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I due volti della bellezza – 2. Soap&Skin a Ferrara

Soap&Skin

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Non ho neanche avuto modo di assaporare il concerto di Bon Iver che, ventiquattro ore dopo, ero di nuovo a Ferrara: seduto sul prato del parco Massari, aspettavo un live che attendo da tre anni. Nel marzo 2009, infatti, sono stato folgorato da un disco cupissimo e dolente, Lovetune for Vacuum, firmato da una giovanissima musicista austriaca, Anja Plaschg, in arte Soap&Skin. Una voce lacerata e lacerante, sopra linee di pianoforte e accenni di elettronica, il tutto sotto l’egida di Fennesz. Testi scurissimi e canzoni profonde, che mi hanno fatto ancora più effetto perché la Plaschg è del 1990. Una ragazzina.

Da quel momento, da quel primo ascolto, ho seguito tutto ciò che la musicista ha fatto, me la sono persa a Ferrara e a Torino, ma l’abbiamo intervistata ad aprile, in occasione dell’uscita del mini cd Narrow. E venerdì, finalmente, ho visto Soap&Skin dal vivo.

Per introdurre questa “altra faccia” della bellezza, potrebbe essere utile rispolverare la vecchia opposizione di Lévi-Strauss tra natura e cultura. Se, infatti, Justin Vernon e soci hanno portato sul palco del Motovelodromo uno spettacolo perfetto, preparato pur non risultando artificiale o freddo, venerdì scorso il piccolo palco del parco estense ha ospitato qualcosa di completamente opposto. Soap&Skin è, infatti, una figura quasi primigenia: quella della donna in contatto diretto, immediato, con la Natura e le sue forze.

Anja è un corpo che pare canalizzare tutto ciò che di emotivo c’è nel mondo, con una propensione agli aspetti più violenti e dolorosi dell’esistenza. Sul palco solo un pianoforte: Anja ha cantato suonandolo o diffondendo basi registrate che, tuttavia, non hanno mai dato l’impressione di trovarsi di fronte a una specie di karaoke. Il pubblico, seduto a terra, è stato letteralmente investito da un’ondata di energia primordiale, di furia, orrore e disperazione.

Durante l’esecuzione di “Spiracle”, addirittura, è stato inondato di luce, mentre Anja cantava al buio parole come:

When I was a child
I bred a whore in my heart
A stillborn child
I gasp for –
The devil into my spiracle

Con un semplice espediente Soap&Skin ci ha fatto provare cosa significa stare sotto quelle luci mentre si è scrutati da decine e decine di persone. Persone che l’hanno fatta sorridere e che ha ringraziato numerose volte, ma davanti alle quali ha pianto, ha ammesso di essere confusa, prendendosi la testa tra le mani (e, ancora una volta, mi è parsa una confusione esistenziale più che contingente), arrivando, durante una parte strumentale di un brano, a rifugiarsi dietro il palco crollando a terra, per poi rialzarsi e riprendere a muoversi con gesti scomposti, bruschi, strappati e, insieme, perfettamente adatti alla musica suonata in quel momento.

Anche nella sera del 20 niente trucchi, nessun “artismo” e nessun compromesso: il concerto di Soap&Skin, ho scritto quella sera sul Twitter della trasmissione Maps, “è stato della stessa bellezza inquietante di una puntata di Twin Peaks”. E più ci penso più credo di avere assistito a qualcosa di straordinario, nel senso proprio di “fuori dall’ordinario”. Anja Plaschg è una creatura fragile e potentissima allo stesso tempo, capace di cercare con lo sguardo la madre, presente quella sera tra il pubblico, come probabilmente faceva da bambina, e di ruggire feroce picchiando la tastiera cantando della scomparsa del padre.

Soap&Skin potrebbe smettere di fare musica domani o decidere di continuare per sempre: noi, come con i fenomeni naturali, possiamo controllare poco. Ci dobbiamo limitare a osservare e ascoltare, nella perpetua possibilità di rimanere travolti.

