Archivi mensili: Maggio 2022

Dagli archivi: The Work of Director (2003)

Attenzione: leggere questo post vi farà immediatamente spendere un sacco di soldi. Già, perché in questo mondo di ladri, dove si scarica gratis di tutto, esistono ancora dei prodotti che ha senso comprare. Qui non stiamo parlando di un DVD che contiene un documentario, no. Qui i DVD sono sette: ognuno di essi è dedicato a un regista. Ma scordatevi, almeno in buona parte, i manuali di storia del cinema. I registi in questione, infatti, hanno principalmente diretto videoclip, tra i più belli di quest’arte che ha qualche decina d’anni di vita.

È il 2003 quando la Palm Pictures fa uscire la prima serie di The Work of Director: i primi tre DVD sono dedicati a Spike Jonze, Chris Cunningham e Michel Gondry. Come mai loro tre? Ehm, perché sono loro a ideare questa collana. Ogni uscita consiste in un DVD stracolmo di materiale (in media una quindicina di clip, tra video, installazioni, corti e spot televisivi) e in un libretto di una cinquantina di pagine che racconta il mondo del regista in questione, con interviste, riproduzioni di appunti, fotografie e storyboard. In più ci sono speciali, making of, documentari. Il terzo della prima infornata, quello di Gondry, è particolarmente allettante, considerando soprattutto la ormai lanciata carriera cinematografica del geniale regista francese: chi di voi ha amato Human Nature, Eternal Sunshine e L’arte del sogno, troverà pane per i suoi denti e un film/diario imperdibile. Due anni dopo, la Palm Pictures si ripete: questa volta i nomi sono quelli di Mark Romanek, Jonathan Glazer, Anton Corbijn e Stéphane Sednaoui. La formula, però, non cambia. Libro, video musicali, spot televisivi e altre gustose amenità.

Il consiglio che vi diamo è di prendervi tre ore di tempo e godervi ogni DVD in una volta sola: il perché di questa istigazione alla maratona audiovisiva (che vi ripagherà, ne siamo certi), è presto detta dal titolo stesso della serie. L’approccio della Palm Pictures a questa enorme e variegata quantità di materiale fondamentalmente di origine commerciale o promozionale è quella di una sorta di politica degli autori, che rivoluziona il modo di concepire i videoclip. Di solito i video musicali sono raccolti per autore, vedi le uscite con i videoclip di Bowie, altre con tutti i video dei Radiohead, eccetera. Raggruppando però questi prodotti per autore si scopre qualcosa di eccitante: c’è un trait d’union evidente tra le immagini scelte per commentare “Red Guitar” di David Sylvian e quelle di “Liar” di Henry Rollins: la firma di Anton Corbijn, tanto per citare un altro che è passato al cinema. Le ossessioni di Cunningham si ritrovano tanto dei deliri ritmati dall’electro di Aphex Twin quanto in video raggelanti creati per Madonna e Björk. E ancora, il senso apocalittico di Romanek è visibile nello spot per Levi’s intitolato “Odyssey” quanto nell’insostenibile videoclip per “Rabbit in your headlights” degli U.N.K.L.E.

Per ora i DVD di The Work of the Director si fermano qua: ci sono voci di una possibile terza serie, che comprenda registi nuovi, ma anche aggiornamenti di nomi già esaminati. Tuttavia per ora non vi è nulla di certo. Ora non vi rimane altro che mettere mano alla carta di credito e regalarvi un giorno intero di pura estasi audiovisiva.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel gennaio 2011

Dagli archivi: Reality 86’d (David Markey, 1991)

Una delle band più importanti e influenti della storia dell’hardcore celebra nel 2011 due anniversari: trentacinque anni dalla fondazione e dieci dallo scioglimento. Stiamo parlando dei Black Flag, che nel lasso intercorso tra il 1976 e il 1986 diedero davvero una spinta notevolissima all’undereground culturale statunitense e non solo.

Reality 86’d, firmato dallo stesso David Markey di 1991: the Year Punk Broke, racconta l’anno finale dei Black Flag, quel 1986 in cui i nervosismi e gli attriti tra i tre membri (che ipotizziamo non fossero esattamente delle persone facili) portarono al collasso del gruppo. Certo, i Black Flag non se la passavano comunque bene: sempre poveri in canna, perseguitati dalla polizia ovunque andassero, tesi dai loro stessi caratteri. Neanche un grande disco come In My Head e il tour che lo seguì (al centro del documentario di Markey) poteva salvarli.

