bolognese

Una premura fuori dal Comune

Sapete, esiste la tassa sulla spazzatura, che qui a Bologna si chiama tasshashulrushco. E’ una cosa a cui uno di solito non pensa: una tassa sulla monnezza sembra quasi un paradosso. Invece essa c’è, e di solito uno se ne accorge quando gli arrivano i bollettini delle tasse arretrate non pagate, con cifre che superano abbondantemente il migliaio di euro: quando arrivano tali comunicazioni, la prima cosa che si fa di solito, instintivamente, è abbracciare il cestino della carta straccia, giurandogli eterno amore, per poi tentare di venderlo su e-Bay.
Per evitare brutte conseguenze, insomma, sono andato all’ufficio apposito un paio di mesi fa, per denunciare la mia abitazione, e la metratura della stessa. Eh già, perché la tassa è calcolata sul metro quadro: conviene, quindi, spargere ogni superficie del pavimento della propria residenza con dei rifiuti, urlando cose come: “Oh, sono quaranta metri quadri, ma me li godo tutti”, prima di svenire per i miasmi della decomposizione. Ma non divaghiamo: due mesi fa ho riempito il mio bel modulo, venendo a sapere, che ne so, il foglio catastale con il quale è registrata la mia abitazione e altre cose assurde, come l’orario di apertura dell’uffiziodelrushco. Poi, come tutti, ho aspettato paziente l’arrivo del bollettino, che è arrivato. Tasse per l’anno 2006, da pagare in comode rate in numero di quattro (4), da aprile a ottobre. Il punto è che tra poco più di un mese cambio casa, quindi nuova metratura da riempire di rifiuti. Come fare? Basta chiedere, e infatti telefono. La domanda, l’avrete capita anche voi, è semplice: quante rate devo pagare relative a questa casa, visto che la cambierò a metà anno?
Ci ho messo due giorni per trovare qualcuno al telefono: forse dovevano ogni volta superare mucchi di monnezza prima di arrivare alla cornetta, fatto sta che ce l’ho fatta, in una giornata nervosa e stancante. “Lei intanto paghi”, mi dice l’impiegata, “poi quando cambia casa, ce lo comunica perché cambia la metratura e l’importo dell’imposta.” “Sperando che non cambi neanche il tasso della tassa”, penso io. Ma la risposta non mi soddisfa, ovviamente, e rifaccio la domanda. Inizia un gioco snervante di dialettica, in cui l’impiegata mi ripete sempre le stesse cose, ma con parole diverse. Mi chiedo se di cognome faccia Bartezzaghi, e nel frattempo sento che sto per perdere: la pazienza, innanzitutto. Lei mi coglie alla sprovvista. “Ha capito?” “Sì”, dico io mentendo. “Secondo me no”, ribatte lei. “Infatti”, dico io e sento che sto per mettermi a piangere. “Eh, ma quando non capite le cose, mica vi dovete vergognare, insomma”, dice l’impiegata, e mi rispiega, stavolta senza anagrammi, cambi di vocale o figure retoriche. E io capisco, e mentre capisco spero che non mi metta un brutto voto, che quelli, come la tasshashulruscho, si pagano a fine anno.
“Vediamo la sua pratica”, continua lei. Io ormai sono sotto interrogazione, devo resistere. “Lei risiede in via Riva di Reno 58”, legge l’impiegata. “Veramente no”, dico io, e comunico il mio vero indirizzo (che, per inciso, non è neanche lontanamente avvicinabile da un punto di vista anagrammatico, fonetico o enigmistico a quello che mi ha detto l’impiegata). “Ci dev’essere un errore”, dice Madame Lapalisse. “Lei lo ha scritto bene?” Evito la domanda trabocchetto e lei ammette che potrebbe essere stato un errore loro. E mi chiede il numero di telefono: per non essere bocciato, penso, me la porto anche a letto, la prof.ssa Monnezza, e glielo do.

Epilogo. Due giorni fa, alle nove di mattina, ricevo una telefonata. “È il Comune di Bologna”, dice una donna al telefono. Io sono sveglio da cinque minuti, e spero solo che non ci sia un compito in classe a sorpresa. “Salve, sono quella dell’altro giorno”, mi dice un’altra donna al telefono. E storpia il mio cognome. Io la correggo, e lei: “Sicuro? Guardi che mi ha detto così l’altro giorno.” Evito di dirle che è anni che pronuncio il mio cognome, e la lascio continuare. “Il suo indirizzo… Abbiamo sbagliato noi a scriverlo, è stato un nostro errore, sa? L’ho chiamata solo per comunicarglielo.”
Per sicurezza aspetto che si pronunci la Corte di Cassazione.

