Archivi mensili: Gennaio 2005

Andiamo su nei monti…

E quindi, come è accaduto anche l’anno scorso, me ne vado per qualche giorno sui monti a parlare di cinema e sceneggiatura ad un branco di diciassettenni. La cosa che mi inquieta un po’ è che la professoressa che mi accompagnerà, e che ha seguito con me i miei seminari, mi continua a dire: “Cerca di fare delle lezioni il più pratiche possibili, perché questi ragazzi… No, non è che… Sono intelligenti, eh, ma… Insomma, non hanno tanta capacità di concentrazione, sono un po’ casinisti, insomma…”.
Con le classi dei due anni passati non c’era stata alcuna raccomandazione preventiva. E non è che fossero dei monaci buddisti.
Che dite, uso il classico “metti la cera, togli la cera” o faccio loro scavare delle buche nella neve e poi gliele faccio riempire?
Staremo a vedere. Sarò senza computer fino a venerdì. Statemi bbuono.

Di |2005-01-30T00:54:00+01:0030 Gennaio 2005|Categorie: We Can Work It Out|Tag: , , , |13 Commenti

Loved

Quando sono entrato al T.P.O. ho sentito subito i loro suoni: stavano provando, morti di freddo come le quindici persone assiepate sotto il palco. Poi se ne sono andati, e ho iniziato a pensare a quando li avevo sentiti per la prima volta. Mentre parlavo con i fonici, si è avvicinata una ragazza, e ha chiesto se poteva farsi firmare il cd, dopo il concerto. “Già, un autografo”, ho pensato io. Ma mi sono reso conto di non avere nulla di originale dei Cranes. Tre cassette, quelle sì. Cassette. Quando li ho sentiti per la prima volta? Le cassette registrate. Loved, 1994. Sono passati undici anni. E mi sono ricordato di quando li ho sentiti, sul pavimento in legno dell’enorme casa di C., l’inizio di “Shining Road”, con quell’accordo che da minore passava a maggiore, e la voce di Alison, di quelle che “osiamaosiodia” (banale, ma sentitela, è così).
E poi Population 4, e ascoltare, subito dopo averlo letto, la messa in musica di Le mosche di Sartre, e fare sentire questi dischi alle persone, che dicevano “ma che voce”, con il sorriso in su o in giù, a seconda (“osiama…”).
Infine, dopo più di dieci anni, vederli sul palco, notare che sono invecchiati, che sono passati dieci anni per me e per loro, che fa molto più freddo al T.P.O. che su quel pavimento di legno, ondeggiare sull’accordo iniziale di Shining Road, e perdersi sul ritornello di “Lilies”, facendo finta di non sapere rispondere alla domanda “Where Am I?”.

Cranes, live at TPO, Bologna, Italy – Photoset

Referrers – Gente che cerca altro – 11

Dagli stessi produttori di Neighbours, in associazione con Google, Virgilio, Yahoo! e Shinystat
11. mito dell’orgasmo

Di scrivere a Cioè non se ne parlava neanche. Non voleva mischiarsi alle ragazzine che chiedevano se limonando si potesse rimanere incinte, o che pensavano che la vera prova d’amore fosse il sesso anale. E poi lei non era una ragazzina. Aveva ormai vent’anni, e insomma… E poi non poteva leggerlo Cioè. Doveva ammetterlo: le dava fastidio dover ammettere a se stessa che ragazze più piccole di lei, se si doveva credere a quello che scrivevano, avevano avuto una vita sessuale di almeno una decina di volte più intensa della sua, anche se con una partenza simile: la prima volta d’estate, in campeggio (nel suo caso si trattava di un bungalow, ma sono sottigliezze): una tragedia. Solo che lei si era fermata lì. Non era andata da nessuna parte, poi, e non era manco venuta. Arrossì pensando alla stupida battuta che aveva fatto. Non sapeva proprio che cosa fosse l’Orgasmo. Sì, lo pensava anche con l’iniziale maiuscola. Perché è vero che non leggeva più Cioè, quanto meno non in modo partecipante, al massimo lo rubava alla sua cuginetta (lei aveva limonato-e-basta, almeno lei, per fortuna), ma era passata a Cosmopolitan. E si era definitivamente depressa. Orgasmi multipli, clitoridei, vaginali, mentali, tantrici. E lei? Mai niente. Un po’ di piacere, ogni tanto, da sola, ma niente di più. Con le amiche non ne parlava. Loro, a sentire quello che dicevano, gliela mettevano in saccoccia (arrossì di nuovo) alle star del porno. Quando si parlava di sesso, semplicemente, annuiva e rideva quando doveva farlo. Comunque anche le sue amiche non parlavano mai della grande O. O quando ne parlavano usavano lo stesso linguaggio di Cosmo, come lo chiamavano loro. E lei si era convinta che l’orgasmo, semplicemente, non esistesse, ma fosse qualcosa di impalpabile, etereo. Mitico.
Cliccò alcune parole su un motore di ricerca, per avere delle conferme.

