Archivi mensili: Ottobre 2007

(Mal)destro

Poco fa, ad Anno Zero, Storace ha dichiarato: “ci sono molte persone che seguono la trasmissione collegati al mio blog, che fa più contatti di quello di Di Pietro, che sicuramente vi diranno o no, se vogliono Luttazzi in televisione.”
Prima della punch line, due note:
– basta parlare sempre di “Luttazzi-in-televisione” (e con questo non si pensi che io non lo voglia in tv, anzi);
– “io ho il blog più grosso del tuo”? Oh, dio.

Ovviamente nel blog di Storace compaiono, non appena dice quella frase, un sacco di commenti pro-Luttazzi.

Step by step: "In Rainbows" dei Radiohead

Eccoci qua, quindi. Dopo avere speculato su geroglifici, messaggi sul sito ufficiale, date di uscita dell’album. Dopo avere congetturato sulla presunta fine delle etichette discografiche e su download più o meno legali. Dopo tutto, quello che ci rimane è la musica. Lo ascolto da stamattina, quindi queste non sono impressioni proprio a caldo. Certo, non credo di avere mai scritto così velocemente di un disco. Oh, ne avevo voglia.

15 Step. In Rainbows si apre con ritmi elettronici, sui quali si innestano la voce di Thom Yorke prima e delle tessiture di chitarra poi. Basta il primo minuto di questa canzone per capire che siamo dalle parti dei Radiohead e basta. Se Hail to the Thief poteva essere considerato un tentativo di tornare a “quelli che erano i Radiohead” (ma quali, dico io, visto che i tre album precedenti erano diversi l’uno dall’altro?), ecco che il sincretismo si compie in maniera più definita già nella prima traccia del nuovo disco. Chi suona è un gruppo che ha alle spalle e allo stesso tempo ben presente tutto quello che è stato.

Bodysnatchers. Vigorosa intro di chitarra, batteria, basso pulsante. E ditemi che non sono rock, dai. Il pezzo cresce di intensità ad ogni battuta, gli strati si sovrappongono fino ad una cesura improvvisa, e i suoni tornano chiari e la voce di Yorke sale, e tutto ricomincia, per poi scomparire piano e ricominciare di nuovo. La traccia rimanda direttamente all’album precedente.

Nude. Archi campionati e incisioni al contrario, acuti, un basso nitido suonato su tonalità alte. Forse questo brano è come avrei che avesse suonato The Eraser. Ma basso e chitarre sono discreti nel tenere su il pezzo, seppur presenti, e il cantato indugia in glissandi e lievi vibrato. E il finale è lasciato a voce e archi. Sarà il momento accendini accesi ai concerti, occhi lucidi. E baci con la lingua.

Weird Fishes/Arpeggi. In parte il titolo spiega da solo il brano. Anche qui chitarra, basso e voce, e una batteria sincopata. Il crescendo è molto lento, poi si spegne e Yorke dice di essere stato mangiato da questi pesci bizzarri, e l’atmosfera si fa subacquea e ovattata prima e minacciosa poi, fino al finale.

All I Need. Un basso quasi fuzz, senso di solitudine e nudità. Insomma, una splendida canzone d’amore alla Radiohead. In sottofondo, ogni tanto, fanno capolino archi impazziti alla Hermann, per un secondo, e un vibrafono riprende la linea del basso. In mezzo, la voce inconfondibile che ben conosciamo. E il pianoforte. Uno dei pezzi migliori del disco. Niente di nuovo, ma rapisce.

Faust Arp. “One-Two-Three-Four”. Inizia così questo gioiellino di due minuti. L’inizio mi ricorda moltissimo un pezzo degli Zero 7, ma non ricordo quale. Gli archi sono molto presenti, e i loro arrangiamenti mi fanno tornare in mente alcune armonie che usava molto Nick Drake, così come sono intersecati con gli arpeggi di chitarra acustica. Forse il pezzo a cui mi sto affezionando di più.

Reckoner. La batteria dell’intro è registrata lontano, e definisce uno spazio ampio che verrà riempito nel corso del brano. Yorke viaggia su tonalità molto alte, ma il falsetto è pulito e preciso come al solito, raddoppiato. Lo spazio centrale della canzone è affidato ancora una volta ad una magnifica apertura d’archi e alla voce, anzi, alle voci che armonizzano l’una sull’altra. E’ un esempio di come i Radiohead in questo disco riescano ad essere lievi e pieni allo stesso tempo.

