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Raccontare con gli arrangiamenti: intervista a Matthew E. White

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Big Inner è uno dei dischi dell’anno scorso che mi sono un po’ sfuggiti: capita di appuntarsi mentalmente di ascoltare un album che poi, per un motivo o per un altro, non riesce mai a meritarsi il tempo necessario ad apprezzarlo. Qualche tempo fa, finalmente, mi ci sono messo e l’ho ascoltato più volte da cima a fondo. Ciò che mi ha fatto impressione è stato il primo approccio. Mi ha fatto tornare in mente What’s Going On di Marvin Gaye: gli strumenti che arrivano un po’ alla volta, senza una intro vera e propria, come se l’ascoltatore entrasse gradualmente in una casa dove già si suona, scoprendo la musica che viene da dentro un po’ alla volta. Quest’immagine mi è rimasta impressa nella mente fino a quando ho incontrato Matthew E. White in un albergo di Barcellona: il musicista era là per un concerto al Primavera Sound. E quindi l’intervista è iniziata con questo parallelo tra i due dischi che, l’avrei capito alla fine della chiacchierata, non era poi così peregrino.

Se Gaye si poneva delle domande sulla violenza e sui violenti cambiamenti della società degli anni ’70, c’è una domanda che Big Inner si fa o fa al suo pubblico di ascoltatori?
No, non in senso proattivo: non credo ci sia un tema dominante o una domanda che viene posta lungo il disco, oppure se c’è è qualcosa di inconscio. Non ho scritto l’album con grandi temi in mente: dopo averne parlato con un po’ di gente, ritengo che ci sia un senso di speranza opposto al turbamento. Èin effetti un argomento importante, ma ancora una volta è stato qualcosa di inconscio, non il risultato di un tentativo di fare emergere quel messaggio.

Quando hai capito che era arrivato il momento di realizzare il tuo disco? È stata solo una questione materiale, di tempo, oppure c’è stato qualcosa di più profondo che ti ha spinto?
Credo che sia dipeso dal rapporto con la comunità nella quale vivo. Per dieci anni sono stato prima uno studente all’università, poi una specie di organizzatore con ruolo da promoter e quindi ho messo in piedi la mia prima jazz band… Con queste esperienze ho pensato che sarebbe stato bello creare un’etichetta discografica che fosse basata sull’idea di fare musica insieme alle persone con le quali già la facevo: si trattava di dare un nome a tutto questo e di organizzarsi meglio. Quando l’ho fatto, ho chiamato l’etichetta Spacebomb ed è cominciato un processo che mi ha portato a pensare che forse dovevo uscire io per primo, che io dovevo essere la prima persona a provare quello che cercavo di realizzare: soprattutto perché, se fosse andata male, ci sarei andato di mezzo solo io, visto che l’idea era mia. Insomma, non si è trattato di una reale scelta forte, quanto di una serie di eventi che sono successi in molto tempo e che mi hanno naturalmente portato a fare un disco. Ecco, penso che sia il modo più facile per spiegarlo.

La Spacebomb è un altro esempio, come ce ne sono negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, di etichetta-collettivo, un po’ famiglia, un po’ legata ai rapporti di amicizia, oltre che di lavoro. Ci racconti di più?
Guarda, io vengo da Richmond, in Virginia: è un posto che ha una tradizione, dove vivono musicisti e da dove altri musicisti provengono. Tuttavia penso che negli ultimi dieci anni abbia acquisito uno slancio particolare: gente con cui andavo a scuola ha deciso di rimanere invece di spostarsi altrove. Penso che ciò che rende una comunità speciale non sia il decidere consciamente di fare qualcosa insieme, ma il valore di ciò che si fa insieme. Chiunque può dire con i suoi amici “facciamo musica insieme”, ma è ancora meglio fare buona musica insieme. Molti a Richmond hanno detto “stiamo qua e facciamo musica” e credo che ciò che hanno prodotto (e non parlo solo di Big Inner) sia qualcosa di davvero molto speciale. È un posto speciale perché abbiamo deciso di rimanerci, ma anche perché la musica che facciamo lo è. È la musica che possiamo fare solo noi, questo gruppo di persone… Ed è un gruppo nutrito, siamo in 30-40, interagiamo tra noi, è davvero bello farne parte: in questo momento io sono un leader, nel senso che ho la possibilità di andare in giro per il mondo e parlare con te e altri di cosa facciamo. Per esempio il mio amico Reggie… Eravamo in una band insieme e poi l’ha voluto Bon Iver nella sua per il tour. Quindi prima c’era lui a girare, a fare da predicatore per Richmond, ora tocca a me… È stato divertente farlo negli ultimi due o tre anni: questa piccola comunità ha avuto modo di viaggiare ed è bello che sia stata notata sempre di più.