Dopo un po’ di frequentazione del mondo dei blog, capì che, nonostante le tutte pippe che questi personaggi su internet si tiravano, non sarebbe riuscita a raggiungere neanche l’orgasmo mentale. Smise di leggere Cosmopolitan e si mise il cuore in pace. Dopo qualche giorno, per caso, venne l’amore.

Dodici ore di televisione (e due di radio)

Nelle ultime dodici ore ho guardato la televisione per un’oretta circa. E ho visto…

  • Aldo Busi che parla agli amicidimariadefilippi, che, a quanto ho capito, non hanno letto quello che gli era stato assegnato durante le vacanze di Natale. Lui li insulta, dice (come alle medie!) che se non studiano, quella è la porta, che loro non contano un cazzo e che lui è un frocio (sic), ma soprattutto un grande scrittore, e che non sanno neanche qual è la fortuna che gli inetti hanno ad avere lui come insegnante;
  • il nuovo video dei Gemelli Diversi, ispirato a Ritorno al futuro parte III (almeno è il più scarso della serie);
  • un servizio sul nuovo film della Blue Sky, Robots, in cui apprendo che la voce del protagonista, nella versione italiana, sarà di Dj Francesco;
  • il TG2 delle tredici che ci propone i seguenti servizi: famiglie irachene contente delle prossime elezioni, descritte come “un evento democratico”. Esattamente, immagino, come furono eventi democratici le elezioni nel Vietnam negli anni ’60, in cui saltarono in aria più presidenti che chicchi di mais quando si fanno i popcorn. Non tutti la pensano così, però. Un altro servizio sull’esplosione a Treviso: Unabomber, senza dubbio, senza possibilità di errore. La creatività italiana se n’è andata a farsi fottere: manco un nome nostro da dare ad un bombarolo. Intervistate due persone di Treviso, che dicono (testuale): “Siamo nella morsa del terrore“. Penso a Luttazzi e al suo ultimo spettacolo, quando dice che la vera arma, ormai, è la paura creata ad hoc tra la gente. Mentre scolo la pasta, sento l’annuncio di un servizio sulle donne. Incredibile, pare che anche le femmine ci sappiano fare con viti, stucchi e bricolage: cioè, roba da non credere, anche le donne sanno mettere un chiodo. Intervistata una donna alle prese con un trapano, alla domanda “Ma lei non ha paura di usarlo?”, lascio cavalcare la mia immaginazione, e penso alla donna che sfonda il cranio della giornalista con un trapano a percussione. Domanda finale del servizio: “Ma gli uomini servono ancora?”. Il servizio finisce e io mi dico “Cazzi tuoi, così impari a vedere Costume e società“. Invece no, la simpatica rubrica del TG2 deve ancora arrivare, c’è tempo per un ultimo drammatico servizio. Al telefono un automobilista bloccato dalla neve sull’A3. L’intervistatrice chiede compulsivamente se ci sono bambini, quanti ce ne sono, cosa fanno. E la immagino mentre gode a pensare all’assideramento dei piccini in diretta.

