“Non fare niente che non ami”: intervista esclusiva ai Dead Can Dance
Brendan Perry e Lisa Gerrard spiccano ancora di più nello splendido delirio del Primavera Sound: seduti nella hall di un albergo vicinissimo al Parc del Forum, sono a loro agio e, allo stesso tempo, distaccati, senza risultare freddi. Sanno di essere altro, da trent’anni, e l’ultimo disco Anastasis dimostra che perseguire la propria strada premia: è un album bellissimo, che contiene un paio di brani che non avrebbero sfigurato nei titoli migliori dei Dead Can Dance. Il tempo di sistemare portatile e microfono e inizia un conto alla rovescia: ho un quarto d’ora per l’unica intervista di una testata italiana a una delle band più attese della manifestazione spagnola, una band che può definirsi di culto in molti sensi.
Oggi inizia una nuova parte del tour: cosa provate, quasi un anno dopo la pubblicazione di Anastasis?
Brendan Perry: Be’, è stato un anno decisamente fantastico. Dalla pubblicazione del disco siamo stati in tour praticamente di continuo, suonando dal vivo l’album per intero. È una novità, per noi, non l’abbiamo mai fatto prima. Sta anche vendendo molto bene, ricevendo ottime critiche. È come se non ci fossimo fermati, tutto continua dal punto in cui abbiamo smesso, tutti quegli anni fa. Insomma, è bello essere tornati.
Sembri sorpreso dei buoni dati di vendita e delle critiche…
BP: No, non sono sorpreso del successo del disco, anche perché non avremmo mai fatto uscire qualcosa che pensassimo fosse al di sotto di uno standard. Siamo felici, davvero felici del lavoro fatto in studio. La cosa che ci stupisce, ma dipende probabilmente da questo lungo stacco temporale, è che abbiamo un pubblico sorprendentemente giovane. Questo mi ha colpito. Ne parlavo l’altro giorno con una persona… Mi ha detto: sono i figli della baby boom generation che vi ascoltavano quando erano giovani, perché i loro genitori gli facevano ascoltare quella musica che amavano. Quindi apprezzano davvero la nostra musica. Questo mi sorprende, ma è uno stupore molto appagante. La nostra musica va oltre il tempo e le mode, ma ora supera anche le generazioni. È quello che abbiamo sempre voluto che la nostra musica diventasse: classica, ma anche significativa per diverse generazioni.
È la vostra prima volta al Primavera Sound: è anche la prima volta che vi assisto io e sono davvero sommerso dalla quantità di musica che viene proposta ogni giorno. Come vi sentite a suonare per la prima volta in questo festival, quali sono le vostre aspettative, se ne avete?
Lisa Gerrard: È davvero difficile suonare ai festival… Voglio dire: è bello stare all’aperto e naturalmente è bello suonare per un pubblico così ampio. Ma, per esempio, suonare al Coachella è stato difficilissimo, perché abbiamo dovuto sacrificare alcuni dei nostri brani, quelli più delicati: i volumi degli altri palchi potevano entrare in competizione con il nostro. Non so bene come sarà qua con tante persone che suonano insieme…
BP: Qui è meglio, molto meglio…
LG: È stato un peccato perché si perdono alcune sottigliezze della musica e nella nostra ci sono salite, cadute, dinamiche e dettagli. Penso che in ogni luogo il pubblico abbia diritto al silenzio, almeno tra le canzoni. Un po’ di silenzio, almeno. E lì non ce n’era. Era difficile concentrarsi, ma insomma, bisogna provare tutto. Volevo anche dire la mia su quello di cui parlavi con Brendan, mi interessa. Per nostra fortuna molte persone prima dell’avvento di internet hanno registrato molti video dei nostri concerti. Quando è arrivato YouTube, questi filmati sono stati pubblicati, permettendo a molti di scoprire un brano che non conoscevano e di iniziare a cercare, accedendo a un vero e proprio archivio che non avrebbero altrimenti mai avuto modo di sentire. Questo è stato un collegamento incredibile che ci ha portato un pubblico nuovo, più giovane. Lo faccio anche io: se sento una canzone alla radio o se un amico me ne fa sentire una, la cerco e inizio a navigare nell’opera di qualcuno. Siamo stati fortunati perché chi ci ha ripresi è stato molto attivo nel caricare in rete i materiali più vecchi. Si può andare indietro nel tempo davvero di molto: è interessante, e ci aiuta. Anche perché allora non sapevamo che qualcuno ci stesse riprendendo, è un bel modo per… Ed è anche un po’ nostalgico.
Ti cerchi su Google o su YouTube per vedere se ci sono video caricati da poco?
LG: Sì, mi capita quando devo fare un brano dal vivo: rivederlo ripreso in concerto mi permette di ricatturare l’essenza di quel live, spesso diversa da quella su disco. Sì, lo faccio… Ripercorro la memoria (ride). L’argomento è interessante, perché oggi i tempi sono proprio diversi.
Questo si collega alla mia prossima domanda: quando avete iniziato a fare musica, chi vi ascoltava poteva scoprirne di nuova attraverso i vostri album, che sono spesso dei viaggi musicali. Oggi apparentemente tutta la musica del mondo è a portata di mano per chiunque abbia un computer in rete: avete tratto vantaggio anche voi da questa disponibilità, talvolta schiacciante, di musica?
