Con colpevole ritardo scrivo qualche riga sul concerto di Brian Wilson a Ravenna di mercoledì scorso.
Il ritardo è dovuto al fisiologico calo di voglia di fare alcunché, ma non solo: infatti è da tre giorni che tento di capire che cos’è stato questo concerto. Undici persone sul palco, Brian Wilson seduto (seduto) su uno sgabello al centro, almeno sei persone che cantavano contemporaneamente, un inizio con “I Get Around” e una fine con “Barbara Ann”. In mezzo, io che tento di capire che cosa sto vedendo, chi è quel signore seduto in mezzo al palco, io che mi commuovo e batto le mani insieme ad altre centinaia di persone sedute. Vediamo di capirci qualcosa.
Brian Wilson non ce la fa. E qui scatta la commozione, perché uno dei veri geni della musica americana non ce la fa più, nonostante sia coetaneo di McCartney, Bowie, Jagger, gente che salta, canta, balla. Lui non ce la fa, e si vede. Sta seduto, agita le mani come farebbe un vecchio nonno un po’ rimbambito, legge le parole sugli schermi che ha davanti.
Però Brian Wilson non sbaglia una nota, anche quando la sua linea vocale è mischiata in mezzo ad altre sei.
Ed ecco che passa il senso di tenerezza geriatrico, e subentra un altro tipo di commozione: ci si rende conto che quest’uomo ha sofferto. prima, probabilmente, per il peso di un padre-padrone-manager ossessivo. Poi, per i Beatles: diciamocelo, ma vi rendete conto, soffrire per i Beatles? Voglio dire, hanno provato questo lui, Pete Best (il loro primo batterista) e Stuart Sutcliffe (mollato prima di incidere il primo disco). Wilson soffre perché sente che, dall’altra parte dell’oceano, c’è qualcuno che fa musica in maniera geniale. Esce Rubber Soul, nel 1965, e lui dice: “Minchia!” (probabilmente). E poi aggiunge: “Adesso vi faccio vedere io.” E sforna quel capolavoro che è Pet Sounds. Tre mesi dopo i Beatles fanno uscire Revolver. Dieci mesi dopo ancora, Sgt. Pepper’s. E Brian crolla, letteralmente.
Tutto questo, badate bene, scrivendo canzoni che, perdonatemi la banalità, appena iniziano fanno spuntare sorrisi e bermuda a chiunque.
Brian Wilson ha ringraziato dopo ogni pezzo, prima in italiano e poi in inglese. Ha ricordato che lì si faceva rock’n’roll, e infatti tra i bis è spuntata “Johnny B. Goode” di quel Chuck Berry che tanto i Beatles quanto i Beach Boys amavano (e come fare altrimenti?), unico pezzo non scritto da Wilson in tutto il concerto. La conferma che le canzoni in scaletta erano di tutti, come possono essere solo le grandi canzoni.
“My state of being has been elevated, because I’ve been exercising, writing songs. I’m in a better frame of mind these days.
It feels great – it’s like I see some light. Things make sense to me again.”
francesco, sorrisi e bermuda che spuntano. mi piace assai. 🙂
m.
Ciao! io invece ho la cervicale. Amo internet, gli Enti, e la consistenza;
sono anche appassionato di strutture e delle Poste. Colleziono gli oggetti.
Ciao fra. Piacere vedere che ci sei, nonostante il caldo ed il comprensibile scoglionamento.
Sono io che ho problemi o non si vedono più le foto depositate nel tuo sito di altervista?
Abbracci.
_sinceramente b.wilson ora come ora mi fa un po’ pena_lo immaginavo in pensione in una casa in riva al mare sull’oceano
ehi. ma sai che son proprio belle le fotine che metti là in alto?
bella questa. ma niente male pure quella precedente, anche se molto diversa.
ciao… 🙂
mara.
C’ero anch’io al concerto, e non posso che confermare quello che hai detto.
Quando ho saputo che veniva B. Wilson a Ravenna, con un po’ di cinismo, ho pensato: “potrebbe essere l’ultima opportunità che ho di vederlo …”. Spero di no ovviamente, spero che possa andare avanti avanti avanti e ancora avanti….
