Pretty Good Day
La stazione di Modena alle tre del pomeriggio di domenica è deserta. Anche Modena è deserta, tanto che si fa fatica a trovare qualcuno che ti dia un’indicazione su dove sia questo maledetto Parco Novi Sad. Quando lo trovo, anche il parco è coerentemente deserto. Eppure l’appuntamento con Keith, il tour manager di Tori Amos, uno che ogni volta che lo senti al telefono ti chiede prima come stai e solo dopo ti rendi conto che non è ben sicuro dell’identità della persona con cui sta parlando, l’appuntamento, dico, è alle quattro e manca poco. L’unica persona che vedo vicino all’arena è un uomo, africano o afroamericano, con la camicia della security. Gli spiego in inglese che ho un’intervista con Tori Amos e non ci crede. Mi chiede come mi chiamo, gli mostro il tesserino, dico che ho un appuntamento con Keith. “Chiamalo”, mi dice. Lo chiamo. “Ehi, come stai? Ah, sì, stiamo arrivando. Intanto chiedi di Jojo e fatti dare i pass.” Chiudo la telefonata. “Mi ha detto di cercare un certo Jojo”, un nome per me assolutamente plausibile, beatlesiano come sono. “Ah, Giorgio”, mi dice l’uomo con perfetto accento italiano. Scopro poi che viene dalla Costa d’Avorio, che lavora in una tv locale e che vive in Italia da anni. Mah.
Comunque, arriva Jojo accompagnato dall’altra promoter del concerto (molto bellina) che mi dice “L’artista non è ancora arrivata”, accomodati pure. Mi siedo, quindi, aspettando l’artista. E penso che è dieci anni che aspetto questo momento, quindi “Fate pure con comodo”, aggiungo sincero. Rimangono tutti colpiti dalla mia accondiscendenza. Come se uno dicesse “Eh, no, e che cazzo, l’appuntamento era alle quattro, scusate ho da fare, grazie e arrivederci.”
Poi mi chiama Keith. Mi alzo in trance e vado nel backstage. La promoter carina mi accompagna in una stanza, poi dice “no, andiamo in un’altra che c’è il ventilatore”, mi offre da bere, ci manca solo che mi faccia un massaggio.
La prima “cosa” di Tori che vedo è la sua meravigliosa bimba cinquenne, Nathasya o Tash. Mi gironzola attorno un po’, fino a che la bambinaia le dice che la mamma deve fare un’intervista in quella stanza. Tash, a malincuore, se ne va, con io che le faccio ciao-ciao con la mano.
Tori arriva e ci sorride. “Hi guys, please, let me stay for one minute with my daughter.” E allora capisco. Capisco che il fatto che il personaggio centrale della sua autobiografia sia la figlia non è un caso. Prima di qualsiasi cosa Tori, adesso, è una mamma. E quindi deve rassicurare la figlia che tornerà, comunque. Io sono già commosso, il cuore ha smesso di battermi da un paio di minuti buoni. Dopo un altro paio di minuti (e di pulsazioni), Tori arriva, mi sorride ancora, mi stringe la mano ed entriamo nella stanza. Keith mi ammonisce: “Tra dieci minuti busso”, e mi verrebbe da dire “ma come, ieri al telefono avevi detto quindici, oltre a chiedermi come stavo”, ma lascio correre. Che mi frega, sono seduto davanti a Tori Amos, io e lei in una stanza, con lei che è pronta a rispondere alle mie domande, che mi frega. Respiro e vado con la premessa all’intervista, che ho preparato più dell’intervista stessa. Mi confesso. Insomma, le dico che è vero, io sono lì in quanto giornalista, ho le domande pronte, dieci minuti, Keith, sì, sto bene, ma. Ma per me tu, Tori, la tua musica, insomma, sono importanti. Quindi c’è in me un dualismo. Da una parte il giornalista con un occhio al cronometro, ma dall’altra c’è il diciassettenne che si fa consolare da Under the pink e che sussulta ogni volta che sente la tua voce, Tori, e questa parte qua devo farla venire fuori. Facciamo un minuto solo dopo l’intervista, ok?
Tori ride, poi sorride e dice “Ok.” E inizio.
