La riflessione che segue viene stimolato da un post del sempre valido Petunio, che parla di libri con prime tirature a quattro zeri e film che escono in qualcosa come 835 copie sul territorio nazionale. Come dice giustamente Petunio, questo significa “cagare sul mercato” e “distruggere il pubblico”.
Partiamo da lontano, cronologicamente e dal punto di vista dell’oggetto: negli anni ’80 Reagan e la Thatcher hanno portato sull’orlo della recessione (e a volte un po’ più in là) i Paesi che governavano. Questo risultato è da imputarsi anche alla loro politica economica, basata su un ragionamento che logicamente fila, ma pragmaticamente fa acqua da tutte le parti. Togliamo tasse ai grossi imprenditori, in modo tale che possano reinvestire il capitale sulla produzione. Cosa che, ovviamente, non si è verificata.
Tenendo fermo il concetto di reinvestimento, passiamo al nostro Paese, negli anni ’50 e ’60. Il cinema va benissimo, sotto ogni prospettiva. Record di produzione di film, record di spettatori, record di premi vinti dai film italiani. È il periodo dei grandi Fellini, Antonioni, Visconti. Che incassavano pochissimo (a parte le eccezioni degli scandalosi La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli), ma portavano via dai festival chilate di riconoscimenti. Cosa accadeva? I grandi produttori investivano poco su film di genere che incassavano un sacco di soldi, e giravano gli utili per realizzare film “alti”, che di certo non costavano poco.
Certo: c’era il pubblico che permetteva queste cose, visto che il cinema era un modo per evadere a poco prezzo. E c’erano anche degli imprenditori che non pensavano soltanto al soldo, ma rischiavano. E, soprattutto, amavano la cultura, ed era per loro fonte di orgoglio produrla, anche in forme scomode. Per dire: Pasolini non era uno che si pagava i film da solo.
E oggi Grande, grosso e Verdone esce in 835 copie. Praticamente lo vedi anche se non vuoi. Perché? Perché i produttori devono andare sul sicuro: ed ecco spiegate le dozzine di sequel, prequel, spin off, adattamenti. Non si può rischiare, né su un titolo né su un nome nuovo.
Voi direte: c’è la legge sul cinema. Sì, ma la legge sul cinema dà i soldi per produrre non per distribuire. Quindi Silvio Muccino, tanto per fare un esempio, ha avuto i contributi statali (oh yeah), ma è uscito in un buon numero di copie grazie ad altri accordi e capitali. La maggior parte dei film che vengono prodotti con il contributo del Ministero non escono nei cinema. O meglio, stanno un giorno in programmazione a Roma e Milano: tanto basta per dire che sono usciti.
Passiamo all’editoria. Da poco di tempo lavoro in una piccola-media casa editrice “di nicchia”. O meglio, lo era, di nicchia, perché fino a poco tempo fa i fumetti non venivano considerati dalle major editoriali. Adesso cosa succede? Che tutti si buttano sul fumetto. Il punto è che “cagano sul mercato”. Si portano via autori con anticipi pazzeschi, fregandoseli l’un l’altro. Chi rimane a bocca asciutta? Indovinate un po’… Il bello è che, nella maggior parte dei casi, stampano male, promuovono malissimo e distribuiscono peggio. L’importante è avere messo la zampa su Tizio Caio, che magari è abituato a guadagnare niente e viene – ovviamente – tentato e firma contratti con clausole strettissime, praticamente non rescindibili.
E quindi nelle grandi librerie (che a loro volta ammazzano le piccole) c’è praticamente un unico grande scaffale, con un centinaio di titoli in vista, e basta. In questo modo non si promuove la cultura, la si impone.
Ora, miei piccoli lettori, mi chiederete: ma come, un Paese allo sfascio, le morti sul lavoro, la monnezza, e questo mi parla di cultura? Il punto è che lo stato di salute di una nazione si vede anche da cose come queste. E in ogni caso ci sarà sempre un problema più importante “d’a’cultura” da risolvere. Mettiamoci, quindi, l’anima in pace, non saremo soli: gli schieramenti in lizza per le prossime elezioni, ancora una volta, sfiorano appena l’argomento.
solo un appunto: ci sono fumettisti imprescindibili, dal mio punto di vista, ancora mai pubblicati in Italia e che le grandi case editrici nemmeno sanno chi cavolo siano. penso che è su questo che si deve puntare. sfruttare le capacità di chi gira nel giro da decenni facendo “ricerca” e ha acquisito esperienza (perchè è difficile creare l’esperienza dal nulla).
poi le grandi case editrici avranno sempre i mezzi (leggi “soldi”) per soffiare l’autore alle piccole. diffonderanno il frutto della ricerca altrui; e questo è un altro discorso, forse moralmente criticabile.
nell’attesa di trovare un modo per far sì che questo non accada (con cosa, però? leggi protezionistiche? purtroppo ora come ora la cultura è in mano al mercato e, come dici, la politica non fa di nulla per amministrarla. Ed è questo il vero problema!), però, credo sia inutile che le piccole case editrici corrano dietro ai grandi successi che sbancano il mercato all’estero: quelli sono irraggiungibili. ma non credo nemmeno sia con quelli che si fa cultura.
si fa cultura andando a ricercare le perle perdute, ripubblicando capolavori dimenticati, etc.
mio modesto parere.
Dall’estero, applaudo.