Pensi che fare base a Richmond faccia un’enorme differenza rispetto a vivere a Los Angeles, New York o Austin, che sono città di riferimento per la cosiddetta scena indipendente statunitense?
Sai, in realtà credo che quello che è accaduto negli ultimi anni con internet e i media digitali abbia decentralizzato l’industria. Certo, gli uffici delle case discografiche sono a New York e Los Angeles, ma il modo in cui lavorano i direttori artistici, l’andare nei club, non è più lo stesso. Le cose si muovono e, insomma, non ho trovato alcun reale svantaggio a stare dove sono, anzi! Lo dico spesso, ma non potrei fare altrove quello che faccio. E non sto a Richmond perché voglio stare a Richmond, ma perché Richmond è l’unico posto dove posso fare la musica che voglio, questo è ciò che la rende unica. Non è questione di orgoglio o di avere molti amici in città: ci vivo perché è ciò che è più giusto che faccia per la mia carriera. Non potrei trasferirmi a Austin, Los Angeles o New York e continuare con la musica che faccio.

Torniamo al disco: c’è spesso un contrasto tra ciò che canti e il modo in cui lo fai. È una scelta precisa o deriva solo dal tuo stile e quindi canteresti a proposito di qualsiasi argomento così?
Ancora una volta, non credo che si tratti di qualcosa di intenzionale. O meglio, lo è nel senso che il modo di cantare che ho e di affrontare i temi che ci sono nel disco mi rispecchia molto come persona. Ho uno stile vocale che uso e mi è capitato di scoprire che mi si adatta bene. Quindi per me c’è una bella corrispondenza tra come sono qui, mentre ti parlo, e come sono sul palco: non ci sono maschere da indossare. Questo è molto bello e mi permette di scrivere di alcuni argomenti su disco. È per me qualcosa di molto personale, introspettivo e intimo. D’altro canto questo mi permette di esprimere emozioni più grandi con i suoni, la musica, gli arrangiamenti. Così si può raccontare una storia a tre dimensioni o raccontarne due: da un lato cantando, diciamo, in maniera piatta, o non troppo emotiva e rilassata. Dall’altro ci sono questi grandi arrangiamenti che rappresentano l’altro lato della narrazione. È significativo, perché se cantassi la stessa canzone al piano o alla chitarra si perderebbe la natura tridimensionale della storia, e questa è la peculiarità di lavorare con gruppi numerosi di persone e arrangiamenti estesi: si può raccontare molto della storia senza farlo propriamente.