Ho pensato ancora a Luttazzi, e al suo ultimo lavoro che sta per uscire, un disco jazz. Sulle prime non capisco, ma poi penso che tanto vale ballare e ballare fino al totale affondamento. Non che sia solo colpa della televisione, e non che solo lì se ne vedano i sintomi. Comunque io faccio la radio. Stasera, come al solito, dalle 2230, sui 96.3 e 94.7 MHz se vivete in Bononia, oppure in streaming.

Sottili metafore

No, non sono scomparso, sono solo stato al Future Film Festival continuamente. Una delle rassegne più belle di quest’anno è stata sicuramente Mars Attacks the FFF, una serie di film sul pianeta rosso. Trovate alcune recensioni dei film qua, ma io, in questo post, voglio solo raccontarvi l’incredibile trama di un film della rassegna che ho visto.
Tutti sappiamo che alcuni prodotti, soprattutto fantascientici, della cinematografia americana degli anni ’50 permettono una lettura del film che ha anche a che fare con il clima politico di allora: la contrapposizione dei blocchi, la guerra fredda, il maccartismo. Permettono una lettura, ho scritto. Nel senso che è uno dei sensi possibili da dare al testo (i semiologi che leggono mi perdonino: sono approssimativo, lo so, ma andiamo avanti). Ma in Red Planet Mars, ragazzi… Dunque.

Due scienziati americani, Chris e Linda Cronyn, hanno un apparecchio che permette loro di mandare dei messaggi su Marte. Il brevetto dell’apparecchio è di uno scienziato nazista che adesso, però, lavora per i russi in una baita in montagna, mentre beve litri di champagne. Nessuno, né lui, né i Cronyn, tuttavia, riesce nel tentativo di comunicare con il pianeta rosso. Il figlio maggiore dei Cronin ha un’idea. “Why don’t you use a pi?” suggerisce ai genitori, mentre mangia una fetta di torta. Dopo l’esilarante equivoco derivato dall’omofonia di “pi” (pi greco) e “pie” (torta), viene mandato su Marte con un messaggio il pi greco, appunto, con qualche cifra decimale. Se i marziani completeranno il numero infinito con le cifre che seguono, sarà segnale che c’è un contatto. E questo succede. I Cronyn diventano gli uomini del momento, e iniziano a fare domande ai marziani. Apprendono così che la società marziana è splendida e utopica: la vita media è di trecento anni, c’è pace, ma soprattutto l’unica fonte energetica che viene usata è quella “cosmica”. Quando questi messaggi vengono diffusi, sulla terra si pensa che, in fondo, se i marziani fanno a meno di carbone, petrolio, elettricità, possiamo farne a meno anche noi. Risultato? Crolla l’economia occidentale, con gioia dei comunisti. I russi, nel frattempo, tentano tramite lo scienziato di comunicare con Marte, ma ottengono solo di intercettare la conversazione già esistente tra marziani e americani.
I Cronyn chiedono come fanno, su Marte, a non scannarsi l’uno con l’altro. I marziani rispondono che hanno demandato la risposta a Dio, che dice di amare il bene e odiare il male (testuale). Risultato? Rivoluzione religiosa sulla terra. Scena esemplificativa: la famiglia russa, che abbiamo visto spesso morire di freddo in una dacia, decorata con ritratti di Lenin e Stalin, scopre le sue radici. Il vecchio è in realtà un pope, e tira fuori icone e paramenti nascosti sotto terra. Mentre celebra la messa, arriva l’esercito russo e li stermina. Ma la forza della religione è troppo forte, quindi il messaggio di Dio vince e tutti diventano buoni. Anche l’Unione Sovietica, adesso comandata dal patriarca ortodosso. Sembra che vada tutto bene (e l’economia crollata? Mah), quando compare lo scienziato ex nazista ora comunista a casa dei Cronyn. Rivela che le risposte le ha scritte tutte lui, per fare crollare il mondo occidentale. Ma, colpo di scena!, le risposte che lui aveva previsto alle domande “esistenziali” rivolte dagli americani non erano quelle che effettivamente sono arrivate! Il comunzista accusa gli americani di avere imbrogliato il mondo, diffondendo quei messaggi: ha chiamato la stampa a casa dei Cronyn proprio per questo. Durante una colluttazione si accende il televisore usato per comunicare con i marziani e inizia a captare un messaggio. Dio esiste e sta su Marte, allora! Ma, per un incidente, il laboratorio esplode e i tre muoiono.
Il presidente degli Stati Uniti non può fare altro che riferire al mondo (ormai pacificato dalla religione) del tragico incidente e completare con parole sue l’ultimo messaggio cristiano arrivato da Marte.
I figli dei Cronyn in lacrime seguono il discorso in televisione. Un generale li abbraccia e li porta verso una finestra. Zoomata verso il cielo terso, dove compare la scritta “The Beginning”.

