Strangers in a strange land
Affrontiamo oggi un argomento scottante, ma che in questo periodo di saldi è quanto mai di attualità. Sto parlando dell’accompagnare una donna a fare shopping. Il contesto è uno di quelli in cui le parificazioni tra i sessi non contano nulla: in un negozio di abbigliamento femminile (che venda scarpe, intimo o burqa) l’uomo e la donna stanno su due piani radicalmente e indissolubilmente differenti. Alla donna interessa quello che sta facendo, all’uomo no.
Nei negozi di intimo si possono creare situazioni spiacevoli, che non accadono, per dire, nelle corsie riservate all’intimo di un grande magazzino. Caratteristiche del negozio di biancheria intima sono la sua peculiare dimensione, visto che di solito è grande come uno sgabuzzino, e il fatto che – incredibile – la maggior parte della clientela è di sesso femminile ed è lì per comprare biancheria intima. Fino a che l’uomo sta vicino alla donna può consigliarla, con estrema malizia, facendo battute sconce, cercando di non indicare reggiseni sovradimensionati rispetto al petto della partner. Ma soprattutto gli uomini possono perdersi negli sguardi delle modelle delle gigantografie, modelle che di solito vestono sì e no con 12 grammi di acrilico in tutto. Se si guarda intorno, l’uomo inevitabilmente verrà accusato di fare confronti con altre donne presenti nel negozio. Il che, beninteso, è assolutamente vero: d’altro canto, in un contesto del genere, è difficile non fantasticare su sconosciute in biancheria intima. Basta spostare i reggiseni dalle loro mani che soppesano elastici e controllano coppe, alla loro naturale posizione, ben visibile, peraltro, in questa stagione.
Il dramma avviene quando la donna, contenta delle sue scelte, va a provare la biancheria. L’uomo, in quel momento, è solo, e sbaglia comunque, qualsiasi cosa faccia. Se rimane immobile, ecco che tutte pensano che sia un feticista del pizzo. Se si guarda intorno, palpando la merce, questo pensiero si fa certezza. Non può neanche cercare complicità negli altri uomini, a differenza di quanto accade in altri negozi. Se accompagnati, gli altri uomini saranno presi da una giustificata gelosia, visto che l’uomo in questione, come loro stessi hanno fatto, starà fantasticando sulle donne presenti nel negozio vestite solo di autoreggenti e baby doll. Se soli, potranno scambiare lo sguardo-da-richiesta-d’aiuto come una perversa forma di rimorchio omosessuale decontestualizzato. Disperato, l’uomo tenta di avvicinarsi ai camerini, per sollecitare la donna a muoversi, ma non appena si avvicina alle cabine, viene cacciato di malomodo nel negozio, ponendo fine ai suoi problemi.
Nei negozi di abbigliamento la situazione è meno drammatica. Sono più grandi, è più facile passare inosservati, e soprattutto si viene a ricreare quella ancestrale forma di solidarietà maschile che anni di progressismo hanno tentato di cancellare, senza risultati. Come in uno spogliatoio, in un bar o in una trincea, nei negozi di abbigliamento femminile gli uomini fanno subito amicizia. Seguendo istinti di sopravvivenza si attaccano l’uno all’altro, trovano sicurezza in individui simili a loro che seguono passo passo donne che li usano come attaccapanni, e li riempiono di borse, sciarpine, foulard, gonne e camicette. Nei negozi di abbigliamento si sentono cori maschili che intonano parole come “Ti sta benissimo”, con voce priva di tremori, perché sanno che un’incertezza nel giudizio richiesto può costare cara. Nelle corsie ricolme di top, uomini di tutte le età si guardano e si dicono silenziosamente “E che dobbiamo fare”, guardano furtivamente l’orologio, si muovono come le oche di Lorenz dietro a donne in vena d’acquisti senza fare domande, senza fiatare, sopprimendo ogni dissenso, zitti e mosca.
Gli uomini che accompagnano le donne nei negozi di abbigliamento, umiliati, ridotti a reggiabiti e a dispensatori di complimenti, soffrono. Ma resistono come soldati, spinti da un’unica speranza: che almeno quella sera, poi, si riesca a trombare.