Ancora una volta mi trovo in bilico con uno dei miei lavori. Intendiamoci, niente di imprevisto o di illegale: semplicemente, mi scade un contratto. Credo che, in dieci anni di lavoro, sia la decima volta che mi scade un contratto il cui rinnovo è incerto. Una situazione logorante, che condivido con molti di voi, e che noi abbiamo in comune con tante altre persone che conosciamo. Ma non con tutte.
Eh già: perché chi come me lavora in ambiti che vanno dal giornalismo all’intrattenimento, dai media alla pubblicità, dal cinema al teatro ha una tara in più. Noi, semplicemente, non siamo produttivi. I libri, le trasmissioni radiofoniche, le sculture, le personali di pittura non aumentano il PIL. Gli articoli di giornale non si mangiano, i dischi non procurano carburante, non ci si può vestire con un copione teatrale. Una minuscola parte di questi prodotti viene scambiata a cifre altissime (vedi il budget plan provvisorio della sezione fiction RAI 2010 postato nel blog della SACT), ma per il resto, non ci sono che briciole.
Niente di male, eh. Voglio dire che è del tutto ovvio che un medico (che salva vite umane e quindi mantiene la forza lavoro) venga pagato più di uno sceneggiatore televisivo: ma quello che manca, a chi lavora nel campo culturale, è la dignità. La dignità viene tolta accettando di scrivere cose per altri senza il diritto di firma, sopportando (perché non c’è altra scelta) stipendi ridicoli, non avendo contratti, continuando a subire soprusi nel nome di un “mestiere” che, in quanto “divertente” e non legato a orari (secondo le logiche comuni), può essere fatto gratis. Ma perché, dico io. Qualunque mestiere dovrebbe avere dignità: lo dice la Costituzione, no? Poi, non è detto che chiunque abbia il diritto di fare tutto: dovrebbe entrare in campo la meritocrazia. Io ho il diritto di studiare medicina, poniamo, ma se i risultati che conseguo non sono sufficienti, bene che vada (e non è detto) andrò a fare l’infermiere. Non tutti sanno scrivere, per fare un altro esempio, c’è che si farlo meglio di altri, e va bene. Però è corretto, eticamente, che chi scrive, per dire, e lo fa con merito (un traguardo che è ben lungi dal raggiungimento, per quello che mi riguarda), abbia un compenso adeguato a una vita dignitosa. E invece mille euro al mese sono spesso un miraggio: non è un’esagerazione.
Ma, giusto, ho parlato di meritocrazia, la grande assente (assieme a molti diritti) nel panorama nazionale. D’altro canto, direte voi, se uno è bravo, e quindi offre un prodotto di qualità, perché non mantenerlo: conviene, giusto? Certo, se della qualità importasse davvero qualcosa a qualcuno in Italia. Ormai nel Paese la prospettiva che hanno le classi dirigenziali è quella di un miope stanco che ha perso gli occhiali. Non si riflette sul lungo termine, ma neanche sul medio: gli investimenti (che parolona) si fanno sull’hic et nunc, si pensa a rattoppare di continuo, senza considerare l’idea che mille toppe costano più, a conti fatti, di un rifacimento totale della struttura (qualunque essa sia, rimanendo nella metafora da carpentiere). E perché accade questo? Perché gran parte delle decisioni viene presa da persone che hanno davanti a loro, considerando la media dell’aspettativa di vita italiana, da dieci a vent’anni per scorrazzare su questo mondo. Non importa se il prodotto è più scarso di prima, l’importante è che costi meno, e che quindi i margini di guadagno siano più alti, per garantire ricche vecchiaie, sostanziose eredità e onorevoli funerali a chi comanda. Quindi è facilissimo, in questi campi di lavoro che dall’esterno paiono così divertenti e fichissimi, che tu venga sostituito da uno che ne sa molto meno di te, ma è disposto a lavorare per la metà di quello che prendi, sebbene il tuo salario sia già una cifra ridicola. E se si guarda bene, nella fila che si srotola fuori dalla porta del tuo ufficio (se ce l’hai), forse c’è qualcuno che farebbe gratisquello che fai tu, anche se non sa come si usa un congiuntivo.
Non leggete quello che ho scritto come uno sfogo personale: io, per alcuni versi, sono fortunato. E gli esempi che faccio esulano dal mio quotidiano, sebbene non siano del tutto distanti dalle mie esperienze. Ma io, come tanti altri, sono uno che produce qualcosa di impalpabile. “Un cazzo”, direbbe Brunetta, con il suo imprescindibile savoir faire, ed è questa l’idea che ormai passa. Chi fa cultura non fa un cazzo. Vero, tanto più che questo è un Paese dove ormai la panza ha soppiantato del tutto l’anima: a che servono i libri, i film, le canzoni non da Sanremo? A che serve investire sulla creatività giovanile, dare spazio a chi ha meno di trent’anni (e con la scuola così ridotta, i giovani si mantengono ignoranti, che genialata)? A chi importa di curare chi può portare delle nuove idee (da quanto tempo l’Italia non produce idee innovative, per non parlare di tutto il resto?): è la panza che va nutrita. E io, sempre di più, mi sento uno stuzzicadenti usato per togliere i resti di carne dalla bocca di chi (ci) mangia.