Si è parlato del tuo album anche come un disco gospel, ma in un brano dubiti della tua stessa fede. Qual è il tuo rapporto con la religione e il cristianesimo? So che i tuoi genitori hanno a che fare con questo e vorrei saperne di più.
Sì, sono cresciuto in un ambiente molto religioso, molto cristiano. I miei genitori erano missionari oltreoceano e tutto questo ha fatto parte della mia vita a lungo. Da dieci anni a questa parte, però, ho intrapreso il mio viaggio, qualunque sia: talvolta ci sono molti dubbi, talvolta non mi sento a mio agio con alcune delle ripercussioni che la fede porta con sé, ma ci sono diverse cose del mio passato che rispetto molto. Penso che tutti abbiano un percorso di fede, unico, basato su come hanno affrontato alcuni eventi: è un lungo viaggio. Per me si è trattato di documentare questo sul disco e affiancare questioni religiose di fede ad altre cose, perché la nostra vita è così. Qualunque cosa facciamo, che sia stupida, formativa, importante, è affiancata da un lato spirituale: devo essere sincero e dire che questo fa parte della mia vita così come lo è una brutta relazione, o la morte di qualcuno. Si tratta di creare un dialogo onesto, che rifletta un po’ anche il mio percorso.

Un altro riferimento forte legato al disco è quello con la musica nera, con etichette quali Atlantic, Stax, Motown, insieme alla cosiddetta “americana”: ascolti questi generi?
Sì, sono davvero le prime cose che ho ascoltato. La musica afroamericana dai primi del ‘900 agli anni ’80 è ciò che ascolto, che amo: il ragtime, il jazz di New Orleans, l’R&B, il soul… Tutto questo viaggio, la storia della musica americana che ha fatto il giro del mondo, è così influenzato dalla musica afroamericana; se poi pensiamo anche alla musica folk e a come si è sviluppata nel rock and roll… Per me è la musica migliore del mondo, e sono felice che tu abbia citato la Atlantic perché di solito tutti parlano della Motown e della Stax, ma per me la musica migliore di quegli anni è della Atlantic. È la migliore etichetta di sempre, fosse anche solo per tutta la musica che ha pubblicato, per come fosse sempre avanti agli altri. Adoro le loro cose, sono un grande fan della loro musica, quindi… non posso dire di non ascoltarla (ride).

Torniamo al tuo passato: riesci a raccontarci la tua prima memoria musicale?
Sì, i miei avevano due cassette che ascoltavo: un greatest hits dei Beach Boys e uno di Chuck Berry. Le ho scoperte da piccolo e me ne sono innamorato. Mi ricordo che ero alla Filippine, seduto sul divano con un registratore e premevo play e poi rewind e ascoltavo quelle cassette di continuo…

Abbiamo parlato di musica e radici musicali americane, ma tu hai vissuto qualche anno appunto nelle Filippine. C’è mai stata nella tua testa la sensazione di uno scontro tra la cultura che vedevi intorno a te, quella dei tuoi genitori. La cultura con la quale sei stato cresciuto non era quella nella quale vivevi: un fattore che apre la mente, ma che può anche portare a disagi…
Sì, crescere oltreoceano… Non è che poi là pensassi in questi termini, non avevo una tale consapevolezza, ma una cosa interessante è successa quando sono tornato a casa, negli Stati Uniti: la cultura americana, le canzoni… Tutto è di più: l’aria è più pulita, ci sono i condizionatori, il traffico è incasinato, alla radio parlano del tempo… È casa. C’è una distanza che ti permette di vedere la natura unica di una serie di cose. Vivere identificando la propria casa con gli Stati Uniti è qualcosa di peculiare, anche se io mi sono sempre sentito un po’ un outsider, perché non è lì che ho vissuto i miei primi cinque anni… cioè, otto, a dire il vero. È interessante essere un outsider da un lato, e d’altro canto identificarsi molto con gli Stati Uniti: i miei vengono dal sud del Paese, le loro radici sono lì. Quindi per me è stato molto bello essere conscio delle mie origini, ma allo stesso tempo non esserne completamente preso. Ho fatto il disco, e non è un disco di musica “southern”, o di “americana”: è solo quello che ho fatto, ed è bello che non sia associabile del tutto ai luoghi da dove provengo. Non so se quello che ho detto ha senso, ma comunque: ci sono dei vantaggi a essere cresciuto oltreoceano e a tornare poi a casa. Dà libertà, anche nel modo in cui vedi la tua musica.