BP: Sì, internet è una risorsa incredibile. La velocità con la quale puoi accedere alle informazioni è pazzesca, ti permette di rimanere ancorato a un’idea, a un pensiero e di andare poi nel dettaglio per cercare quello che ti interessa. Puoi ascoltare un tipo di musica diversa, che poi ti porta a un’altra ancora… Seguire le diramazioni. Sì, è schiacciante, ma ho imparato la disciplina grazie a infinite visite alle biblioteche pubbliche. Quando si va in biblioteca ci si orienta tra branche, libri e autori diversi, se si rimane concentrati sull’idea originale, sulle intenzioni iniziali: insomma, internet è una risorsa eccezionale, la uso sempre.
Com’è stato tornare a lavorare insieme? Mi chiedo se vi siate ritrovati subito, se abbiate ascoltato la musica che faceva l’altro in questi anni: forse questo è stato d’aiuto.
LG: C’è sempre stato un interesse: quando Brendan faceva uscire qualcosa di nuovo ho sempre cercato di ascoltarlo, perché ero curiosa di cosa stesse combinando. E penso che in qualche maniera ci sia anche nelle mie prove da solista, anche se stavamo lavorando a cose diverse. Bisogna fare così, perché così si ampia la tavolozza, si capisce quello che si può fare, si può provare altro. Ma nel lavoro svolto insieme c’è qualcosa di unico, l’energia di quei dischi, il modo in cui hanno colpito il pubblico… Tra l’altro con il nostro pubblico c’è un rapporto lungo, che dura da tanti anni. E’ tenera, come cosa: per la mia personale esperienza, mi ricordo di come hanno cominciato alcune band che ho amato e poi ho visto la loro evoluzione negli anni e amo ancora la loro musica, ne fanno ancora. Mi sento molto vicina a questo tipo di percorso e penso che anche noi abbiamo fatto quell’effetto: abbiamo intrapreso un viaggio con un grande numero di persone che lentamente è andato avanti per anni. In trent’anni di lavoro abbiamo fatto tantissimi concerti: nei primi tempi erano molto umili, modesti, ma anche emozionanti e toccanti per il pubblico, che aveva già allora con noi una relazione meravigliosa. Questo è ciò che vogliamo fare passare. Per esempio ho visto anni e anni fa The Fureys dal vivo e ancora ricordo quel concerto, perché è stato davvero emozionante: erano musicisti straordinari con un legame emotivo straordinario con il loro pubblico. Mi sono commossa. Quando vai a un grande concerto, non te lo dimentichi. Penso che tanti di quelli che sono arrivati a conoscerci l’hanno fatto tramite un passaparola, da amici che gli suggerivano di vederci o di ascoltarci. Anche perché abbiamo sempre fatto pochissima promozione: anzi, penso che ne stiamo facendo di più per quest’album che per tutti i trent’anni di carriera passata (ride), davvero!
In un’intervista, Lisa, hai parlato del concetto di responsibilità dell’artista: ce lo spieghi e ci dici anche come si fa a riconoscere un artista, visto l’abuso continuo di questa parola?
LG: Credo che la maniera migliore di spiegarlo sia “non fare niente che non ami”. È semplice: se ami qualcosa, basta, ecco la sincerità e la responsabilità del e nel lavoro. Quando uno comincia a fare qualcosa verso la quale non ha un legame intrinseco, quando non si è mossi da qualcosa dentro, che senso ha? Come artista, la responsabilità è quella di reagire alla realtà in maniera tale da mostrare in maniera passionale ciò che ti spinge a fare questo lavoro.
BP: Dal mio punto di vista ci dev’essere una dedizione all’immaginazione, al fine di portare in evidenza all’altro ciò che vede realmente, o che percepisce nella mente, o che ascolta. È un prodotto delle arti immaginative, direi. È quello che cerchiamo di fare, nel senso che proviamo a trasmettere un’ambientazione… Ti faccio un esempio. Quando ero giovane ero solito leggere molto: andavo in biblioteca, già da quando avevo sei o sette anni, e amavo aggirarmi nella sezione relativa a miti, leggende e fiabe, mitologia della Grecia antica… E non leggevo altro: portavo i miei quattro libri a casa, li leggevo durante la settimana per tornare a prenderne altri il sabato seguente. Oppure andavo al British Museum a vedere mostre sull’antica Grecia, Roma, sui Fenici… Ero infatuato… Era come avere trovato la cultura perduta di Atlantide e non capire come fosse connessa alla società moderna. Mi affascinava, questa cosa. Dovevano essere esistite, perché erano reali, tangibili, ci sono gli artefatti… Per me la musica è un ponte sul vuoto dell’immaginazione: serve a rievocare l’odore, il gusto, l’ambientazione…
LG: Il mondo, il mondo dell’immaginazione in cui entri…
BP: Che sia anche un mondo di fantasia… Mi attrae la musica del vicino, medio e lontano Oriente. La stessa parola “fantasia” ha origini arabe, credo che derivi da Le mille e una notte. È un concetto che descrive un fiorire dell’immaginazione… Questo è più o meno ciò che facciamo: se si tolgono le mie parole, la poesia di quello che dico… comunque sono estensioni della musica.
Qui la versione audio. Grazie a Emily Clancy per la revisione della traduzione.