Chiaramente, uno si lamenta, et voilà, arriva un libro scritto in lingua italiana – anche se non scritto da un’italiana – che fa gridare al miracolo. Si chiama La mano che non mordi ed è opera di un’albanese di neanche quarant’anni, che ha vissuto dal 1990 in poi in diversi paesi d’Europa, Italia compresa, Ornela Vorpsi.
Quando ci sono altri autori che mandano alle stampe centinaia di pagine, di cui almeno la metà sono inutili, e altri autori che scrivono libri piccolissimi che sono ancora più piccoli, viste le numerose (e poeticissime) pagine bianche che intercorrono tra un capitolo e l’altro, la Vorpsi riesce a colpire e aggrapparsi all’anima del lettore in meno di 90 pagine, con un romanzo che non ha una trama vera e propria, ma che sprigiona tutto tra le righe. Quando dico tutto, intendo veramente ogni cosa, dai profumi agli stati d’animo, dal dolore all’infanzia, dai sapori di casa ai detti della nonna. Senza dimenticare la Storia, quella più vicina e dimenticata, che riguarda i Balcani e i loro innumerevoli conflitti.
La protagonista del libro si sposta da una parte all’altra d’Europa, fisicamente e con i pensieri, da Parigi a Milano, da Roma a Sarajevo, e viaggia nel suo tempo, nell’intimità del ricordo, riuscendo ad essere personale senza essere privata, e parlando di tutti i popoli balcanici senza citarli e senza pretese di ecumenismo.
Quello che risalta è il continuo senso di spiazzamento: non c’è uno dei personaggi che incontriamo nelle pagine del libro che sta dove deve stare. E’ proprio questa sensazione di vagabondaggio forzato e perenne, che prima di tutto l’autrice ha vissuto sulla sua pelle, di spostamento, di viaggio senza essere viaggiatori (come si dice nell’incipit del libro), che emerge nella scrittura della Vorpsi. Si sente il disagio di non essere a casa propria e il senso di estraneità quando si torna a casa dall’Occidente ricco, la fatica di trovare la lingua giusta per comprare dei dolci e il senso di inadeguatezza e di non appartenenza a quei sapori e odori, che pur rimangono nella memoria.
E il tutto, badate bene, viene solo suggerito, attraverso una lingua mobile, dinamica e agile, che tuttavia evita ogni forma di sperimentalismo “tanto per fare”.
Siamo noi occidentali ad essere rappresentati nel romanzo come una massa indistinta, rovesciando una prospettiva che ci vede spesso parlare di “altri” con sostantivi collettivi o terze persone plurali. Ecco quindi che la Vorpsi fa storia, capovolgendo un punto di vista, e, attraverso i numerosi personaggi albanesi, bosniaci, serbi che incontriamo nelle pagine del libro, ricordandoci che la polveriera balcanica, scoppiando, ha creato una vera e propria diaspora, spargendo brandelli delle sue popolazioni ovunque in Europa.
Un grande, grandissimo libro.
mi interessa questo punto di vista “rovesciato”, appena torno in italia me lo cerco
mi hai fatto venire voglia di sperimentare la lingua mobile della Vorpsi
mario
ma come ha fatto a piacerti borat? secondo me è noioso da morire… ripetitivo dall’inizio alla fine. sono curiosa di sapere cosa ti è piaciuto
ciao
nora
[…] capo”, alla faccia della presunta “poesia delle pagine bianche” di cui parlavo qualche settimana fa) esprime qualcosa che è più di un generico disprezzo del nostro paese: in fondo, chi è che non […]