La cigielle e la commedia dell’arte

Quando ero piccolo, la CGIL era cigielle: che ne sapevo io che quella era una sigla? Per me era un posto dove mio padre andava quando tornava dal lavoro, talvolta. Cigielle: con quella “i” dopo la “g” pronunciata senza indugi, come per dire “Tranquillo, qua la ‘i’ ci va, ma in ciliegie? Eh?”. Ho tuttora dei dubbi, con ciliegie.

Per un periodo pensai anche che “cigielle”, con quella musicalità così accentuata, fosse una parola in dialetto, finché, un giorno, chiesi a mio padre che cosa faceva là, in quei tardi pomeriggi. E lui mi spiegò cos’era la CGIL. Finita la sua breve e, per forza di cose, semplice risposta, pensai che era un vantaggio avere una cosa del genere. Mi immaginavo che la cigielle mi avrebbe difeso, quando avrei lavorato. Era una cosa giusta.

Lavoro da dodici anni e ho sentito molto più vicino alla mia condizione di lavoratore “Il Club del Libro”, rispetto al maggior sindacato italiano. Perché anche quello, come gran parte della sinistra, è piuttosto miope sulla condizione reale del lavoro. Sì, esiste il NIDIL, è vero, e so che spesso ci lavorano ragazzi volenterosi, che però hanno davvero pochi mezzi.
Se la domanda è: oggi scioperi?

La mia prima risposta è “No, grazie, non ho bisogno di altri libri” e la seconda è che uno sciopero generale serve se ferma il Paese per giorni. Questo sciopero il Paese lo sentirà poco. Perché? Be’, per fare un esempio a livello nazionale, le scuole non sono ancora iniziate. O anche: qui a Bologna i dipendenti ATC (azienda dalla quale io dipendo per muovermi in città) scioperano dalle 1930 a fine servizio. Quanti disagi per chi abita in periferia e non potrà raggiungere i locali del centro per un’allegra serata!

Questo modo di fare, insieme a mille altri, è però strettamente in relazione con un grande modello culturale archetipico condiviso, trasversale a ogni tipo di distinzione e schieramento: Pulcinella, la simpatica maschera della tradizione napoletana.

Un’immagine mi investe, come una visione: una moltitudine in marcia che indossa la tipica maschera nasuta; un popolo dalla casacca bianca e larga che invade le strade, riempiendole di allegria e canzoni, ma finché a ognuno va, quanto conviene, un po’ qua e un po’ là, fermando il corteo per chiacchierare, mangiare, bere un buon bicchiere di vino e, perché no, fare una pennichella. “L’allegro collasso di un Paese”, titola, per l’ultima volta, il solito giornale straniero: la foto che accompagna l’articolo ha un effetto optical notevole. Usano quella pagina per incartarmi una fetta fumante: la addento e la mozzarella ha l’effetto del loto, procura un tiepido oblio. “Cigielle, cigielle”, sento cantare in lontananza, prima di perdere i sensi e pensare: finché c’è pizza c’è speranza.