Sì, è stato seduto per tutto il tempo, non sono riuscito a capire se ha effettivamente suonato, la salute, l’età, ovviamente, però non ha sbagliato una nota. La sua voce, il suo inimitabile falsetto non c’è più (immortalato per sempre nei dischi), ma va bene lo stesso. La band mi è sembrata superlativa, le canzoni impeccabili, non mi sono accorto delle due ore passate veloci come il vento. Sento già la nostalgia.
Porlock.
P.S. ho visto che hai fatto delle foto, se ti contatto via e-mail posso avere qualche foto del concerto (magari anche dei Kraftwerk, c’ero anch’io) ?
Ovviamente se ciò non ti disturba.
m (mara?): grazie e grazie ancora. le foto della testata provengono dal sito masters of photography, bellissimo.anonimo: e io che pensavo fosse azzurro.bando: immagino che la casa sull’oceano ce l’abbia, e mi piace immaginarlo là che compone.porlock: scrivimi, certo, ma le foto che ho fatto al concerto di brian wilson fanno veramente schifo, ero abbastanza lontano. al concerto dei kraftwerk, invece, mi sono attenuto ai cartelli e non ne ho fatte. tu?
Ti ho inviato una mail (da porlock[chiocciola]infinito.it).
Porlock.
la mia è solo invidia…(per la casa sull’oceano, ovvio)
mi spiace deluderti, ma questa volta quella “m” non sono io, caro… ;P
“mara”, invece, sì. quella sono io :)))
ah bene. allora, mi faccio un giretto, va’…
mara.
ah. ok, allora “mara” è mara, ed “m”? mica sarà quello di 007?
ma io sapevo che lo sfortunato Stuart Sutcliffe (il primo bassista dei Beatles) non era stato ‘mollato’ dagli scarafaggi, aveva deciso lui di rimanere ad Amburgo con la bella Astrid Kirchherr, per poi morire pochi mesi dopo di una misteriosa forma di tumore al cervello. Pete Best, invece, poveraccio, fu proprio mandato a spasso senza troppi complimenti. Sbaglio?
U
Bella la costruzione letteraria sulla sofferenza per i Beatles. A giudicare dalle stesse parole del Wilson (cfr. Beautiful Dreamer) non sembra proprio così, anzi, i Beatles piú che sofferenza gli erano di ispirazione e sprone a fare meglio. È triste invece constatatre che la massima sofferenza fu che le persone a lui più vicine non capirono, non dico il genio, ma anche solo le emozioni e il duro lavoro per esprimerle, il male di tutti, ma esponenziale per chi genio è davvero.
U.: effettivamente hai ragione. ho romanzato un po’. perdono.
fidelio: sono curioso di leggere questo libro, anzi, se ti va di darmi riferimenti più precisi, scrivimi. in ogni caso credo sia obiettivamente difficile parlare “male” dei beatles, senza nulla togliere alla probabile onestà di wilson nel dichiarare quello che hai riportato e ammettendo la mia “costruzione letteraria”.
Francesco, non si tratta di un libro (ma esiste davvero?) ma di un documentario, ‘Beautiful Dreamer: Brian Wilson And The Story Of Smile’, che trovi nel primo dei due DVD di Smile (nel secondo c’é l’esibizione della prima a Londra). In una scena di backstage si vede Paul Mc Cartney che va a salutare un Wilson preoccupatissimo, lo conforta per l’esibizione e gli dice che è un genio: commovente. Potrebbe anche essere senso di colpa da parte del McCartney per tutta la vicenda, ma, a giudicare dalle parole lette e ascoltate negli anni, non mi sembra si sia mai trattato di vero antagonismo. Quello che invece risulta causa palese della depressione pluriennale è l’abbandono da parte del resto del gruppo/famiglia, che al primo ascolto, non ha voluto sapere nulla di Smile. Insomma, Smile è croce e delizia di tutta la storia.
non credo che si sia mai trattato di vero e proprio antagonismo, ma di qualcosa, piuttosto, di unidirezionale, che andava da wilson ai beatles e basta.
ma insomma, vabbè che è agosto, ma di esperti dei beach boys che ci possano raccontare per bene la storia non ce ne sono proprio?
