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Come Facebook uccise i blog (e altre forme di vita) – 2

(Continua dal post precedente)

3. Facebook ha ridotto ulteriormente l’unità minima di comunicazione
La Rete è stata vista, a ragione, come una grande opportunità per estendere la partecipazione a un pubblico idealmente infinito. La comunicazione condivisa e partecipata è stata una delle caratteristiche delle prime applicazioni in rete, dalle bbs degli inizi, alle chat, ai forum, ai blog. Queste forme hanno ovviamente stimolato il narcisismo degli utenti che hanno iniziato a pubblicare in rete qualsiasi cosa che li riguardasse, soprattutto nei blog a indirizzo personale (quale peraltro è questo che state leggendo). L’obiezione è stata spesso quella del “chi se ne frega”: anche io, a volte a ragione, a volte meno, ho ricevuto dei commenti che in pratica mi dicevano che certe cose della mia vita erano davvero di scarso interesse pubblico. A mia discolpa, però, posso dire che su questo blog ha spesso cercato di scrivere i fatti miei almeno in una forma accettabile, se non proprio esplicitamente narrativa: che ci sia riuscito o meno, è un altro paio di maniche.
Alcune nuove forme di comunicazione pubblica breve, Twitter e conseguentemente la compliazione di status di Facebook, da Twitter ispirata, hanno però portato all’estremo la personalizzazione dei contenuti . Insomma, tutti pubblicano tutto, senza filtri, scrivendolo male e con poche parole. Ricordando le premesse al post di ieri, pubblico qui in forma anonima dieci messaggi di status a caso di “amici” della pagina Facebook della trasmissione:
– “sono a letto con la febbre”;
– “long after tonight is all over”;
foto di gatto;
“Quando non ci sono gli ultrà avversari i tifosi dell’Hellas si scherniscono facendo anche le loro veci e intonando i cori di insulti che gli verrebbero altrimenti affibbiati… Perdonate la modestia ma siamo sempre i migliori, anche e a maggior ragione in serie C /=”;
– “‎(sono stata un po’ fuori di me per qualche giorno)”;
– “Amici miei.” con foto di amici dell’utente, presumo;
– “Melancholia Prima. In verità, di tutte le voragini fra cui ci muoviamo alla cieca, nessuna è tanto cupa, e per noi stessi inconoscibile, quanto il nostro proprio corpo. Lo si definì un sepolcro, che ci portiamo appresso; ma la tenebra del nostro corpo è più astrusa per noi delle tombe.“;
– “+” e basta;
– “Siamo tutti sotto processo, inevitabilmente” con video tratto da Il Processo di Welles;
“putrefazione”.
Frasi singole, citazioni, spesso solo parole o segni grafici, addirittura. Che cosa significa tutto ciò? Che cosa si vuole comunicare nella stragrande maggioranza dei casi, se non se stessi, in maniera, peraltro, criptica a tutti gli altri (e non credo che tutti gli “amici” veri o virtuali di questi utenti abbiano le idee chiare su cosa volessero dire)? Non ci sarebbe niente di male, se  questa modalità ormai adottata dalla stragrande maggioranza degli utenti di Facebook non portasse a due conseguenze.
La prima è che ognuno si sente legittimato a scrivere pubblicamente qualsiasi cosa: lo fanno tutti, del resto. Moltiplicate questa tendenza per i milioni di utenti di Facebook e quello che otterrete è la creazione di un “rumore di fondo” comunicativo che si innesta su un canale (esemplificato dal “rullo” degli status degli “amici”), tendendo a sommergere tutto il resto, compresi i contenuti interessanti, gli approfondimenti, le riflessioni anche minimamente articolate.
Voi direte: è la natura tecnica del mezzo. Eh no, perché il numero limitato di caratteri è nella natura di Twitter, non di Facebook, che ha uno strumento (le “note”) che permette di pubblicare post più lunghi. Be’, la percentuale di persone che usa le note di Facebook è minima, quasi infinitesimale rispetto al numero degli utenti, che preferiscono, quindi, comunicare in maniera per lo più breve e superficiale, affidando il loro messaggio a un video, una foto o una decina di parole. O anche meno.
Infatti un’altra mutazione portata da Facebook riguarda l’unità minima di partecipazione al discorso pubblico. Se nei blog c’era il commento (che comunque era formato da parole messe una in fila all’altra) la grande “rivoluzione” di Facebook è stata l’introduzione del pulsante “Mi piace”. Un clic e il gioco è fatto: si partecipa, esprimendo un’opinione (l’unica possibile: il tasto “non mi piace”, in Facebook, non esiste), si è all’interno del dibattito, si dà una sorta di “conferma di lettura” di un contenuto, si aderisce all’unità minima di partecipazione comunicativa, o di comunicazione tout court. Senza sprecare neanche una parola.