Però c’è un problema: se a metà dello scorso maggio Reality 86’d era comparso su Vimeo, salutato da orde di fan entusiasti di poter vedere questo reperto eccezionale di un’era tutt’ora estremamente influente, allo stesso modo, alla fine di quel mese, il documentario è stato eliminato [ndr 2022: è nuovamente disponibile a questo link]. Perché? Per volere di Greg Ginn, chitarrista e fondatore dei Black Flag. Che ha da recriminare quel genio di musicista? Tentano di scoprirlo Dan Collins in quest’intervista e Tony Rettman in quest’altra, ma pare proprio che Markey non sia riuscito a ottenere nulla se non un “perché no” da Ginn, l’unico tra i protagonisti del documentario che ha creato problemi: gli altri Black Flag, infatti, sarebbero più che contenti di vederlo distribuito e così i membri delle altre band che compaiono nell’oretta che dura Reality 86’d). Caratteracci, si diceva.

Fatto sta che è un peccato: perché, sebbene la mano di Markey sia la stessa, qui c’è una bella differenza rispetto a 1991. Se nel documentario citato c’è la sensazione (veritiera, peraltro) che i Sonic Youth e i loro amichetti se la stiano spassando mentre scorrazzano nei festival estivi europei di inizio anni ’90 e sentano di avere un futuro davanti a loro, i Black Flag non nascondono di essere al limite del collasso. La macchina da presa sporchissima di Markey, la vita in furgone, l’imponenza titanica di Henry Rollins, le tonnellate di erba fumata, i kids che pogano come se non ci fosse un domani: ci chiediamo che cosa succederebbe se una vecchia videocassetta del documentario spuntasse tra duemila anni nelle mani di archeologi del futuro. Siamo certi che sarebbero anche loro in grado di percepire l’energia (seppure talvolta negativa) che trasuda da ogni secondo del film e, forse, ristamperebbero il documentario. Sempre che nessun parente di Ginn si faccia vivo per impedirlo.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel giugno 2011

Dagli archivi: Sins of My Father (Nicolas Entel, 2009)

“Tali padri, tali figli”, dice un vecchio adagio dalla natura piuttosto conservatrice. Ma se tuo padre si chiama Pablo Escobar?

Sins of My Father (Pecados de mi padre in originale) è un documentario del 2009 coprodotto dalle due nazioni che segnano per sempre la vita del primogenito di uno dei narcotrafficanti più famosi e potenti della storia: Juan Pablo nasce in Colombia e si gode la vita che può avere un bambino figlio di un milionario che lo ama alla follia; lo stesso Juan, alla morte del padre, è costretto all’esilio in Argentina. Il regista Nicolas Entel, dopo un esordio nel 2005 con Orquesta Tipica, decide di buttarsi anima e corpo in questo progetto: raccontare la storia di Pablo Escobar attraverso moglie e, soprattutto, figlio.

Juan Pablo in realtà si chiama da anni Sebastian Marroquin: e per forza, considerando che le minacce di morte nei suoi confronti non sono ancora solamente un ricordo. Ciononostante, decide di porre fine alla spirale di violenza da subito quando, dopo una reazione a caldo alla notizia dell’uccisione del padre da parte delle forze di polizia colombiane (e pare anche di uomini del cartello rivale, quello di Calì), dichiara di non volersi vendicare degli assassini del padre.

Insieme alla narrazione dell’ascesa e della caduta del boss della cocaina, proprio il tema della spirale di violenza che passa dai padri ai figli, e del sentimento di vendetta, è al centro del film che documenta un gesto eccezionale: l’incontro di Juan Pablo con i figli di due tra le vittime più illustri di Escobar, i politici Luis Carlos Galan e Rodrigo Lara Bonilla. I due, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, avevano provato a fermare il potere del narcotraffico colombiano, il cui radicamento negli apparati statali stava diventando sempre più solido.

Il figlio di Escobar è incredibilmente lucido nel narrare la sua storia, ma anche nell’affrontare l’incontro sul quale si chiude il film: per prepararsi scrive una lettera toccante e profonda ai figli di Galan e Lara, in cui si pone umilmente nella posizione di chiedere scusa per i crimini commessi da un padre perso quando aveva sedici anni. Il protagonista del documentario, però, è altrettanto cristallino nel ricordare l’affetto del padre senza cadere in alcuna forma di assoluzione, tant’è che pare, in certi frangenti, che debba crollare all’improvviso, stremato dai sentimenti contraddittori che – ne siamo certi – nutre tuttora a proposito di una figura così feroce e, al tempo stesso, vicina.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel maggio 2011

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