ormai mi vede talmente spesso che mi dà il cinque alto, quando mi avvicino. Sono troppo distrutto per cercare di tenerlo a distanza. Infilo la carta, digito il codice. Sbagliato. “Oh cazzo, ma non era…”. Riprovo. Sbagliato. Annullo l’operazione. Aspetto un po’. Rimetto la carta. Sbagliato. “Ma come…” Sbagliato. Riannullo, riprovo. Penso al codice, ma mi viene in mente solo la salama da sugo. Codice sbagliato. Rumore di risucchio. Carta trattenuta. Il bancomat non mi saluta neanche, mentre entro in banca.
La cassiera mi dice che prima di domani mattina, non se ne parla. Chiedo se posso ritirare dei soldi, anche se ho il conto in una filiale della stessa banca, lontana lontana. “Non c’è problema”, dice la cassiera, ma:
1. controlla se ho soldi in banca;
2. chiama la banca per farsi mandare via fax la mia firma;
3. si rende conto che i fax della filiale laggiù non funzionano: come fare a darmi fiducia? Facile:
4. inizia a farmi i nomi degli impiegati della filiale lontana lontana, per sapere se li conosco (giuro), come garanzia del fatto che io sia io. Al terzo Mario Rossi che mi viene nominato, ammetto in lacrime di essere un egoista che non si è mai interessato a fondo delle vite di chi amministra i suoi risparmi.
Intanto, nella cassa accanto a me, un uomo chiede quattromila euro in contanti. Immediatamente dopo la cassiera riesce a darmi i miei soldi, rassicurando la filiale lontana lontana che, in fondo, trecentocinquanta euro sono una piccola somma. Io mi rendo conto che la salama che è in me ha già progettato sei differenti modalità di rapina di quella filiale, e che trecentocinquanta euro sono ben più della metà del mio stipendio.
Arrivo in agenzia con i miei bei soldini, li saluto, e li lascio nelle mani dell’impiegata, con anche una copia delle buste paga, eccetera. Poi l’impiegata mi guarda e mi dice: “Sa, c’è un problema per l’appuntamento con la padrona di casa. Ha visto la radio dove lavora e ha pensato che lei potrebbe essere un no global.” Nascondo immediatamente la foto di Casarini che porto sempre con me e tento di spiegare che, oltre a lavori con contratto, lavori casuali, la firma di mio padre come fidejussore, una boccetta di sangue e un patto con la yakuza, non ho altre garanzie. “Vedremo che si può fare”, dice l’impiegata.

A volte, andare a lavorare, è una pausa, in una giornata.

Tornando a casa dalla radio, suona il telefono. Mi sto appena riprendendo dai postumi della salama, ma il forte odore di ascella che c’è in autobus, misto al lieve ondeggiare del mio corpo pressato tra gli altri, non aiuta. Rispondo, è l’agenzia. “La padrona di casa vorrebbe la firma di suo padre nel contratto, e anche del padre di C.” In quel momento sull’autobus una signora bestemmia la Vergine dicendo che le hanno rubato il portafoglio. Ovviamente tutti gli occhi dei passeggeri vanno in cerca della pelle più scura, immediatamente. L’autista ferma l’autobus con le porte chiuse a trenta metri dalla mia fermata, e dice che bisogna aspettare i Carabinieri. Io, ormai, sono in trance. Levito, sospinto dalla forza salama che è in me, acconsento al fatto che mio padre firmi il contratto della nuova casa, respiro con la bocca.
La situazione si smuove, le porte vengono aperte, scendo. E chiamo mio padre.
“Pronto, papà? Sono io, è per la casa nuova”
“Dimmi.”
Decido di giocare d’anticipo sulla padrona di casa.
“Senti, pensavo: hai una certa età, ormai. Che te ne fai di tutti e due i reni?”

Apparizioni (e sparizioni): il ritorno degli Slint

Brian McMahan

Ci sono degli accadimenti che, appena vengono annunciati, diventano “eventiimperdibili”. Ovviamente il concerto al T.P.O. degli Slint è uno di questi. Prima per molti motivi concordavo con lei, soprattutto perché, intorno a me, si pompava la cosa come non mai, e quando le cose si pompano come non mai, divento automaticamente sospettoso. E quindi, il sapere che il tour europeo degli Slint, dopo l’annullamento della data di Barcellona, prevedeva Bologna come unica data del sud Europa; sapere che avevano chiesto un bel po’ di soldi, e quindi il biglietto non sarebbe stato a prezzi popolari; sentire persone che dicevano “è meglio essere lì verso le nove”, quando mai al T.P.O. ci sono andato prima delle dieci; sentire dagli organizzatori che c’erano oltre ottocento prenotazioni, anzi, sentire che c’erano delle prenotazioni per un concerto al T.P.O… Insomma, mi stava passando la voglia di andarci.
Ma mi sono trovato dentro, con un bel po’ di euro in meno, un timbro verde sulla mano destra, e l’idea comunque di vedere qualcosa di bello, ma in maniera disagevole. E invece…

