Omonimie
Ricevo una telefonata da un numero che non conosco. Nella mia testa si accende una scritta: “Lavoro”. Infatti, nonostante quello che si dice in giro, sono fondamentalmente disoccupato.
“Pronto?”
“Ciao Francesco, sono Martina”
“Martina?”
“La sorella di M. [la mia ex: le cicatrici che vedete ogni tanto sono opera sua], come stai?”
“Bene…”. La scritta “Lavoro” è sostituita da un grosso punto interrogativo al neon.
“Senti, scusa se ti disturbo, sono a Barcellona…”
“Ah”
“E ti volevo chiedere: ma come si chiama quel posto di cui mi hai parlato…”
“Che pos… Io? Quando?”
“Quando sei stato a Barcellona quest’estate, mi hai detto che eri andato in un posto bello, Calle de… Plaza…”
“Io sono stato a Barcellona quest’estate, ma…”
“Qualcosa tipo ‘De Mar’…”
Martina. Un’adorabile, sveglia quindicenne (credo), carina e intelligente: anche lei inesorabilmente intaccata dalla follia della sua famiglia. Anche Martina.
“Ma quando te ne avrei parlato?”
Inizia a balbettare qualcosa.
“Quando? Eh, mi…”
“Io sono stato lì quest’estate, ma io e te non ci vediamo da più di un anno…”, e vorrei anche ricordarle il perché, dicendo qualcosa sui costumi morali di sua sorella, ma evito.
“Ehm, sì, no… Cioè. Scusa, non importa, dai”
E la telefonata finisce. Continuo a pensare alla malattia di mente e alla sua trasmissione genetica, ai piselli di Mendel. Poi, ad un tratto, si illuminano nella mia testa due scritte, identiche: “Francesco”. Dal poco che so della mia ex, della quale meno conosco meglio è, dovrebbe stare con un ragazzo. Che si chiama come me. Forse capisco anche questo. Le scritte si spengono. Buio.