continua

Metastasi

Avrei voluto scrivere, tra qualche settimana, un post sulla mia esperienza su Facebook. Abbiamo aperto l’account di Maps e quindi anche io sono entrato nel magico mondo del social network più diffuso nei Paesi sviluppati: il mio girovagare tra i profili, richiedere amicizie e accettarne da conosciuti e sconosciuti, l’interazione sulla piattaforma sono tutte cose che mi hanno fatto pensare.

Ma c’è qualcosa che è più urgente da dire, secondo me.
Proprio su Facebook, da una decina di giorni, alcune donne e ragazze hanno iniziato a postare sul loro profilo frasi come: “A me piace sul divano”, “A me piace per terra”, “A me piace sul letto”. Prima una, pooi tre, poi cinquanta: questi messaggi sono aumentati nel giro di pochissimo. “Che senso ha?”, mi sono chiesto (una domanda che mi capita spesso di pronunciare, quando sono in giro su Facebook). Poi me l’hanno spiegato (a voce, eh): si tratta di una campagna per la prevenzione del tumore al seno, promossa in questo mese; quelle risposte (evidentemente maliziose e provocatorie, seppure all’acqua di rose) si riferiscono alla domanda “Dove poggi la borsa appena rientri a casa?”. “Che senso ha?”, mi sono chiesto nuovamente. Mi hanno spiegato, sempre a voce, che l’anno scorso la domanda nascosta era “Di che colore è il reggiseno che indossi in questo momento?”. Lo scopo era il medesimo: sensibilizzare le donne sulla prevenzione di quel tipo di cancro.
Attenzione: sui profili di queste persone compariva solo la risposta, senza link né altro che rinviasse ad una pagina del Ministero della Salute, che patrocina la campagna. Esattamente come l’anno precedente.

Allora mi sono fatto due domande. La prima è stata: “Che senso ha fare una campagna del genere in rete, considerando che gli stati, i messaggi, le sollecitazioni in genere su Facebook, per un utente medio come Maps, sono decine e decine ogni ora?”. Una campagna fallita, insomma. Ma mica solo per motivi “tecnici”.
Mi sono infatti chiesto anche che senso avesse parlare alle donne con un linguaggio da uomo. Perché di questo si tratta: la domanda della campagna di quest’anno prevede chiaramente di attirare l’attenzione attraverso risposte che abbiano comunque un retrogusto “sessuale”. Esattamente come l’anno precedente, dove si parlava di reggiseni.
Reggiseni imbottiti, forse?
No, perché io non sono una donna, ma considerando che uno degli esiti più probabili per certi carcinomi al seno è la mastectomia, che accidenti di senso ha parlare proprio di reggiseni? Ma che senso ha di parlare di sessualità in genere, considerando la seconda domanda, la valenza comunque sessuale del capo di abbigliamento sopra citato e, soprattutto, il fatto che presumo che una donna con un seno solo possa sviluppare delle legittime insicurezze proprio sulla sua capacità di essere attraente dal punto di vista erotico?
Ma non ce l’ho con i creativi assoldati dal Ministero, no: mi domando, però, se per una simile campagna per il cancro al testicolo, avrebbero usato una frase come “Tira fuori le palle e affronta la malattia”.
Ce l’ho invece con quelle donne che sono state, ancora una volta, ad un gioco improntato alla mentalità maschilista dominante e che, ancora una volta, si ritorce contro di loro come un boomerang affilato. Così non si va avanti. Soprattutto quando, sempre su Facebook, tra un “A me piace sul caminetto” e “A me piace sul tappeto”, ho visto uno scambio tra due ragazze. Una diceva: “E sei noi donne ci incazzassimo veramente?” e un’altra non rispondeva, non commentava. Semplicemente, cliccava sul tasto “Mi piace”: un gesto minimo, inane e sconsolato simile al sorriso di chi rimane a terra, senza la forza di alzarsi.

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