Il tempo degli occhiali (verdi)

Mi sono deciso a cambiare gli occhiali, dopo tanto tempo. E, incredibilmente, ho anche le idee chiare su come li voglio. Verdi. Possibilmente non grandi quanto un campo da polo. Possibilmente di plastica (cellulosa) non di metallo. Pronti? Via.
Vado dal primo ottico, completamente a caso.
“Salve, vorrei una montatura per…”
“Primo piano ascensore”, dice la commessa. Poi sorride.
Il primo piano è completamente deserto. Di occhiali verdi non c’è traccia. Ce ne sono di tutti i tipi: grandi, piccoli, da bambini, tondi, quadrati, esagonali, di metallo, carta riciclata, blu, neri, gialli, rossi. Ma verdi no. Scoprirò solo dopo perché.
Secondo ottico. Commessa bionda e stronzissima, ma molto affabile. Sorride anche lei, ma probabilmente per una forma di paresi. Le chiedo degli occhiali verdi. Me ne mostra due. E, sempre sorridendo, dice: “C’è un’offerta: ogni montatura ha lo sconto di quaranta euro.” E qui faccio il primo errore, non facendo un triplo salto mortale e donandole la mia carta di credito urlando “E’ fichissimo!”. Semplicemente, dico “Ah, bene”. E questo mi segna definitivamente agli occhi gelidi della rigida commessa. Che inizia a mostrarmi altri occhiali, ma di altri colori, in maniera graduale. Parte da un grigio verde, continua con un modello grigio, poi si gioca il tutto per tutto e mi mostra una montatura blu. Quando le faccio notare l’incoerenza cromatica, mi rivela il segreto: gli occhiali verdi escono tutti a settembre. E mi immagino piantagioni di occhiali, e la festa del raccolto, il ballo della diottria, scene bucoliche e oftalmiche, un oculista che dice “Abbiamo avuto un buon raccolto” e, come l’uomo del Monte, dice sì. A quel punto decido di cambiare strategia, e chiedo un preventivo delle lenti: che costano abbastanza da cancellare completamente il vantaggio dello sconto incredibile sulla montatura. Mi fa quindi il preventivo, io ancora non dimostro entusiasmo, e lei mi ripete, con varie formule, che ci sono quaranta euro di sconto sulle montature. Poco convinto del preventivo dico che vedrò, ripasserò, e lei mi congeda con un lapidario “Non so se li ritroverà, sa, con questo sconto…” Me ne vado, e immagino la commessa che, finalmente, si scioglie in lacrime urlando che, in realtà, il suo sogno è sempre stato fare la telefonista.
Terzo ottico. Un’altra donna, che mi confessa subito che di occhiali verdi non ne ha. Anche lei me ne mostra di tutti i colori, tirando fuori una decina di cassetti pieni i occhiali, continuando a ripetere che gli occhiali verdi escono a settembre-ottobre. “Tornerò”, dico. “Buona estate”, fa lei.
L’ultimo ottico ha un negozio scalcagnatissimo. In tutto credo abbia due o tre modelli di montatura. Ovviamente me li mostra. Nessuno di loro è verde, ma quest’ultimo negoziante non conosce il mistero della crescita ottica e non mi parla di raccolti settembrini. Già che ci sono gli chiedo quanto mi costerebbero le lenti: quaranta euro in meno di quanto le avrei pagate dalla commessa col rigor mortis. “Moh shenta”, dice lui quando gli rivelo della differenza di costo, “lei può benishimo comprare là la montatura e venir da me a fare le lenti. Oh, shono optometrishta, io, miszuro vishte e fazzo lenti ogni zorno.”
Mi immagino di tornare dalla donna dagli occhi di ghiaccio e di comprare solo la montatura. Mi sento già come se l’avessi uccisa. “Ripasserò a settembre”, dico all’optometrishta, “in tempo per il nuovo raccolto.”

I've read the news today, oh boy: pauperismo oggi

Attenzione, italiani. Il vostro stipendio non vale più niente! Lo dice una ricerca dell’Eurispes pubblicata ieri. Nessuno riesce più a risparmiare un cacchio, e qualcuno manco a comprare qualcosa. Ma il tutto è riferito a chi percepisce uno stipendio. Io non percepisco uno stipendio. Mi pagano, ogni tanto, qua e là. G. detto Peppino, manco quello. E la sua ragazza è lontano a fare l’Erasmus. G. detto Peppino non mangia, sta al telefono. La cosa mi interessa, perché io e G. detto Peppino abitiamo insieme e il telefono è spesso occupato. Abitando insieme, a volte, mangiamo insieme. E un paio di giorni fa siamo andati a fare la spesa insieme. La spesa per modo di dire. Dovevamo solo comprare del pane e della carta igienica.