La mia mano sinistra, che regge il microfono, smette di tremare dopo qualche minuto. La voce di Tori è stanca, lei sembra stanca, ma mi fissa negli occhi, quando parla. Ora voi, miei piccoli lettori, mi direte: “Ma come, ti fissa negli occhi e tu riesci a scrivere queste cose? Dovresti essere morto più di ventiquattro ore fa”. E invece no. Perché è come si dice, ve lo giuro. Questa donna è speciale. Ti mette a suo agio senza apparentemente fare niente, anche se è stanca è attenta a quello che le viene detto, ci pensa prima di rispondere ad una domanda (e per quanto mi sia sforzato, è improbabile che le mie domande le risultino del tutto inedite). Tant’è che mi sblocco dal mio mutismo adorante e inizio a conversare con lei, e la sento vicina come l’ho sempre sentita. (Ogni tanto una voce mi ripete “Ma ti rendi conto? Tori Amos è seduta qui davanti a te e state parlando”, ma le dico che deve studiare per il compito di mate e lei torna buona nei miei diciassette anni.)
Quando finisco le domande, il contatore del minidisc segna i dieci minuti. Allora prendo Under the pink e glielo faccio firmare. Poi le dico “Foto?” e ce la facciamo, e poi io penso sia finita. E invece no. Inizia lei a farmi delle domande, e finiamo a parlare della traduzione della sua autobiografia, di Bologna, e poi bussa Keith. “Ho finito”, gli dico. Lui sorride e richiude la porta. Le chiedo scusa. “Mi sento stupido, sai, dopo l’intervista, questa parte da fan sfigato…” Lei sorride (sì, ancora), mi dice che è normale, anzi, le fa piacere, e mi fa i complimenti per l’intervista.
Ora, giornalisti che state leggendo. Quante volte qualcuno che avete intervistati vi ha fatto i complimenti per le domande che gli avete rivolto? A me non è mai capitato, davvero. E lo so, maliziosi, che pensate che lei lo dice a tutti. Ma lasciatemi questo regalo, su. Stronzi.
Usciamo nel caldo torrido. Lei mi abbraccia. “All the best to you.” E se ne va.
Torna la promoter. “Tutto bene?” “Arsadsgasvb”, dico, confidando che lei capisca dal sorriso che voglia dire “sì.” Non contenta, mi regala due biglietti per il concerto. Ma niente massaggio.
E poi, il concerto, ma che ve lo dico a fare. Potrei mai essere obiettivo dopo un pomeriggio del genere? No. Quindi, visto che si è fatta una certa, vi dico solo due cose. Che a metà di ogni spettacolo di questo tour, il concerto si trasforma nel Tori’s Piano Bar. Ricordando il suo passato di pianista di piano bar, appunto, Tori suona un paio di cover. La prima è per me sconosciuta. Nella pausa tra una e l’altra, penso che vorrei urlare e dire “I’m on fire”, e lei sicuramente ci farebbe una battuta sopra. Non riesco a finire il pensiero che inizia a suonare proprio la canzone di Springsteen. Ho le lacrime agli occhi, davvero.
E le ho di nuovo quando penso che non ho mai sentito “Pretty Good Year” dal vivo, nonostante questo sia il terzo concerto che vedo, e lei la fa come primo bis. Il diciassettenne che è in me torna alla ribalta, e pensa a collegamenti psichici da abbraccio, a lei che ride, al rumore dei cubetti di ghiaccio nel suo bicchiere, a Greg che scrive lettere. Non ho maniche su cui si poggiano le mie lacrime*, ma sono sicuro che ci sono.
Quindi, lettori del mio blog, sappiate che state leggendo le parole di un ragazzino che ha realizzato uno dei sogni della propria vita. Perdonate l’eccesso di entusiasmo, la mancanza di arguzia e di senso critico. Una volta tanto tutte queste cose belle e intelligenti possono andare a farsi fottere. Ora vado a ripassare, perché domani ho il compito di latino.
* Sì, è una citazione, ad uso e consumo di chi leggendo queste parole sentirà un nodo allo stomaco.
Un grazie particolare a C., che mi ha sopportato (anche) in questi giorni così intensi.
L’intervista.