Archivi mensili: Marzo 2025

Dagli archivi: Nils Frahm – Solo

Nils Frahm – Solo (Erased Tapes)

7,5

Il primo Piano Day della storia è un’idea del musicista berlinese che ha deciso di festeggiare “fino a che il sole esploderà” l’ottantottesimo giorno dell’anno (il numero non è casuale, tanti sono i tasti del pianoforte), regalando il 29 marzo via Twitter un nuovo disco solista, l’undicesimo in dieci anni. I tre quarti d’ora dell’album sono l’estratto di nove ore di improvvisazione registrate nel gennaio 2014 su un M370, prototipo di pianoforte verticale alto più di tre metri e mezzo. E i ricavi della vendita delle copie fisiche di Solo servono a finanziare un’altra impresa del costruttore David Klavins, l’M450, che raggiunge i quattro metri e mezzo di altezza.

Frahm rimane insomma un sognatore e uno sperimentatore che tuttavia non perde mai di vista la musica: gli otto brani del disco (più placidi i primi, più incalzanti gli ultimi) proseguono la ricerca sul suono (stavolta senza elettronica) e sulla forma. Richiami impressionisti si intrecciano a momenti percussivi, la melodia talvolta si sposta dalla ribalta, lasciando lo spazio ad accordi distesi e all’ambiente. La peculiarità del pianoforte gigante è sfruttata al massimo, i microfoni ci fanno sentire scricchiolii, armonici e ogni minima variazione dinamica. E Nils Frahm, seguitando a non sbagliare un colpo, si conferma uno dei musicisti migliori dell’ultimo decennio.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Inventions – Maze of Woods

Inventions – Maze of Woods (Bella Union)

7,5

“I wanted to do something that I don’t know how to do”, si sente nella traccia d’apertura del nuovo disco degli Inventions: ma Mark T. Smith (Explosions in the Sky) e Matthew Cooper (meglio conosciuto come Eluvium) sanno il fatto loro, tanto da produrre un lavoro più riuscito dell’esordio di poco meno di un anno fa. Il duo prefigura strade nuove, prendendo spunto da ciò che ha consolidato (il singolo “Springworlds” è in linea con il self-titled), senza paura di continuare a sperimentare con i beat (“Escapers”) o di esprimere in maniera più definita i propri caratteri timbrici peculiari. Ecco quindi scorrere l’una nell’altra parti più basate sul rumore e il piano di Eluvium (“Moanmusic”) e altre in cui le chitarre spaziali di Smith prendono il comando.

Ma la vera novità del disco è la presenza dell’elemento vocale in quasi tutte le tracce: la voce-strumento (spesso sotto forma di campionamenti e loop) è usata in maniera estremamente versatile e si limita a fare da punteggiatura, diventa aria d’opera o si tramuta in un dolce ululato (“Wolfkids”). Maze of Woods documenta in maniera affascinante la ricerca sonora di due musicisti che continuano a dimostrare una coesione e un affiatamento invidiabili, anche e soprattutto quando gli intrecci che creano formano labirinti sonori verso i quali l’ascoltatore è irrimediabilmente attratto e nei quali si perde piacevolmente.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di marzo 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Matthew E. White – Fresh Blood

Matthew E. White – Fresh Blood (Domino)

8

Altri ascolti raccomandati
Matthew E. White – Big Inner
Dusty Springfield – Dusty in Memphis
AA VV – Atlantic Rhythm & Blues 1947-1974

Tre anni dopo Big Inner, Matthew E. White ci regala un altro bel disco: Fresh Blood è più pensato del debutto, ogni brano è lavorato finemente e arrangiato con gusto. Ciononostante il nuovo lavoro del musicista di Richmond non suona laccato o falso: rischi che poteva correre ognuna di queste dieci tracce che si muovono tra americana, soul e r’n’b, con pochissima elettricità e senza un briciolo di elettronica. In fondo, ogni disco che mostra chiaramente quali siano i suoi antenati (l’albero di famiglia è ben rappresentato in dieci ore dalla splendida raccolta Atlantic Rhythm & Blues) può risultare una goffa imitazione del passato. White e i suoi musicisti (la house band dell’etichetta, Trey Pollard, Cameron Ralston e Pinson Chanselle) invece ci credono davvero, dimostrano la maturità raggiunta insieme e usano sapientemente ogni singolo elemento di ogni canzone, dalle dinamiche alle partiture per archi, dai raddoppi delle voci alle linee di basso, per creare una narrazione fluida e coesa.

Dall’apertura con “Take Care My Baby”, in cui la voce di White mormora incerta parallelamente al lento entrare degli strumenti (archi e fiati, oltre a piano, basso, chitarra e batteria: gli ingredienti sono questi), fino alla chiusura con il rhythm and blues classico e gentile di “Love Is Deep”, l’album regala momenti più divertenti (il singolo “Rock and Roll Is Cold”), altri più scuri (“Holy Moly”), sposando un soul orchestrale che si concede precise punte di elettricità, come in “Tranquillity”, uno dei pezzi chiave del disco. Sembra di esplorare le stanze di una casa, che, com’era accaduto nell’esordio, ci ricorda quella che sembra dischiudersi all’ascoltatore di What’s Going On di Marvin Gaye: una casa che odora di legno e polvere, tra le cui solide pareti si parla più d’amore che di politica. I tempi sono cambiati, del resto, ma il presente, se ci offre dischi del genere, non è poi così male.

Dagli archivi: Cannibal Ox – Blade of the Ronin

Cannibal Ox – Blade of the Ronin (IGC Records)

5,5

Basta confrontare la prima traccia del debutto del duo di Harlem con la intro di questo nuovo disco per capire che i 14 anni intercorsi tra lo splendido The Cold Vein e il fiacco Blade of the Ronin hanno decisamente cambiato le cose per Vordul Mega e Vast Aire (qui decisamente in primo piano rispetto al partner). Ciò che manca, soprattutto, è la ricerca dei suoni: nel 2001 i due raccontavano la loro NYC con distorsioni, squittii elettronici e bordoni inquietanti.

Le musiche del nuovo album, invece, sono un impasto troppo pacificato e poco convinto tra il tentativo di ricreare beat e basi del passato (che però allora erano, perdonateci il gioco di parole, all’avanguardia) e di tendere un orecchio ai suoni d’oggi. Il tutto sotto la produzione di Bill Cosmiq che, non ce ne voglia, fa il suo, ma non è l’El-P a cui The Cold Vein deve molto. Diciannove tracce che si srotolano lungo un’ora di disco, che avrebbe guadagnato molto da una sfoltitura, anche della guest-list: tra i featuring di Double A.B., Kenyattah Black, The Artifacts, U-God, eLZhi, Swave Sevah, Space, Elohem Star, IRealz, forse solo quello di MF Doom in “Iron Rose” si fa ricordare in qualche modo. Ma quella canzone, che vorrebbe riprendere la prima traccia con cui abbiamo conosciuto i Cannibal Ox, “Iron Galaxy”, ne è una pallidissima parente. Insomma, speravamo qualcosa di più.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

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