“Che mangiamo a cena?” mi chiede Peppino, fiducioso.
“Cazzo vuoi mangiare? Pasta con il pomodoro. Non c’è altro e non abbiamo sold.i”
Peppino annuisce e trattiene un lacrimone tipo cartone animato giapponese. Entriamo nel supermercato. Io vado al banco carne, prendo in mano una confezione di qualcosa e guardo il prezzo: quattro euro e settanta.
“Vedi? Questo vale esattamente quanto l’intero ammontare dei miei averi depositati in banca”, dico a Peppino. Che però non capisce… Mormora cose come “mmmmbuon” e indica i grossi grani di pepe verde che decorano squallidamente la carne.
“Quattro euro…”
“…e settanta” aggiungo io.
“Però c’è anche il pepe”, mormora Peppino.
Prendiamo il pane e andiamo alla cassa. In due con un pezzo di pane e quattro rotoli di carta igienica. Neorealismo puro. Il cliente prima di noi paga con dei buoni pasto, ma la cassiera dice che non bastano. Allora, come se nulla fosse, tira fuori una banconota da cinquecento euro. Peppino ed io (e anche la cassiera) sbarriamo gli occhi. Non avevamo mai visto una banconota da cinquecento euro… Io faccio mentalmente un calcolo, paragonandola al mio conto in banca. Stavolta sono io a trattenere a stento il lacrimone. Ci passano per la mente, in maniera netta ma fugace, piani di rapina rapida che consistono, grosso modo, nel tramortire la cassiera a testate e poi fuggire col malloppo. Anzi, per un momento pensiamo di applicare la tecnica a tutti gli esercizi della zona. Già ci immaginiamo i titoli sui giornali: “La banda delle testate colpisce ancora”. Non prendiamo neanche la busta di plastica (che qui si chiama “sportina”): quindici centesimi sono quindici centesimi (e un trentesimo circa dei miei averi).

Usciamo dal supermercato, e Peppino ha un momento di insofferenza, passando davanti ad un fruttivendolo. “Compriamo anche un peperone, almeno diamo sapore al sugo”. Mi sta bene. Mentre aspettiamo il nostro turno, noto delle cipolle bruciacchiate in una cesta e, quando il negoziante si rivolge a noi, gli chiedo che cosa siano.
E lui inizia (da leggere con pesante accento bolognese): “Ah, quelle… Quelle sono zipolle cott’al forn’. Zioè, un tempo le fazevamo noi fruttivendoli, adesh le fanno quelli che producon le zipolle… Noi, quando chiudevamo, mettevamo delle grandi lashtre e poi zi mettevamo shopra le zipolle e poi andavamo nei forni a farle rishcaldare… Un profumo! E poi inveze adesh non le fazziamo mica più noi… bla bla. Ma cos’è che volevate?”
Peppino scandisce bene: “Un peperone, rosso”. Il fruttivendolo prende un peperone rosso, piuttosto piccolo, e lo pesa. “Altro?”. E qui a Bologna, se non si vuole nient’altro, bisogna dire “altro”. Ma anche se dici “no” ti capiscono. “No, grazie”, dice Peppino, che è educato. Io guardo le cipolle, rapito.
“Un euro e venticinque.”

Nel tragitto fino a casa l’unica cosa che Peppino ha detto è stata: “Un euro e venticinque. Un peperone. Un euro e venticinque”. Credo abbia mormorato anche qualcosa come: “Ma lo sai dove te le metto io le lastre per le cipolle?”, ma non ricordo bene.

Senso civico e sociale, "cinnazzi" e discobar(s?)

Piccole osservazioni di ieri sera e stasera.

Ieri sera: vado a vedere Caterina va in città di Virzì. Sulla strada, passo accanto ad una ragazza. Il mio passo, per qualche metro, è identico al suo, quindi, per pochi secondi, camminiamo uno a fianco dell’altra. In quei pochi secondi ci incrocia uno di quei personaggi che girano nella zona universitaria bolognese, e che di solito o ti chiedono una sigaretta o qualche moneta, o ti offrono del fumo o una bicicletta. Invece lui dice:
“Ah, che bella coppia. Preservativi?”

(Usateli, i preservativi, mi raccomando. Non lo si dice mai abbastanza. Poi, fino a che il governo fa pubblicità-regresso come quella che dice “Avete Idea Della Sofferenza”…)

Stasera sono andato con il caro F. a giocare a biliardo nella notasaladabiliardi. Nel tavolo accanto al nostro giocano dei “cinnazzi” (pronuncia: “zinassi”, cioè “ragazzini” o “ragazzotti”) che, di seguito, dicono le seguenti frasi.
1. “Che palle, però, domani, la scuola”
2. “Io l’ho sempre detto: dobbiamo fare un weekend a Brescia, ché lì ci sono fighe troie” (per la citazione esatta ringrazio il caro F.)

