Toccare il pubblico nel profondo e farlo viaggiare: intervista con i Black Mountain

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Un punto d’unione tra Pink Floyd e Black Sabbath: una definizione un po’ grossolana, ma efficace, per i Black Mountain, una band canadese che amo molto. Nonostante il revival psichedelico, spesso con sfumature stoner, sia onnipresente, e il gruppo non si dissoci da queste sonorità (anzi), la caratteristica di Stephen McBean e compagni è che, sin dall’esordio self-titled del 2005, hanno definito una loro personalità in maniera precisa e convincente. Il loro nuovo disco, IV, esce il primo di aprile sempre per Jagjaguwar e, di lì a pochi giorni, la band arriva in Italia per due concerti, a Bologna e Torino.

Oggi pomeriggio a Maps manderò in onda l’intervista realizzata con Amber Webber, in cui abbiamo sviscerato la genesi di un album validissimo, che mette insieme con sicurezza e controllo chitarre e spazio, glam e arrangiamenti orchestrali. Salite a bordo.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta, voi vivevate e suonavate insieme. Ora che non passate più tutto questo tempo tutti insieme il vostro modo di scrivere è cambiato?
In linea di massima, questo non ha cambiato tutto quanto. Steve ora vive a Los Angeles, ma comunque scrivevamo spesso separatamente e poi facevamo le prove e ci scambiavamo delle idee tutti insieme. Cioè, io, Steve, Jeremy o chiunque della band scriveva una canzone, poi talvolta registravamo una specie di demo e ce lo spedivamo. Poi, quando eravamo nel posto dove suoniamo, arrivavamo a un’idea della canzone e la arrangiavamo insieme. Quindi il processo è molto simile a com’è sempre stato.

L’album è sostenuto in parti uguali da chitarre e sintetizzatori: come avete usato l’elettronica in IV?
Jeremy, il nostro tastierista, ha un sacco di roba analogica, quindi forse non è il caso di parlare di elettronica, intesa nel senso moderno. Ma d’altro canto i Black Mountain non hanno mai voluto essere considerati una band di chitarre e basta. Amiamo gli spazi aperti che i synth possono fornire, un po’ come li intendevano i Pink Floyd: sono spazi bellissimi. Le band che hanno un suono sempre e solo incentrato sulle chitarre non mi piacciono: cioè, amo la chitarra, ma di più lo spazio. E inoltre è molto divertente cantare con quel tipo di spazio, piuttosto che avere sempre le chitarre che si lamentano…

Il titolo del disco ha a che fare con l’omonimo album dei Led Zeppelin o dobbiamo considerarlo una specie di self titled?
(ride) Quello che vorremmo fare è chiamare i dischi semplicemente 1, 2, 3, eccetera. Specialmente Jeremy ha letteralmente pregato la band di chiamare il disco IV. È una specie di omaggio… Ci sono un sacco di album classici che si intitolano semplicemente “4” in cifre. Quindi anche noi abbiamo deciso di stare sul classico, sul rock classico e di intitolarlo IV.

La traccia di apertura, nonché primo singolo, “Mothers of the Sun” prepara un’atmosfera che viene completamente sconvolta dal pezzo più rock and roll di tutto il disco, “Florian Saucer Attack”. Mi racconti qualcosa di questi primi due brani?
A dire il vero “Mothers of the Sun” è un pezzo vecchio intorno al quale abbiamo girato per anni, perché non aveva mai il giusto arrangiamento… Jeremy ha iniziato a suonarlo dal vivo da solista, come Sinoia Caves; una sera l’abbiamo sentito e gli abbiamo detto: “Amico, devi rimetterci le mani sopra!” L’ha fatto e ha iniziato a suonare giusto: un bel risultato per noi, visto che era un brano che ci penzolava di fronte al naso da tempo. E su “Florian Saucer Attack”… amo quella canzone, è super divertente, va dritta al punto, è un pezzo rock da ballare.

C’è un’altra traccia, “(Over and Over) The Chain” che ha in comune con quella di apertura la lunghezza e i timbri, ed è a sua volta collegata con il brano che chiude il disco, “Space to Bakersfield”. Come avete pensato alla scaletta?
Di solito non lavoriamo a un disco canzone per canzone: registriamo un sacco di brani e non tutti finiscono nell’album. Quelli che scegliamo sono quelli che raccontano una storia e che stanno bene con gli altri. Non so se quelli che citi si assomiglino, ma di certo evocano sentimenti simili.