I due volti della bellezza – 1. Bon Iver a Ferrara

Bon Iver

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L’edizione 2012 di Ferrara sotto le stelle, un festival di cui spesso ho parlato in queste pagine, è stata particolare. La causa primaria della sua peculiarità è relativa ai terremoti di maggio, che hanno portato alla scelta di trasferire i live (quando non sono stati annullati, come nel caso della Gainsbourg) da piazza Castello al Motovelodromo e dal Cortile Estense al parco Massari.

Ma non è stato solo il terremoto a influire sulla manifestazione: ci ha messo lo zampino anche la crisi economica o, molto più prosaicamente, il fatto che la gente abbia meno soldi da spendere in genere.

I biglietti (che andavano dai 13 ai 30 euro), quindi, sono diventati irraggiungibili per molti, che hanno preferito le numerose offerte musicali dal vivo gratuite organizzate in varie città sulle quali la manifestazione “gravita”.

Il risultato è che quest’anno di Ferrara sotto le stelle si è parlato meno degli anni scorsi, si è sentito di meno nell’aria, forse è andata ai concerti meno gente di quanta se ne aspettassero gli organizzatori. Ciononostante, anche questa edizione mi ha regalato due concerti meravigliosi, una sera dopo l’altra.

Di Bon Iver mi sono invaghito (come molti) quando sentii il dolente For Emma, Forever Ago, qualche anno fa. Ho continuato a seguirlo, ascoltando e apprezzando i successivi ep e album, ma sono rimasto incuriosito soprattutto da un disco uscito nel 2009 che vede Justin Vernon insieme alla big band della sua scuola di Eau Claire alle prese con un repertorio che spazia dai suoi brani a standard di Ellington, Nina Simone e Ella Fitzgerald.

Avendo ascoltato Eau Claire Memorial Jazz I poco più di un anno dopo l’esordio di Bon Iver, sono rimasto colpito: che avevano a che fare le canzoni scritte nella fredda baita per dimenticare una ragazza con quel jazz? Ci è voluto il concerto di Ferrara per capirlo.

Sul palco del Motovelodromo, giovedì scorso, sono saliti nove musicisti: oltre a Vernon, due batteristi, un violinista, suonatori di fiati e un paio di polistrumentisti, per non farci mancare nulla. Davanti a ogni membro (a parte uno dei due batteristi) un microfono per la voce. Dalla traccia di apertura “Perth”, fino a quella che ha chiuso il bis, un’ora e mezza dopo, il live è stato un esempio perfetto di riarrangiamento polistrumentale e polivocale.

Le armonie di voce hanno coinvolto fino a otto musicisti insieme e, in genere, il ripensamento dei brani (originariamente così scarni e spogli) è stato incredibilmente fedele, nonostante coinvolgesse così tanti timbri e colori in più rispetto alle incisioni originali.

Il miracolo è stato che mai nel concerto è parso che qualcosa fosse di troppo, che una parte fosse messa là per impressionare il pubblico, che ci fossero trucchi, insomma. Non solo: Justin Vernon, vincitore di due Grammy, ha chiacchierato col pubblico, con modestia e ironia, come di rado capita di sentire.

Intendiamoci: non si è trattato di concioni infinite, ma di parole giuste al momento giusto, senza che queste sembrassero preparate ad hoc. E la musica: ha fluttuato da atmosfere personali e emotivamente struggenti a momenti di coinvolgimento totale, con un totale cambio di dinamica rispetto ad altri frangenti.

Insomma, un godimento, creato da musicisti fantastici che hanno trovato il modo giusto di proporre uno spettacolo (perché di questo si tratta) non negandolo, ma convogliandolo in maniera naturale, spontanea e comunque perfetta.

Una gioia assoluta, condivisa con i tremila presenti al Motovelodromo che è riuscito a diventare un posto intimo quasi come piazza Castello, dove era previsto si tenesse il concerto.

continua

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