Non so se l’intervista ti sia piaciuta finora, ma la facciamo crollare: mi dici i tuoi cinque dischi da isola deserta?
Uno è il best of degli Staples Singers degli anni su VJ… Un box… La musica che hanno inciso per la VJ prima di passare alla Stax. È la musica più bella che sia mai stata fatta, secondo me… What’s Going On di Marvin Gaye. Qualcosa di Ray Charles…

Tipo Modern Sounds in Country & Western Music?
Sì, Modern Sounds in Country & Western Music. Good Old Boys di Randy Newman… Ho bisogno di qualcosa di New Orleans… Life, Love & Faith di Allen Toussaint, uno dei suoi primi dischi. Quindi, ce n’è uno di New Orleans, uno di Ray Charles, uno di Randy Newman, uno di Staples Singers…

e Marvin Gaye, con cui abbiamo iniziato l’intervista: il cerchio si chiude.
Sì, è vero. Ecco fatto!

Sul sito di Maps trovate l’intervista audio.

“Non fare niente che non ami”: intervista esclusiva ai Dead Can Dance

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Brendan Perry e Lisa Gerrard spiccano ancora di più nello splendido delirio del Primavera Sound: seduti nella hall di un albergo vicinissimo al Parc del Forum, sono a loro agio e, allo stesso tempo, distaccati, senza risultare freddi. Sanno di essere altro, da trent’anni, e l’ultimo disco Anastasis dimostra che perseguire la propria strada premia: è un album bellissimo, che contiene un paio di brani che non avrebbero sfigurato nei titoli migliori dei Dead Can Dance. Il tempo di sistemare portatile e microfono e inizia un conto alla rovescia: ho un quarto d’ora per l’unica intervista di una testata italiana a una delle band più attese della manifestazione spagnola, una band che può definirsi di culto in molti sensi.

Oggi inizia una nuova parte del tour: cosa provate, quasi un anno dopo la pubblicazione di Anastasis?
Brendan Perry:
Be’, è stato un anno decisamente fantastico. Dalla pubblicazione del disco siamo stati in tour praticamente di continuo, suonando dal vivo l’album per intero. È una novità, per noi, non l’abbiamo mai fatto prima. Sta anche vendendo molto bene, ricevendo ottime critiche. È come se non ci fossimo fermati, tutto continua dal punto in cui abbiamo smesso, tutti quegli anni fa. Insomma, è bello essere tornati.

Sembri sorpreso dei buoni dati di vendita e delle critiche…
BP:
No, non sono sorpreso del successo del disco, anche perché non avremmo mai fatto uscire qualcosa che pensassimo fosse al di sotto di uno standard. Siamo felici, davvero felici del lavoro fatto in studio. La cosa che ci stupisce, ma dipende probabilmente da questo lungo stacco temporale, è che abbiamo un pubblico sorprendentemente giovane. Questo mi ha colpito. Ne parlavo l’altro giorno con una persona… Mi ha detto: sono i figli della baby boom generation che vi ascoltavano quando erano giovani, perché i loro genitori gli facevano ascoltare quella musica che amavano. Quindi apprezzano davvero la nostra musica. Questo mi sorprende, ma è uno stupore molto appagante. La nostra musica va oltre il tempo e le mode, ma ora supera anche le generazioni. È quello che abbiamo sempre voluto che la nostra musica diventasse: classica, ma anche significativa per diverse generazioni.