Tutto vero. Roba che va tranquillamente a competere con il tasso di ideologia dei film di Leni Riefenstahl. Roba, insomma, da fare impazzire di gioia un Bush qualunque. Reagan no. A lui piacevano i western.

Ho comprato l'agenda per ricordarmi di dare da mangiare al mio Tamaboy

Dio, che tristezza d’uomo. Che sono. Talvolta. Lavoro e basta. E guadagno poco. No, perché almeno perpetrare la tradizionale propensione al lavoro e al conseguente accumulo di ricchezze del Nordest, che peraltro è un po’ più a ovest da dove provengo, anche se è un posto che sta più a ovest rispetto a dove stava, per dire, Stakanov. E invece no. Mi ammazzo di lavoro praticamente gratis. Mi darò al calvinismo per un posto letto in tripla in paradiso.

Comunque è vero, ho comprato un’agenda. E ci segno le cose che devo fare. Tipo i turni del lavoro. O tipo dare da mangiare al mio Tamaboy. Ma cristo, non muore mai? No, è che sono io che ho un cuoredimamma. Anche se l’ho chiamato “Cojone”.

Recentemente lei mi ha detto: “No, non dirmi adesso quando c’è quella o quell’altra cosa, piuttosto scrivilo sul blog, così mi ricordo.” Detto, fatto.
Domani inizia il Future Film Festival, quindi sarò vita natural durante là in mezzo. I report qua.
Ma domani sera presento per la seconda volta Mi ricordo di Matteo B. Bianchi allo Zo Caffè. Il libro è speciale, davvero.
Invece sabato sarò tutto il giorno qua. Prima o poi devo preparare la mia relazione per quell’incontro. Segnare sull’agenda.
Sotto “dare da mangiare al mio Tamaboy”.

P.S. Ehi, mica mi lamento, non fraintendetemi. Cojone ride che è un piacere. Sono soddisfazioni.

Il Monolocane perde il pelo, ma non il vizietto

Torna Monolocane. Giuro che eviterò di parlare di quella legge di cui tutti parlano. Proprio perché ne parlano tutti, non ho trovato nessuno da intervistare su altro. Ma, perché c’è sempre un ma, senza se e senza ma, regalerò inviti per due persone per il film Ray, la cui anteprima si terrà a Bologna lunedì prossimo. Chiamate e rispondete a facili domande sulla vita e le opere del famoso musicista di pianobar.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se siete nella città felsinea. Se siete altrove, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation (forse, non si sa: fatemelo sapere!).

[mixcloud https://www.mixcloud.com/Monolocane/monolocane-13-gennaio-2005/ width=100% height=120 hide_cover=1]

Di |2005-01-13T17:26:00+01:0013 Gennaio 2005|Categorie: Eight Days A Week|Tag: , , , , , |7 Commenti

Esiste forse un'ironica giustizia nelle gif animate?

Sul sito di Repubblica, oggi, c’è un articolo che parla di un’indagine dell’Eurispes sul lavoro oggi, sulle aspettative di chi lavora.
Praticamente una ricerca di Riza Psicosomatica sulla depressione.
Ma tanto il rapporto verrà bellamente ignorato, e si continueranno a magnificare le opere (grandi, medie, piccine) di questo governo, che ci ha dato lavoro (un lavoro di solito part time, senza diritti, senza possibilità di sviluppo, con il quale non puoi accendere un mutuo, ma manco affittarti un monolocale da solo).
Ma il perfido caso, o un perfido webmaster, ha voluto che, accanto al paragrafo sul lavoro atipico e sugli abusi che si fanno di quelli che hanno un contratto Co.Co.Co., comparisse una pubblicità sull’Opa Tim Telecom, una delle aziende che più sfrutta le anomalie contrattuali, tanto che ci sono diversi procedimenti in piedi contro l’azienda stessa. Il risultato, comunque è questo, o meglio ancora, questo.

