concept album

Year Zero Posse

Li ho attesi tanto entrambi, sono il prodotto di artisti più o meno coetanei, che hanno iniziato la loro carriera più o meno nello stesso periodo, e che hanno anche collaborato, e, infine, li ho anche sentiti per bene nello stesso momento. Per cui ecco cosa penso di American Doll Posse e di Year Zero, gli ultimi dischi, rispettivamente, di Tori Amos e dei Nine Inch Nails, anche se, una volta di più, sarebbe il caso di dire Trent Reznor.

Nelle rispettive discografie, arrivano dopo una delusione, quasi completa, per quanto riguarda il lavoro precedente di Tori Amos, The Beekeeper, e parziale, a proposito di With Teeth, dei Nine Inch Nails. E la prima bella notizia è che sono entrambi album migliori dei loro predecessori.
Musicalmente parlando, innanzitutto, sono una sorpresa: Trent Reznor riprende in mano completamente un disco, suonandolo e producendolo, come non faceva dai tempi dell’esordio, Pretty Hate Machine, ma in maniera meno controllata e dando sfogo a se stesso, alle sue fantasie, pur mantenendo una produzione ineccepibile (non è una novità, ma anche questo disco dei NIN ha dei suoni, una produzione e un missaggio pressoché perfetti). Tori Amos, invece, si butta decisamente sul rock, con una presenza delle chitarre che non si era mai sentita prima, suonate da un certo Mac Aladdin (secondo qualcuno si tratta di Mark Hawley, sound engineer e marito della cantante).
Curioso il fatto che in entrambi ci sia un richiamo agli anni ’80: alcuni inizi delle tracce di American Doll Posse sembrano provenire dall’AOR dell’epoca, e anche alcuni suoni, soluzioni ed arrangiamenti di Year Zero sono riferiti direttamente a quel periodo. Ma Reznor fa un passo in più: dopo essere stato in tour, negli ultimi due anni, con TV on the Radio, Saul Williams, Peach e Ladytron a fare da supporto, è evidente, ascoltando l’ultimo disco dei NIN come questi suoni siano stati assorbiti e riproposti (senza scimmiottature) in Year Zero. Il che, personalmente, mi rende felice: da un lato perché vuol dire che Trent Reznor è ancora capace di guardarsi intorno (un atteggiamento che da sempre ha fatto la fortuna di Bowie) e dall’altro perché Return to Cookie Mountain, l’ultimo disco dei TV on the Radio, è secondo me il disco più bello del 2006.

Dal punto di vista dei testi, altra comunanza: si tratta, in entrambi i casi, di concept album. Il che, ancora una volta, non è una novità per questi artisti. Ma soprattutto Year Zero è programmaticamente un concept album a differenza di altri dischi, quali The Downward Spiral, che potevano essere letti come tali, anche se non era esplicita la cosa.
E da questa prospettiva, ancora comunanze: in entrambi i casi (e di nuovo la vera novità è data dal disco dei NIN) questa struttura è stata esplicitata in rete prima dell’uscita del disco, con l’incredibile campagna di marketing virale che ha accompagnato Year Zero e con il solito corredo web che ha lanciato il disco di Tori Amos: in quest’ultimo caso, addirittura, sono stati creati appositamente (con risultati non eccellenti, a dire il vero) dei MySpace “tenuti” dai personaggi in cui la Amos si sdoppia per dare vita alla sua posse.
Ovviamente in entrambi i dischi la politica ha un peso maggiore: i vaghi accenni di With Teeth diventano qua una vera e propria distopia su un mondo destinato all’autodistruzione: una sorta di collettivizzazione di “Mr Self Destruct”, che, proprio per questo, assume caratteri politici, sebbene in forma piuttosto semplificata.
Per quanto riguarda American Doll Posse, questo intento è chiaro fin dal primissimo pezzo, meno di due minuti voce-e-piano, intitolato “Yo George”. Poi Tori Amos ci infila sempre gli stessi temi: la condizione femminile, la violenza (“Fat Slut” è un pezzo veramente sorprendente, con una chitarra distortissima che fa da base alla traccia vocale: ma, anche qua, siamo sotto i due minuti), la sessualità.