House of Cards. Un ritmo quasi sambeggiante, con vocalizzi lontani. Inizio quanto meno spiazzante. “I don’t wanna be your friend / I just wanna be your lover”. Ah, ecco, siamo meno spiazzati, adesso. La canzone sembra dovere esplodere da un momento all’altro, ma il castello di carte rimane in meraviglioso e prodigioso equilibrio.

Jigsaw Falling Into Place. Un titolo meraviglioso, che rimanda all’immaginario visivo dei Radiohead. Cantato basso, che segue un ritmo sincopato come prima, e poi esplode, insieme alla progressione armonica della canzone. Niente di nuovo, intendiamoci. Ma, oh, le canzoni belle i Radiohead le fanno anche perché sono loro a farle. Ehm, un po’ involuto come concetto, mi rendo conto…

Videotape. Pianoforte e Thom Yorke. No, dico. E, sentendola, mi si è stretto il cuore, perché il concetto stesso di videotape è qualcosa che ormai va oltre il contenuto, ciò che vi è registrato sopra. Si carica di un senso antico: lui la molla e le lascia il messaggio inciso su nastro. Uno splendido paradosso per chiudere un disco che è associato tantissimo a tutto quello che è digitale. Una splendida canzone per chiudere un ottimo album. Se vi aspettavate un capolavoro rimarrete delusi. Nonostante questo, ci scommetto, lo ascolterete compulsivamente.

E fou amor a primo ascolto

Quando arriva un disco in radio è spesso accompagnato da un comunicato stampa abbastanza inutile. Ma quello con il primo disco degli Amor Fou, La stagione del cannibale, mi ha colpito da subito.

(…) Durante una festa i quattro [componenti del gruppo] conoscono Adele H. e Paolo M. Lei romana, figlia di una freak e di un pariolino, lui fuoriuscito dalla Milano bene degli anni sessanta. Un tempo innamorati come pazzi, si lasciarono senza motivo, giovanissimi, il giorno della bomba di piazza Fontana per poi ritrovarsi negli anni novanta, ma questa volta senza amore e senza odio. (…)

Da questa storia, o meglio, dai racconti che i due hanno fatto ai componenti della band, nasce questo disco meraviglioso. Un disco pop(ular), come dicevano gli Area, un disco necessariamente cantato (narrato) in italiano, perché parla della nostra nazione, della nostra storia, senza nominare alcun evento storico, a parte gli ultimi due brani, “L’anno luce” e “La strage”, in cui comunque la storia è filtrata attraverso il personale (il privato, si diceva un tempo, contrapponendolo a pubblico, e contaminando entrambi con il politico). E una strage di Stato è avvenuta lo stesso giorno in cui finisce l’amore, il primo, quello più grande. Quello matto (fou) e passato, che fu. E che non può tornare. Non è un caso che siano gli anni ’90 quelli in cui i due protagonisti si ritrovano. E non è un caso che non ci sia amore né odio, allora, tra i due. Nei primi anni ’90 ci sono stati gli ultimi veri tentativi di aggregazione sociale e di protesta politica compatta. Gli anni della Pantera, dei primi (nuovi) centri sociali. Gli ultimi anni in cui aveva un senso concreto raggrupparsi in un posto fisicamente. Per inciso, gli anni della mia adolescenza.

La stagione del cannibale è direttamente riferito ai momenti più alti che la nostra canzone ha avuto negli anni ’60, anni di amori e speranze per tutti, scoppiate proprio alla fine di quel decennio, il 12 dicembre del 1969, una data che si è portata via molte più cose di quanto non si pensi. E un cantante di allora che gli Amor Fou tengono ben presente, Luigi Tenco, si tolse di mezzo prima ancora di quel momento. Ma Cesare Malfatti, Leziero Rescigno, Alessandro Raina e Luca Saporiti conoscono bene i suoni di adesso, e sanno scremare tra ciò che effettivamente rimarrà e le chilate di fuffa che la cosiddetta “scena indipendente” riversa sul mercato. E appoggiano melodie e cantato su richiami evidenti alle migliori sonorità elettroniche di oggi, Notwist, Lali Puna e Tarwater su tutti.

Sento da settimane questo disco e non mi annoia. E mi sorprendo a cantare i testi a memoria, cosa che non mi succedeva da molto tempo.
Questo rende ancora più bello il fatto che La stagione del cannibale sia il disco della prossima settimana a Maps e che domani, lunedì 8 ottobre, dalle 16 gli Amor Fou saranno negli studi di Città del Capo – Radio Metropolitana per parlare del disco in trasmissione. E per suonarne qualche brano.