È la vostra prima volta al Primavera Sound: è anche la prima volta che vi assisto io e sono davvero sommerso dalla quantità di musica che viene proposta ogni giorno. Come vi sentite a suonare per la prima volta in questo festival, quali sono le vostre aspettative, se ne avete?
Lisa Gerrard: 
È davvero difficile suonare ai festival… Voglio dire: è bello stare all’aperto e naturalmente è bello suonare per un pubblico così ampio. Ma, per esempio, suonare al Coachella è stato difficilissimo, perché abbiamo dovuto sacrificare alcuni dei nostri brani, quelli più delicati: i volumi degli altri palchi potevano entrare in competizione con il nostro. Non so bene come sarà qua con tante persone che suonano insieme…
BP: Qui è meglio, molto meglio…
LG: È stato un peccato perché si perdono alcune sottigliezze della musica e nella nostra ci sono salite, cadute, dinamiche e dettagli. Penso che in ogni luogo il pubblico abbia diritto al silenzio, almeno tra le canzoni. Un po’ di silenzio, almeno. E lì non ce n’era. Era difficile concentrarsi, ma insomma, bisogna provare tutto. Volevo anche dire la mia su quello di cui parlavi con Brendan, mi interessa. Per nostra fortuna molte persone prima dell’avvento di internet hanno registrato molti video dei nostri concerti. Quando è arrivato YouTube, questi filmati sono stati pubblicati, permettendo a molti di scoprire un brano che non conoscevano e di iniziare a cercare, accedendo a un vero e proprio archivio che non avrebbero altrimenti mai avuto modo di sentire. Questo è stato un collegamento incredibile che ci ha portato un pubblico nuovo, più giovane. Lo faccio anche io: se sento una canzone alla radio o se un amico me ne fa sentire una, la cerco e inizio a navigare nell’opera di qualcuno. Siamo stati fortunati perché chi ci ha ripresi è stato molto attivo nel caricare in rete i materiali più vecchi. Si può andare indietro nel tempo davvero di molto: è interessante, e ci aiuta. Anche perché allora non sapevamo che qualcuno ci stesse riprendendo, è un bel modo per… Ed è anche un po’ nostalgico.

Ti cerchi su Google o su YouTube per vedere se ci sono video caricati da poco?
LG:
Sì, mi capita quando devo fare un brano dal vivo: rivederlo ripreso in concerto mi permette di ricatturare l’essenza di quel live, spesso diversa da quella su disco. Sì, lo faccio… Ripercorro la memoria (ride). L’argomento è interessante, perché oggi i tempi sono proprio diversi.

Questo si collega alla mia prossima domanda: quando avete iniziato a fare musica, chi vi ascoltava poteva scoprirne di nuova attraverso i vostri album, che sono spesso dei viaggi musicali. Oggi apparentemente tutta la musica del mondo è a portata di mano per chiunque abbia un computer in rete: avete tratto vantaggio anche voi da questa disponibilità, talvolta schiacciante, di musica?
BP:
Sì, internet è una risorsa incredibile. La velocità con la quale puoi accedere alle informazioni è pazzesca, ti permette di rimanere ancorato a un’idea, a un pensiero e di andare poi nel dettaglio per cercare quello che ti interessa. Puoi ascoltare un tipo di musica diversa, che poi ti porta a un’altra ancora… Seguire le diramazioni. Sì, è schiacciante, ma ho imparato la disciplina grazie a infinite visite alle biblioteche pubbliche. Quando si va in biblioteca ci si orienta tra branche, libri e autori diversi, se si rimane concentrati sull’idea originale, sulle intenzioni iniziali: insomma, internet è una risorsa eccezionale, la uso sempre.