E anche il packaging non è da meno: Tori Amos non rinuncia alla versione deluxe con dvd, su cui, a dire il vero, c’è poco (ma io l’ho comprato lo stesso), mentre Reznor fa uscire Year Zero su un normale supporto audio, ma sensibile al calore, cioè fatto dello stesso materiale del cofanetto dei singoli dei Massive Attack, per chi se lo ricorda: dopo averlo suonato, compaiono le informazioni su copyright e altro. Quando il dischetto ritorna freddo, rimane solo la scritta Year Zero.

Ma i due dischi hanno in comune un problema: la durata. Se si sente troppo la lunghezza dei singoli pezzi di Year Zero, in cui ogni traccia ha una coda rumoristica che in sè sarebbe anche positiva, se questa caratteristica non fosse ripetuta per tutti i brani del disco, il minutaggio di American Doll Posse sfiora l’ora e venti. Troppo, decisamente troppo.
Ma pare che la questione durata sia una caratteristica comune dei prodotti dello show business oggi: ormai i film non durano praticamente mai meno di due ore, e moltissimi dischi, appunto, hanno minuti e minuti che potrebbero essere eliminati, o, perché no, messi in un altro disco (in là nel tempo, furbetti, se no siamo punto e a capo).

Comunque, tutto sommato, sono contento: i due più che quarantenni ancora se la cavano, e non solo su disco. Dopo avere visto il concerto dei NIN, e avendo visto Tori Amos più volte (e aspettando la data del 30 maggio a Firenze), posso tranquillamente dire che offrono degli ottimi concerti. Adesso mi prendo una giornata di ferie e ascolto American Doll Posse e Year Zero un’altra volta.