Per sentire e vedere: Amor Fou – MySpace

Thumb Tech

Ricordate la drammatica giornata di lunedì, che si è conclusa con l’immagine dell’icona universalmente nota come “iPod triste”? Bene, ci sono sviluppi. Positivi, grazie al cielo.

Giovedì tornavo dal concerto dei Rosolina Mar al Locomotiv Club e raccontavo le mie disavventure tecnologiche alle persone con me. Ad un certo punto se ne viene fuori Matteo, collega radiofonico e bassista dei Discodrive, e con l’aria di chi la sa lunga, esordisce dicendo: “Tranquillo. Ad un certo punto, mentre ascoltavi una canzone sull’iPod ti si interrompeva e ti si bloccava tutto e dovevi riavviarlo? E ad un certo punto questa cosa non ha funzionato più, è apparsa l’icona universalmente nota come ‘iPod triste’, e l’iPod non si vedeva su iTunes, non partiva, non si vedeva sul pc, non si ricaricava, insomma, pareva defunto?”
Io ho risposto “Sì” a tutte le domande.
“Quello che devi fare” ha continuato Matteo “è premerlo forte.”
“Eh?”
“Davvero. Premilo forte tra la rotella e lo schermo: sentirai una specie di vuoto. Vedrai che tutto torna a posto.”

Sono arrivato a casa, quella sera, scettico. Ho guardato l’iPod, l’ho messo sulla scrivania e ho premuto per qualche secondo qua:

ed è ripartito. Trattasi (lo dico per i precisini) di un iPod Photo da 20Gb fuori garanzia.
Non ci potevo credere. Capito? Il fichissimo iPod, oh, che design meraviglioso, quanto know-how tecnologico… E poi funziona né più né meno del mitico juke box di Happy Days, quello che Fonzie faceva partire con una botta sul lato.

Diffondete questo sapere. Farà risparmiare soldi e preoccupazioni a tanti.

Hitting Everybody The Police Live, Torino 02.10.07

Uno si rende conto di come passi veloce il tempo quando nota che ha parlato di questa data dei Police sette mesi fa. Alla fine, possiamo dirlo, i tre hanno mantenuto la parola chiesta. Nessun disco nuovo, almeno finora. Ma anche niente “Mother” in scaletta. Comunque.

È stato un bel concerto, c’è poco da dire. Che però è iniziato alle 9 e 40. Niente di male, se non fosse che le danze sono state aperte da “La notte della Taranta”.
Primo problema del fatto che due membri su tre dei Police abbiano rapporti con l’Italia: Copeland, che ha lavorato con i “tarantolati”, li ha chiamati sul palco. E quindi alle sette di sera, eccoli là: seimila musicisti sul palco e duemila tamburelli, a suonare una taranta inutilmente contaminata con altro. Già a me la taranta sta sulle palle, quando poi per ringiovanirla, riadattarla, rifarla la mischiano con blues, rock ed elettronica… Ah, tra i musicisti c’era anche Raiss degli Almamegretta. Ma non è finita qua.
Secondo problema del fatto che due membri su tre dei Police abbiano rapporti con l’Italia: Sting ha fatto aprire il concerto di Torino, come gli altri del tour, dalla band di suo figlio, tali Fiction Plane. Io non lo sapevo e quindi il mio ragionamento, quando è iniziato il loro set, è stato: “Toh, una band con basso/cantante, chitarra e batteria. Come i Police. Toh, il loro suono ricorda i Police. Ehi, ma il cantante assomiglia a Sting.” L’italico nepotismo è stato però incrinato da una dichiarazione che il giovine leader della band ha rilasciato a Repubblica il giorno dopo. Ha detto qualcosa come: “Siamo meglio dei Police, perché mio padre è un precisino.” Mah.