Mela mi ha segnalato il tuo post, e con piacere vengo a leggere e a lasciare un commento pure io. Anche se in ritardo.
Ero a Ravenna, lo scorso Agosto, e non mi sarei perso per nulla al mondo questo evento. Non perché, come è stato detto, sarebbe potuta essere “l’ultima occasione per vederlo”, ma perché era la prima volta che veniva in Italia! Ho iniziato ad ascoltare musica con McCartney e i Beatles, e i Beach Boys sono arrivati più tardi, ma su tutti gli altri, Fab Four a parte, hanno svettato col tempo.
Bella la tua recensione, ma come dice bene Fidelio, manca una parte fondamentale che riguarda la parte artisticamente più interessante di Brian. I Beach Boys non solo solo Barbara Ann e I Get Around. I Beach Boys SONO i Beatles americani. Pet Sounds, Friends, Smiley Smile, Wild Honey sono album sublimi, che non sfigurano affatto con la produzione dei liverpooliani.
Senza contare quel capolavoro incompiuto che è stato Smile per 37 anni, e che oggi, finalmente, possiamo ascoltare.
La sera del concerto sono rimasto un po’ male, comunque, per la troppa presenza di surf song, e poche canzoni da Smile. Da quando le scalette si fanno in base alle statistiche di mercato, dobbiamo accettare anche questo. Gli italiani conoscono solo i Beach Boys di Surfin U.S.A., allora il concerto sarà tutto così. Anche se abbastanza equilibrata la suddivisione a metà (prima parte surf rock, seconda parte Pet Sounds e altri lavori più “alti”). Non mi ha deluso comunque. La band è la miglior “orchestra rock” che circoli attualmente, senza contare il supporto psicologico che danno a Brian.
Sempre in “Beautiful Dreamer” si vede con che attenzione scrupolosa lo seguono, lo aiutano, come una famiglia. Del resto sono insieme da quasi dieci anni, ormai. Perché Brian soffre ancora. In un’intervista molto toccante da Larry King ha amesso di sentire ancora adesso le voci che gli dicono: “ti uccideremo!”.
Importante, da questo punto di vista, il ruolo della famiglia, il padre manager dittatoriale, i fratelli ma soprattutto il cugino che preferiva fare il figo sul palco, piuttosto che sperimentare nuove cose.
Leonard Bernstein l’ha definito un genio musicale del secolo appena conclusosi. E quella sera a Ravenna non l’ho affatto visto fuori forma. Anzi, per come sono stato abituato a vederlo nei DVD degli anni passati, devo riconoscere che Smile è stato a suo modo un album terapeutico. Finalmente l’ha concluso. Finalmente è stato osannato dalla critica e finalmente sorride sinceramente, e non perché gliel’ha chiesto lo psichiatra.
Ha suonato poco, è vero, ma è lui il vero direttore d’orchestra. Lui che, a 63 anni, sente ancora una minima stonatura in un’orchestra di una decina di elementi. Lui che ha arrangiato questi cori e strumenti in maniera incredibile. E l’ha fatto appena due anni fa!
Non mi sento accecato dal mito. Riconosco che i problemi (anche motori: strascica i piedi ed è muove le braccia rigidamente) che ha avuto l’hanno crudelmente minato, ma più che un nonno rimbambito, lo vedo come quello che ha sempre voluto essere. Un bambino che gioca con la musica. E che gli sia tornato l’entusiasmo per farlo, è davvero un miracolo. Magari avessi un nonno così!
Prima dell’inizio del concerto ho “abbordato” David Leaf, giornalista, autore del bellissimo documentario “Beautiful Dreamer”, e artefice della realizzazione di Smile. Mi ha permesso di incontrare Brian dopo lo spettacolo e conservo la foto e il ricordo gelosamente.
Scusa se mi sono dilungato, e se ho ritirato fuori un vecchio post, ma Brian e Paul per me sono allo stesso, meraviglioso livello. Uno è stato meno sfortunato dell’altro, tutto qui.
Ah, e se hai piacere di avere qualche foto del concerto, te le mando volentieri. Scrivimi in privato.