Irene
Mi permetto di dubitare del fatto che Thatcher e Reagan abbiano portato i loro rispettivi paesi alla bancarotta.
Hanno accentuato le sperequazioni sociali, hanno mercantilizzato tutto il possibile, hanno creato il quadro ideologico in cui a tutt’oggi ci muoviamo (e a cui rispondiamo con parole d’ordine e ricette anni settanta, già travolte all’epoca, semplicemente patetiche oggi).
Li si può accusare di molto e di cosa gravi, ma non della bancarotta dei loro paesi.
Di quella dell’Unione Sovietica, dell’Italia e di alcuni paesi del terzo mondo si.
clumsy: non penso che le piccole case editrici debbano correre dietro al grande successo. non avrebbero i mezzi per farlo. il problema, come forse ho spiegato meglio negli esempi legati al cinema, non è solo la produzione, ma la distribuzione. non essere sugli scaffali (o nelle sale) equivale a non esserci. ricordiamoci sempre che tu e io viviamo in città che hanno un alto consumo culturale e una varietà dell’offerta riscontrabile solo in pochissimi luoghi in italia.irene: dall’estero, appunto 🙂anonimo: intanto ti prego, come faccio sempre, di firmarti. in secondo luogo, non ho parlato di bancarotta. il pil nell’era reagan è cresciuto, per dirne una. ma misurare la ricchezza di una nazione dal prodotto interno lordo è ormai un concetto sorpassato quasi unanimamente. in ogni caso, ho trovato interessante questa lettura.
Per che editore lavori (se si può sapere)?
Gio
Reagan, Thatcher e soprattutto La Scuola di Chicago, capeggiata dal Nobel Friedman, sono stati responsabili della diffusione delle politiche neoliberiste che hanno avuto un duplice effetto: nei paesi ricchi aumentare il divario fra ricchi – che sono diventati ricchissimi – e classe media – che è diventata più che altro povera.
Nei Paesi in via di sviluppo hanno fatto la stessa cosa, ma in maniera molto più catastrofica, attraverso privatizzazioni folli ed eliminazione dei sussidi per i poveri. America del Sud, Polonia..
Francesco: il discorso che tu fai sulle case editrici può in qualche modo essere esteso alle Università. Sto leggendo un po’ di cose per il PhD e mi inquieta molto l’enfasi sempre maggiore data all’università come motore per l’industria privata;come fabbricatrice di brevetti e scoperte intellettuali che andranno ad arricchire pochi, anzichè a migliorare la vita di tutti.
E se è ilmercato a scegliere cosa un’università deve o non deve fare, la distorsione è terribile.
Senza contare che tutta questa bella gente sembra catafottersene della sorte della cultura umanistica.
gio: per ora mantengo l’anonimato 😉mokia: concordo.
Concordo in pieno, anche sul discorso che fa Mokia sull’università. Io lavoro appunto per una azienda che da qualche tempo collabora molto con l’università, dove trova “risorse umane”, idee, energia, e tutto poi finisce dentro roba proprietaria. Ammetto che vedo reinvestimento, ma su un sapere “privato”, di cui eventualmente vantarsi nella comunicazione aziendale.
Francesco – applaudivo te e il tuo post, non la squallida mossa di Verdone (giusto nel caso mi si sia fraintesa!).
Aggiungo brevemente. Ieri sera a Londra ho visto ‘Il Conformista’ di Bertolucci, che è stato re-released con nuova stampa digitale (magnificamente illuminata, ripulita e con uno splendido taglio widescreen), ed è in prima visione in quattro cinema del centro, uno dei quali è il British Film Institute (dove il film è in programmazione per un mese, due volte al giorno, e si paga solo £5.25 con lo sconto studenti). Siamo fortunati, certo. (In compenso Gone Baby Gone non esce per via della faccenda di Madeleine McCann, e Persepolis lo vedremo credo col cannocchiale). Ma tornando al Conformista. E’ un film che ha molto da dire anche sull’Italia di oggi, sulla volgarità e sulla decadenza, immagino ben più di Verdone – le radici della situazione stanno forse in quel periodo lì, specie con un Berlusconi che somiglia sempre di più a Tu-Sai-Chi. Temo che in Italia Il Conformista non si vedrà di nuovo nei cinema di prima visione per un bel pezzo (se mai), ma voglio anche dire che la grande rivoluzione che abbiamo in mano è il lettore DVD. I film intelligenti possiamo anche vederceli a casa e fare lo sciopero del cinema: se il cinema ci tratta come un dittatore, stare a casa è già qualcosa. Io, Il Conformista ve lo consiglio, anche in DVD.
(Posso venire a Seconda Visione la prossima settimana? Vi porto anche un ospite straniero *vero* 😉 …..)
Irene
garnant: la proprietà del sapere, del mangiare, del dormire, del tutto. poi uno dice che si butta a… marxista.irene: e considera che a bologna siamo fortunati. come tu a londra. il problema è dell’accessibilità media. cambiando discorso: vieni, vieni a seconda visione. puntata di domani o postpasquale?
Grazie Francesco, verrei alla puntata post-pasquale perchè arrivo a BO Venerdì. Vi devo scrivere ufficialmente o va già bene così?
Quella ero io, ovviamente. Maledetto Splinder che non mi fa firmare (io sono su blogspot).
Irene
irene, vieni pure martedì, magari mandaci una mail lo stesso, ché siamo vecchi… 🙂