Com’è stato tornare a lavorare insieme? Mi chiedo se vi siate ritrovati subito, se abbiate ascoltato la musica che faceva l’altro in questi anni: forse questo è stato d’aiuto.
LG:
C’è sempre stato un interesse: quando Brendan faceva uscire qualcosa di nuovo ho sempre cercato di ascoltarlo, perché ero curiosa di cosa stesse combinando. E penso che in qualche maniera ci sia anche nelle mie prove da solista, anche se stavamo lavorando a cose diverse. Bisogna fare così, perché così si ampia la tavolozza, si capisce quello che si può fare, si può provare altro. Ma nel lavoro svolto insieme c’è qualcosa di unico, l’energia di quei dischi, il modo in cui hanno colpito il pubblico… Tra l’altro con il nostro pubblico c’è un rapporto lungo, che dura da tanti anni. E’ tenera, come cosa: per la mia personale esperienza, mi ricordo di come hanno cominciato alcune band che ho amato e poi ho visto la loro evoluzione negli anni e amo ancora la loro musica, ne fanno ancora. Mi sento molto vicina a questo tipo di percorso e penso che anche noi abbiamo fatto quell’effetto: abbiamo intrapreso un viaggio con un grande numero di persone che lentamente è andato avanti per anni. In trent’anni di lavoro abbiamo fatto tantissimi concerti: nei primi tempi erano molto umili, modesti, ma anche emozionanti e toccanti per il pubblico, che aveva già allora con noi una relazione meravigliosa. Questo è ciò che vogliamo fare passare. Per esempio ho visto anni e anni fa The Fureys dal vivo e ancora ricordo quel concerto, perché è stato davvero emozionante: erano musicisti straordinari con un legame emotivo straordinario con il loro pubblico. Mi sono commossa. Quando vai a un grande concerto, non te lo dimentichi. Penso che tanti di quelli che sono arrivati a conoscerci l’hanno fatto tramite un passaparola, da amici che gli suggerivano di vederci o di ascoltarci. Anche perché abbiamo sempre fatto pochissima promozione: anzi, penso che ne stiamo facendo di più per quest’album che per tutti i trent’anni di carriera passata (ride), davvero!

In un’intervista, Lisa, hai parlato del concetto di responsibilità dell’artista: ce lo spieghi e ci dici anche come si fa a riconoscere un artista, visto l’abuso continuo di questa parola?
LG:
Credo che la maniera migliore di spiegarlo sia “non fare niente che non ami”. È semplice: se ami qualcosa, basta, ecco la sincerità e la responsabilità del e nel lavoro. Quando uno comincia a fare qualcosa verso la quale non ha un legame intrinseco, quando non si è mossi da qualcosa dentro, che senso ha? Come artista, la responsabilità è quella di reagire alla realtà in maniera tale da mostrare in maniera passionale ciò che ti spinge a fare questo lavoro.
BP: Dal mio punto di vista ci dev’essere una dedizione all’immaginazione, al fine di portare in evidenza all’altro ciò che vede realmente, o che percepisce nella mente, o che ascolta. È un prodotto delle arti immaginative, direi. È quello che cerchiamo di fare, nel senso che proviamo a trasmettere un’ambientazione… Ti faccio un esempio. Quando ero giovane ero solito leggere molto: andavo in biblioteca, già da quando avevo sei o sette anni, e amavo aggirarmi nella sezione relativa a miti, leggende e fiabe, mitologia della Grecia antica… E non leggevo altro: portavo i miei quattro libri a casa, li leggevo durante la settimana per tornare a prenderne altri il sabato seguente. Oppure andavo al British Museum a vedere mostre sull’antica Grecia, Roma, sui Fenici… Ero infatuato… Era come avere trovato la cultura perduta di Atlantide e non capire come fosse connessa alla società moderna. Mi affascinava, questa cosa. Dovevano essere esistite, perché erano reali, tangibili, ci sono gli artefatti… Per me la musica è un ponte sul vuoto dell’immaginazione: serve a rievocare l’odore, il gusto, l’ambientazione…
LG: Il mondo, il mondo dell’immaginazione in cui entri…
BP: Che sia anche un mondo di fantasia… Mi attrae la musica del vicino, medio e lontano Oriente. La stessa parola “fantasia” ha origini arabe, credo che derivi da Le mille e una notte. È un concetto che descrive un fiorire dell’immaginazione… Questo è più o meno ciò che facciamo: se si tolgono le mie parole, la poesia di quello che dico… comunque sono estensioni della musica.

Qui la versione audio. Grazie a Emily Clancy per la revisione della traduzione.

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