Si può dire che ci sia un tema “spaziale” che affiora qua e là in tutto il disco, dal punto di vista musicale e testuale?
C’è sempre qualcosa di spaziale nei Black Mountain (ride). Noi stessi a volte fluttuiamo nello spazio… Comunque sì, certo, c’è… Mi piace pensare che i Black Mountain facciano musica attraverso la quale si può nuotare come se si fosse nello spazio, che diano la sensazione di essere legato a ogni tipo di pianeti, vita, eccetera. Se la nostra musica ti fa sentire così, è fantastico.

Uno dei tuoi grandi momenti in IV è in “Line Them Up”, dove brilli davvero. Raccontaci qualcosa del brano, che è – dal punto di vista musicale – il più tranquillo e dolce di tutto il disco.
“Line Them Up” è l’unica traccia del disco che ho scritto completamente da sola: è una canzoncina di cui ho continuato ad ascoltare il demo, pensando che avrei dovuta usarla in qualche modo. Così l’ho data ai ragazzi della band, a cui è piaciuta: l’abbiamo arrangiata inserendo un bridge, una sezione centrale strumentale, e così penso sia diventata una canzone dei Black Mountain, con la stessa sensibilità di ballate che abbiamo scritto in passato, e quindi ho pensato potesse andare bene per la band. È l’unico pezzo che ha un’orchestra, un arrangiamento d’archi nella parte centrale. E ci sono i corni, bellissimi. Sono felice del risultato: di quella canzone sono proprio orgogliosa.

“Cemetery Breeding” è una specie di versione adulta di un pezzo dark pop strappacuore per teenager: pur mantenendo la sua maturità, mi sembra che sia teneramente indulgente su ciò che accadde nel cimitero del titolo.
Ah, quella canzone! (ride) Ha una specie… Insomma, ti immagini questi due adolescenti che corrono in un cimitero e si amano, o qualcosa del genere. Magari c’è un elemento drammatico… Mi piace molto: è una delle canzoni più pop dell’album, divertente, ma allo stesso tempo triste e drammatica. Un gran pezzo. L’ha scritto Steve e non so esattamente cosa intendesse con i versi, ma è nato come un brano sobrio e in acustico e alla fine si è trasformato in qualcosa di pop.

Senti anche tu un pizzico di West Coast o un sapore californiano in “Crucify Me”?
Ah, davvero hai pensato a questa cosa? Non ci ho mai riflettuto ma in fondo Steve vive a Los Angeles, quindi magari c’è un po’ del sole della California, e il deserto si è fatto strada tra le canzoni qua e là.

Parliamo dell’aspetto visivo del vostro ultimo lavoro, il video di “Mothers of the Sun” e la copertina del disco.
La copertina è tutta opera di Jeremy, che si è sempre occupato di tutto l’aspetto visivo della band: c’è la sua mente bizzarra al lavoro in quel campo! Amo la sua arte e non mi pongo troppe domande su quello che fa: è molto astratto, usa il collage… Per qualche motivo noi Black Mountain parliamo un sacco del Concorde, l’aeroplano: in testa avevamo l’idea di metterlo sulla copertina del disco. E Jeremy ha messo un Concorde in copertina: fantastico! E poi ha aggiunto elementi mistici, altre cose che non sai bene cosa siano… Non si capisce che stia succedendo: c’è una sensazione di mistero, è figo. Il video per “Mothers of the Sun” è stato realizzato da due ragazzi di Vancouver: li abbiamo lasciati fare e se ne sono venuti fuori con questa specie di ragazzini psichedelici… Hanno elaborato un’idea complessa: neanche io sono sicura davvero del reale significato del video. Ti dovrebbe dare l’idea di portarti in un’altra dimensione, che è sempre una figata… Insomma, un video bizzarro che è anche un trip: funziona bene con la canzone.

Qual è il tuo più grande desiderio in campo musicale?
Quello che davvero voglio è realizzare bei dischi, suonare dal vivo ed essere fonte d’ispirazione per il pubblico… o almeno fare viaggiare la gente mentre suoniamo. Non si vedono spesso concerti in cui sei toccato nel profondo, o nei quali la band dimostri un certo grado di innovazione. Ecco, questo è ciò che vorrei essere in grado di dare al pubblico: qualcosa che li tocchi e li faccia stare bene.