E invece, grazie a C., e soprattutto ai suoi amici fonici, mi sono visto tutto il concerto seduto praticamente sul palco, ad un paio di metri dagli Slint. Ma andiamo con ordine.
Ad aprire, i Radian, un gruppo che basta sentirlo per un paio di minuti per capire che sono germanici (austriaci, in questo caso), nel migliore senso del termine. Non li conoscevo, ma mi hanno affascinato. Vicino a me e a C., seduto fumante e bevente birra di continuo, un non ben identificato ciccione. Abbastanza brutto, ma mansueto: comunque un po’ inquietante.
Finalmente salgono sul palco gli Slint. Già, il palco. Dopo il concerto dei Radian, il palco viene preparato dall’entourage degli Slint, in questo modo. Ogni amplificatore viene segnato con un nastro rosa fosforescente, ogni sporgenza, idem. Non solo: viene anche segnato con delle frecce rosa il percorso che va dal “backstage” al palco, andata e ritorno (da notare che il percorso è lo stesso). Guardo e non capisco. Comunque.
Il concerto degli Slint è potente, e mi rendo conto che il ciccione birra-e-sigarette è il bassista del gruppo. Già, infatti, chi li conosceva gli Slint? Io ammetto la mia ignoranza musicale, ma Spiderland l’ho sentito per la prima volta un paio di anni fa, come molti di voi che state leggendo, credo (e se non l’avete, compratelo, veramente: se non vi piace vi restituisco i soldi di tasca mia). Immediatamente, anche senza etichette preventive (tipo “ha dato il via al post-rock”), ci si rende conto che è un capolavoro, esattamente come mi bastano le poche note iniziali del primo pezzo per capire che questi Slint vengono da qualche altra parte e da qualche altro tempo. Credo siano uno di quei gruppi che, anche se venissero ibernati e poi scongelati tra vent’anni, per un’altra reunion, lascerebbero comunque tutti a bocca aperta. Mi godo il concerto da seduto, e ogni tanto i fonici portano pure da bere a me e a C. Noti volti della scena musicale bolognese mi guardano, dalla platea e da bordo palco, con un’espressione che pare dire: “Cazzo è quello? Che ci fa lì lui?” Io me ne sbatto e mi beo di David Pajo ad un paio di metri da me.
Brian McMahan è messo in modo tale da essere rivolto proprio verso di me, quando canta. Mi sento come se fossi nella loro sala prove, in certi momenti del concerto, ed è una sensazione incredibile. Perché sembra proprio di vederli, questi quattro ragazzini, mentre pensano e provano quattordici anni fa la manciata di pezzi dei loro due album. Silenziosi e perfetti, così diversi dal gruppo che veramente esplose nell’anno in cui uscì Spiderland, i Nirvana.
Non riesco a seguire i diversi pezzi, mi sembra che sia un’unica canzone (e qui sta la grande differenza della mia percezione della serata rispetto al resto del pubblico: è stato un concerto continuamente interrotto, tra un pezzo e l’altro, da almeno cinque minuti di pausa), come un respiro.
E i respiri possono finire di colpo, senza alcun avviso. Gli Slint, dopo l’ultima nota, sono usciti senza dire una parola, niente di niente, ma proprio niente.
Immagino siano tornati nel luogo e nel tempo da dove sono venuti, seguendo delle frecce colorate.

The sun was setting by the time we left. We walked across
the deserted lot, alone. We were tired, but we managed to smile.

Però non hanno neanche sorriso.

Slint, live at TPO, Bologna, Italy – Photoset

Fiocca la neve fiocca

Che la neve ci abbia rotto le palle, beh, è evidente. L’ho pensato anche ieri pomeriggio, quando qui a Bologna continuava a fioccare, con l’aggiunta di un vento freddo che non facilitava le cose, e probabilmente faceva compiere alla popolazione anziana (notoriamente più leggera) evoluzioni che manco a Holiday on Ice.
Ma mentre aspettavo l’autobus per andare in radio, mi sono accorto dei fiocchi che si depositavano sul mio cappotto nero. Li ho guardati attentamente (e non oso immaginare che cosa abbiano pensato di me le persone alla fermata) e mi sono reso conto che si vedeva, nei fiocchi più piccoli, la tipica forma del fiocco di neve, come nell’immagine qua.
L’emozione che ho provato mi ha fatto dimenticare della preoccupazione che avevo sentito quando mi ero reso conto che ero rimasto freddo a tutta questa neve. Perché io, tutta questa neve in città, non l’ho mai vista.

Poi sono scivolato per terra.

Di |2005-03-04T11:42:00+01:004 Marzo 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |9 Commenti
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