1994

Jar of Flies degli Alice in Chains, Ill Communication dei Beastie Boys, One Foot in the Grave, ma anche Mellow Gold, entrambi di Beck, Parklife dei Blur, il primo disco omonimo dei Future Sound of London e dei Korn, il disco omonimo (ma non primo) dei Kyuss, il primo disco di Marilyn Manson, Far Beyond Driven dei Pantera, Crooked Rain Crooked Rain dei Pavement e poi Dummy dei Portishead, Superunknown dei Soundgarden e Experimental Jet Set, Trash and No Stars dei Sonic Youth. E, ovviamente, come dimenticare lo “sdoganamento” “punk” di NOFX e Green Day (Punk in Drublic e Dookie) e il viaggio nel corpo umano di Vitalogy dei Pearl Jam. Il primo disco dei Weezer. L’ultimo concerto dei Nirvana. La nuova edizione di Woodstock.
Basterebbero questi titoli e questi eventi, e chissà quanti me ne sono dimenticati, per stabilire l’importanza di un anno cardine per la musica, la società e la cultura del decennio. Ma ne aggiungiamo un altro, The Downward Spiral, il capolavoro dei Nine Inch Nails.
Trent Reznor ha fatto uscire alla fine dello scorso novembre una versione deluxe del suo TDS dieci anni dopo la sua pubblicazione. A guardare bene, però, Reznor non celebra soltanto il decennale del disco, ma del suo 1994. Nel secondo cd della confezione, infatti, troviamo tracce pubblicate in quell’anno dai NIN con demo, remix, b-sides e pezzi scritti per o finiti nella colonna sonora de Il corvo e di Natural Born Killers (se dovessimo parlare anche dell’importanza extra-cinematografica di alcuni film di quell’anno non la finiremmo più). Quindi non solo una celebrazione di un disco, ma proprio di un momento nella musica popolare in senso lato.
Si dovrebbe fare un discorso lungo e articolato sulla forma di remixing che Reznor ha dei suoi pezzi: si tratta spesso, anche se non sempre, di vere e proprie seconde lavorazioni, come se il pezzo “normale” fosse materiale grezzo, e il mix (o il remix) sia il prodotto finito. Il remix a cui è stato sottoposto TDS per questa nuova versione deluxe non è stato assolutamente invasivo (visto che l’album del 1995 dei NIN, Further Down the Spiral, è già un remix di TDS), ma ha sfruttato le possibilità tecniche per fare del disco ancora di più un’esperienza sonora.
Molti, infatti, hanno definito TDS un concept album sulla follia, o meglio, sugli ultimi momenti della vita di un pazzo. I testi, in effetti, lasciano poco spazio ad altre interpretazioni. Già dalla prima “Mr Self Destruct” (che riprende il campionamento di un pestaggio del film THX 1138), si parla di uno sdoppiamento psicotico: “I am the voice inside your head / And I control you”. Ma la spirale del titolo la percorriamo anche noi ascoltatori: Reznor ha un senso visivo piuttosto spiccato e grazie cinematografico remix surround 5.1 riusciamo ad addentrarci nella mente del protagonista, tra momenti quasi sognanti e altri più violenti, per non uscirne più. Al massimo si può seguire Mr Self Destruct in qualche delirio pseudo onirico (“Piggy” e “March of the Pigs”), per piombare poi in spietate autoanalisi (“Ruiner” e “The Becoming”). C’è un tema musicale ricorrente (ovviamente discendente, che mima la struttura narrativa dell’album) e delle parole che compaiono più volte nel disco. “Nothing can stop me now” è l’espressione più presente, e pare un presagio continuo della fine, una fine annunciata già dal titolo della prima traccia (“Mr Self Destruct”), ma anche una liberazione. Se ogni canzone, infatti, vede il protagonista che agisce o subisce qualcosa in senso violento e assoluto (la differenza è di poco conto, visto il solipsismo imperante), il “niente può fermarmi, ora” dà un senso di libertà di percorrere la spirale discendente fino in fondo, senza costrizioni e impedimenti.
“Eraser” è preceduta da “A Warm Place”, l’unica traccia strumentale del disco, ed è una canzone rilassata e tremenda: “ho bisogno di te / ti sogno / ti trovo / ti assaggio / ti scopo / ti uso / ti taglio / ti rompo / lasciami / odiami / sbattimi / cancellami” e nel libretto non è riportato l’ultimo “kill me”, urlato tra i rumori. Ma l’ultimo pensiero prima del suicidio, che avviene “fuori campo”, è per una donna (“Reptile”), che la mente del protagonista, ovviamente, vede come dolce e infetta allo stesso tempo. L’ultima frase del testo è “I am so impure”, e poi si passa alla title track, in cui sembra che ci sia qualcuno che parli della scena del suicidio dal di fuori, con un brusco cambio di focalizzazione. La canzone si conclude con quello che potrebbe essere un nuovo accenno di follia (“The deepest shade of mushroom blue / All fuzzy / Spilling out of my head”), ma il disco non è finito. “Hurt” è l’ultima canzone di TDS, e credo sia una delle più belle canzoni degli ultimi vent’anni (non credo assolutamente di fare un’affermazione rivoluzionaria, sia chiaro): ma a chi attribuirla? Al suicida, come fosse un ultimo pensiero? Alla voce della traccia precedente, ormai presa anch’essa dalla spirale discendente? A Trent Reznor stesso?
Chi è che muore, alla fine di TDS? Forse Trent Reznor stesso, che si è reso conto, per sua stessa ammissione, di avere fatto un album definitivo, dal quale sarebbe stato difficile tornare indietro, un disco difficile e complesso nei temi, ma che è rimasto il più grande successo dei NIN, sia dal punto di vista del pubblico che della critica. TDS rimane un album duro, che fornisce costantemente materiali per i live, compreso quello di Woodstock del 1994, dove su quindici pezzi solo tre arrivavano da TDS. Ma, estrapolati dal contesto, questi pezzi hanno una forza che si esaurisce nella loro stessa durata, pur rimanendo dei gioielli. Ascoltare e leggere con attenzione la spirale discendente dall’inizio alla fine è tutt’altra cosa. Non credo che Trent Reznor avrà mai il coraggio di ripercorrerla tutta dal vivo: molti dicono che una volta arrivato in fondo alla spirale (e nel secondo disco c’è anche un pezzo che si chiama “TDS: the Bottom”), per Trent non sia stato facile risalire. Ci sono infatti voluti cinque anni per il suo disco successivo, non per niente intitolato The Fragile.
Se si potesse intuire qualcosa della vita di un musicista dai titoli dei dischi che scrive, però, dovremmo dire che Trent è rinato, o che comunque la sua rabbia è di nuovo rivolta all’esterno: With Teeth, il prossimo album dei NIN, è in uscita tra poco più di due mesi.

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