Dopo andiamo in un notodiscobar. Una schifezza di posto, ma serve per l’autostima, vero? Cioè, ti guardi intorno e vedi gente impazzita per “Papi Chulo” e stai meglio. Dopo un rum-e-pera (che F. chiama così, per ordinarlo, e la barista lo guarda e gli dice, un po’ stizzita: “waikiki”) e un cuba libre, inizio a guardarmi intorno. Qualcuno si bacia, qua e là. La cosa bella è che penso che, in un posto del genere, si può limonare solo in due casi:
1. hai rimorchiato quella sera, quindi, giustamente, limoni là;
2. il tuo rapporto di coppia è in crisi: chi si sognerebbe di portare la propria donna nel notodiscobar a ballare “Papi Chulo”?

Due note finali. La prima è che, dico veramente, tutto quello che scrivo è vero. La seconda è: ma perché i miei permalink non funzionano e rimandano all’inizio della pagina in cui c’è il post in questione? Aiuto.

Leggende metropolitane, acciughe e altri strani fenomeni

Incredibile, insomma. Ieri ha piovuto e mi sono emozionato. E non sono stato il solo. Una giornata di inizi. Quindi ho spedito la solita ventina di e-mail per mantenere la rete di contatti (che dicono sia importantissima: staremo a vedere) e per propormi qua e là. Ho detto propormi, anche se si tratta di una sorta di casting in vista delle solite care vecchie prostituzioni (credo) in senso lato, ovviamente.

Ho anche fatto la spesa. Placido e tranquillo. Mi diverte sempre molto andare nei supermercati. Forse perché, alla fine, mi diverte guardare le persone, sono curioso. E vederle tutte lì, intente a fare la stessa cosa, è bellissimo. Inoltre, un paio di anni fa, girava una strana voce. Si diceva che un supermercato nel centro di Bologna, in un certo giorno della settimana, verso l’ora di chiusura, fosse un ritrovo per single. Che poi avevo letto in qualche stupido giornale che il supermercato è uno dei luoghi dove i single tendono ad incontrarsi di più. Da tempo ho in mente di scrivere qualcosa su questo. Ma andiamo avanti.

Ovviamente io e i miei coinquilini siamo andati più volte al posto giusto e nel momento giusto. E effettivamente abbiamo visto un gran numero di donne tiratissime. Ora, dico: ci sono le vie di mezzo. Puoi andare al supermercato vestito/a in maniera decente, ma senza essere tirato a lucido. E invece no. Tacchi alti, trucco perfetto, eccetera eccetera. Inutile dire che non ci siamo fidanzati. Il punto è: casualità o verità? Non credo ci sia una risposta. Basta che la voce abbia girato un po’, infatti, per fare sì che la leggenda si trasformasse in realtà.

“Ma Samantha, che stai facendo? È due ore che sei chiusa in bagno”
“Eh sì, mamma. Devo andare a fare la spesa… Anzi, mi stiri la gonna viola, ché sono in ritardo?”

Invece ieri sono andato in un supermercato meno à la page, ma più vicino a casa. Faccio la mia spesa e aspetto l’autobus per tornare a casa. L’autobus arriva, io salgo, quando una signora esce dal supermercato, mi vede, corre verso di me e mi dice: “Ti sei dimenticato le azzugheeee!” con spiccato accento bolognese. Io faccio spallucce, le porte si stanno chiudendo. Il pubblico dell’autobus mi guarda. Mi sento un po’ imbarazzato. Penso a chi si mangerà le mie acciughe.

Tornando verso casa, ad un incrocio, vedo una Smart. Dentro due ragazzini che secondo me non hanno più di diciott’anni e un paio d’ore. Ma hanno la Smart. Sono annoiatissimi e ascoltano della musica. Uno dei due è in ciabatte, con un piede mollemente appoggiato davanti al sedile. Passo e attraggo la loro attenzione. Uno dei due dice: “Bella maglietta, vecchio!” (per chi non fosse di Bologna, o non conoscesse il gergo, “vecchio” equivale a “tizio”, “amico” e cose così). Mi guardo la maglietta. È la cara, vecchia, banalissima Parole di Cotone con su scritto “Sono Wolf. Risolvo problemi”. Ho cercato la foto della maglietta sul sito, ma non la fanno più. Mi sono sentito irrimediabilmente vintage.
E in più senza acciughe.

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