Insomma, alla fine i Police sono saliti sul palco allestito al “Delle Alpi” davanti a 65000 persone. Solo il pubblico, visto dall’alto delle tribune, era uno spettacolo. Scaletta ben congegnata, con pezzi più soft per prendere fiato alternati ad altri brani suonati veramente con indole rock: e le età dei tre, sommate, arrivano quasi a 180 anni. Molti brani sono stati riarrangiati, con un picco in una meravigliosa versione di “Wrapped Around Your Finger”, veramente emozionante. Schermi giganti e giochi di luce hanno esaltato una scenografia comunque sobria. E poi, che dire della scaletta? Un successo dopo l’altro, dai cinque dischi usciti in poco più di cinque anni. “Roxanne” ci ha invaso di luci rosse, Sting non si è risparmiato, Stewart Copeland ha percosso ogni cosa, Andy Summers ha fatto il suo (e si anche messo una giacchetta, ad un certo punto: si sa, a volte basta un colpo di freddo…). E’ stato un concerto divertente, ben suonato, che ha coinvolto il pubblico più enorme che mi sia capitato di vedere finora. E alla fine, dopo una versione davvero tirata del primo pezzo di Outlandos d’amour, “Next to You”, tutti a casa sorridenti, dai quindicenni che hanno spulciato nei dischi di papà, ai papà, appunto. E la sensazione di avere visto un mito, sì, venticinque anni dopo, ma pur sempre mito.

Setlist: Message in a Bottle – Synchronicity II – Walking On The Moon – Voices Inside My Head/When The World Is Running Down – Don’t Stand So Close To Me – Driven To Tears – Truth Hits Everybody – Hole In My Life – Every Little Thing She Does Is Magic – Wrapped Around Your Finger – De Do Do Do De Da Da Da- Invisible Sun – Walking In Your Footsteps – Can’t Stand Losing You – Roxanne – King Of Pain – So Lonely – Every Breath You Take – Next To You

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"Potrebbe essere peggio: potrebbe piovere" (cit.)

Ci sono delle giornate che dovrebbero finire ad un certo punto, e invece vanno avanti inesorabilmente.
Oggi è stato tutto molto faticoso, ma perfetto: lavoro di mattina, trasmissione al pomeriggio, Timothy Brock come ospite è stato fantastico, poi ci sono stati i provini finali per la nuova conduttrice di Seconda Visione. Insomma, giornata impegnativa, ma nella norma.
Ma proprio quando uno si dice “Ok, faccio la spesa e torno a casa”, ecco che si abbatte la sfiga. Impetuosa.

Arrivi alla cassa del supermercato. “Ha la tessera?” “No” “Vuole una busta?” “No”. E l’ultima domanda te la fai tu: “Hai il portafoglio?” e ti rispondi “No”. Quindi lasci la busta della spesa lì e torni in radio. Trovi il portafoglio, stai per tornare al supermercato, quando ecco che ti rendi conto che non hai le chiavi. Vai negli studi dove sei stato e ti rendi conto con orrore che potrebbero essere nella redazione musicale: l’hai chiusa dall’esterno, diligentemente, con le chiavi dentro. E tu sei l’unico dei tuoi colleghi presenti a quell’ora ad avere le chiavi di quell’ufficio. Panico. Ma poi, no, non sei stato così diligente: la porta è aperta! Entri. E le chiavi non ci sono. Le ritrovi in un altro studio, che hai utilizzato sì, ma hai abbandonato poco diligentemente, e qualcuno l’ha già fatto notare ai tuoi colleghi. Inizi già a pensare ad una mail di scuse, ma devi tornare al supermercato, pagare la spesa e andare a casa.

Vai alla cassa dove sei stato: non c’è la stessa cassiera, evidentemente in quel posto praticano un turnover spietato. La nuova ragazza ti dice che la tua spesa è stata spostata (con la cassiera di prima) alla cassa 12. La cassa 12 ha una fila di trenta metri. Aspetti, aspetti, ma poi non ce la fai, e chiedi gentilmente di passare avanti, dovendo solo pagare la spesa. Tutti ti guardano un po’ così, ma alla fine ce la fai. Ma la cassiera non può farti pagare la spesa e basta, deve chiamare il responsabile casse con il telefono interno. Mentre lo attendi tutti quelli che hai superato pagano la loro spesa, e ti guardano come per dire “Ma allora, cazzo chiedi?”
Finalmente arriva il responsabile. Paghi la spesa. Palpi le chiavi nella tasca. Tutto è a posto. Ci vuole un po’ di musica. Accendi l’iPod e…

Andato: dopo due ore passate a cercare di capire che ha, so che dovrò affidarlo ad altre costosissime mani.
Questa giornata sta finendo. Domani vado a Torino a vedere i Police, ma spero di non essere io a portare sfiga, perché domani è anche il compleanno di Sting. Mi dispiacerebbe per lui.

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