Lavoratore atipico TIM, o altro, che leggi questo post: ridi amaro, ma non farti vedere. Ricordati che, fondamentalmente, non conti un cazzo e che non ci vuole niente per perdere il quasi niente che hai.

L'umanità è bella perché è varia

Tornato dalla mia vacanza più lunga dopo quella di quest’estate, avrei voluto scrivere qua delle cose buffe e belle viste e sentite tra Venezia e Verona. O magari del fatto che mi sono fatto leggere per la prima volta i tarocchi, che mi hanno previsto un 2005 splendido. Sì, mi sto toccando, embè? Invece no.

No, perché ieri, nell’ultimo giorno di questa brevissima vacanza, ho assistito ad una serie di episodi orrendi e sussurrati, comuni e tremendamente fastidiosi. Piccoli come cellule tumorali, e con lo stesso potenziale distruttivo, proprio perché invisibili.
Un viaggio in autobus. In fondo ci sono dei ragazzi marocchini, giovani, sui quindici anni. Accanto a loro due ragazze loro coetanee, che sembrano marocchine anch’esse. Quando le due ragazze si avvicinano alla porta per scendere, i ragazzini iniziano a prenderle in giro. “Bum, bum Camerùn, meglio negro che terùn!”, “Dal Po in giù l’Italia non c’è più”, e cose del genere. Le ragazze un po’ sorridono, un po’ sono in imbarazzo. Poi iniziano a parlare tra loro e sento che sono meridionali. Una di loro dice ai ragazzi: “Ma proprio voi parlate”. Poi, rivolta all’altra: “Verona, non c’è niente da fare.” Il mio primo innocuo pensiero è “Ma guarda un po’ come si mescolano i tratti dei volti”. Il secondo pensiero è “Umanità di merda.”

Un altro viaggio in autobus, poco dopo. Una donna africana, vicino all’uscita, parla a voce alta con un uomo, nella sua lingua. Non si capisce se stiano litigando o se si stiano prendendo in giro. Altri passeggeri dell’autobus, rigorosamente italiani, quindi inclini di natura al silenzio e alla contemplazione, sbuffano e protestano. Un ragazzo accanto a me dice, a voce né troppo alta né troppo bassa: “Una bella pistola, quello ci vorrebbe, e… bam bam”. Affiora nella mia mente solo il secondo dei due pensieri di prima.

In stazione, meno di un’ora dopo, sono al bancone del bar, e sto per pagare una Coca. Arriva un signore, dal chiaro accento meridionale, e chiede con una certa arroganza di parlare con “il responsabile”. La signora alla cassa si gira verso di lui e chiede quale sia il problema. L’uomo, sempre con lo stesso tono, protesta dicendo che il caffè che gli è appena stato servito è troppo lungo, o troppo corto, non ho ben capito. Intanto dietro di me si forma una piccola coda. L’ultimo in fila, un ragazzo della mia età, protesta dicendo che certa gente dovrebbe smetterla di rompere le scatole in questo modo. La discussione tra il cliente e la barista continua, e accanto all’uomo arriva una donna, dai tratti nordafricani: evidentemente i due sono insieme, e forse il “problema” del caffè riguarda anche lei. Il ragazzo dietro di me continua: “Sicuramente quello là non è italiano”. Io mi giro e lo fisso, pensando a quanto noi italiani, effettivamente, siamo accomodanti sulla risoluzione di ogni tipo di problema. In quel momento l’uomo alza la voce, e si sente che parla evidentemente nella nostra bella lingua, anche se non con una cadenza che l’Accademia della Crusca approverebbe. Il ragazzo continua: “Certo, guarda con chi sta, con quella mezza araba del cazzo.” Solo a quel punto, un attimo prima che io dica qualcosa, l’uomo dietro di me lo zittisce come si direbbe ad un bambino di smetterla di fare dei versi. Io guardo il ragazzo, lui mi guarda, poi la signora torna alla cassa e pago. Non ci sono pensieri, nella mia testa.

L’epilogo di tutto questo si svolge un paio di ore dopo, in un autobus che sostituisce il tratto di treno dove è accaduto l’incidente di qualche giorno fa. Fuori è tutto buio, non si vede nulla, e mi sembra di stare fermo. Accanto a me, da una parte e dall’altra, due ragazze africane si preparano per una notte di lavoro. Una tira fuori un opuscolo dallo zaino. E’ il giornale dei Testimoni di Geova, in inglese. In quel momento l’orologio digitale in fondo al pullmann mi dimostra che il tempo scorre: scattano le ventidue e tre minuti dell’ottavo giorno dell’anno nuovo.

Di |2005-01-09T14:35:00+01:009 Gennaio 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , , |13 Commenti

Bring your friends

Ci vuole tanto tempo per ascoltare i tre cd e per vedere il dvd del cofanetto With the Lights Out. Ogni canzone è difficile da sentire, il suono è spesso sporco e lontano anche dalla raffinata produzione di Nevermind, e da digerire. È istintivo cercare di intravedere nei video il viso di Cobain, ma non è facile. Sembra sempre nascosto, e spesso lo è. Come ha scritto Bertoncelli sul numero di dicembre di Linus, ascoltando i dischi si prova un senso di disagio. Sì, perché per quanto ne sapessimo delle difficoltà private di Cobain, sfociate nel gesto più intimo e privatamente doloroso che si possa immaginare, si sapeva poco della sua musica, del suo modo di sentirla. Non basta avere sentito e letto le sue dichiarazioni di amore e di riconoscenza nei confronti di Melvins, Beatles, Dinosaur Jr e Sonic Youth, tanto per fare quattro nomi. Quando si sente Kurt suonare a casa sua, provare le canzoni, quando lo si vede suonare ventenne a casa di Krist Novoselic sempre rivolto contro il muro, come se volesse sfondarlo con la voce, ecco che penetriamo con violenza una sfera che Cobain stesso ha sempre voluto mantenere privata, a prezzo della vita. E si sente un disagio e un dolore diverso da quello che ci ha colpiti dieci anni e mezzo fa.

Non intendo fare il fighetto. Non sapevo cosa fosse Bleach, prima dell’uscita di Nevermind. La maggior parte di noi ha sentito l’immediatezza di “Smells like teen spirit”, e si è accodata ai suoi accordi iniziali, sentendoli veramente come propri, o solo usandoli per prendere il ritmo e saltare verso altre persone ed altre camicie a quadri svolazzanti. Avevamo bisogno di Kurt Cobain, perché non avevamo nessuno, in quel momento. Dovevamo rifarci al passato, a qualcosa di lontano, che aveva il fascino della morte. E mi fa strano adesso vedere come si pongono di fronte a Cobain gli adolescenti con cui talvolta lavoro. Kurt è come Jim. Niente cognomi, niente gruppi. Solo nomi. Idoli. Qualcuno di appartenente ad un altro tempo, che è morto violentemente e con la coscienza di farlo. Qualcuno che, con Grohl e Novoselic, non dimentichiamolo, ha veramente segnato un’epoca, in sette anni. Sette anni, la gente si stupisce, si meravigliano anche i recensori. “Soli sette anni”, dicono. I Beatles hanno avuto una carriera di otto anni in un periodo in cui i percorsi musicali potevano tranquillamente durare il doppio. I Nirvana hanno avuto un percorso di sette anni quando i percorsi musicali iniziavano ad essere di qualche decina di mesi. Adesso i tempi sono cambiati, due diciottenni su tre (secondo quanto scritto nelle note del disco) non sanno chi sono i Nirvana. Facciamo loro ascoltare qualche canzone, cercando di non sentirci vecchi. Anzi, alziamo il volume e facciamogli sentire “Smells like teen spirit”. Noi, almeno, quella canzone ce l’avevamo.

Torna in cima