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Sorrisi metallici

Sabato scorso sono stato, per la prima volta in vita mia, al Gods of Metal. Pensavo di raccontare qua alcune delle cose buffe che ci sono successe, ma ci ha già pensato Valido, quindi andatevi a leggere i suoi resoconti.
Parlerò invece di alcune sensazioni che ho provato. Intanto, la gente, la quantità strabordante di persone che si è riversata nell’Arena del Parco Nord qui a Bologna. Roba da ripetersi continuamente “Sono ad un raduno di metallari nel 2005”, chiudere gli occhi, strabuzzarli, ripetere dall’inizio. Qualcosa come trentamila persone almeno, ma probabilmente di più. Trentamila persone che hanno sborsato cinquanta euro a giornata. Ed ecco la prima considerazione.
Al metallaro non gliene importa nulla dei soldi, quello che conta è vedere il concerto, i suoi idoli che saltano da una parte all’altra del palco, le chitarre suonate a mille all’ora, circondato da sudatissime t-shirt nere. Non esiste la politica di prezzo, l’autoriduzione, si paga e basta. Orgogliosamente.
Attenzione, non crediate che guardi tutto dall’alto, eh no. Perché come molte persone di mia conoscenza, più o meno coetanee, il mio primo approccio con la musica è stato proprio con l’heavy metal. Ma non sto parlando delle prime canzoni ascoltate (altrimenti Cristina D’Avena andrebbe in rovina, e sarebbe in piazza Verdi a mendicare una birra), bensì della prima passione musicale. Per me, un nome: gli Iron Maiden, headliner della prima giornata del festival. Per una serie di motivi, quindi, ho visto gli Iron Maiden quasi quindici anni dopo avere sentito le loro prime cose, e, diciamo, quattro anni dopo avere smesso di sentirli.

Fede: Hai qualcosa degli Iron in cd?
Io: No, tutto in cassetta. Ma tutto.

Questo dialogo è esemplificativo di quando collocare gli Iron Maiden nella mia vita, fatta di walkman, cassette e disagio da provincia remota. Ma è stato un concerto bellissimo, ho cantato tutte le canzoni (breve considerazione: in quali accidenti di neuroni sono immagazzinati i testi delle canzoni degli Iron Maiden? Perché quelli e non – anche – la storia romana, che pure devo avere studiato, come da programma ministeriale?), e mi sono distratto solo durante gli assoli. Seconda considerazione.
L’assolo è il cancro che ha divorato il metal dall’interno. Sebbene, infatti, le scenografie siano spesso pacchiane, le mosse improponibili, per non parlare (talvolta) dei testi, tutto passa e va, basta crederci almeno per un po’. Ma gli assoli, cristo, gli assoli no. Perché esiste l’assolo heavy metal, che a volte si impersonifica, raggiungendo la corporeità (nel caso in questione, una grossa corporeità)? I riff rimangono, e vengono pesantemente sfruttati anche adesso (vedi l’ultimo singolo dei Daft Punk). Il discorso vale anche per gli Slayer, che hanno preceduto i Maiden (altro concerto decisamente emozionante). E vale per tutti i pezzi metal, almeno per chi ama questo genere. Insomma, inizia il pezzo, riff iniziale, si inizia a scuotere la testa, si batte il piedino, ci si getta nel pogo, ritornello cantato a squarciagola, e poi… Come il coitus interruptus, l’assolo (anche se i fan degli Iron Maiden si riconoscono per la caratteristica peculiare di cantare gli assoli: na nananaaaa naaa naaa, o con variante vocalica: oooo-ohohohooooo): si tenta di tenere il tempo per qualche secondo, il tempo di sentire dodici scale pentatoniche, ma poi basta, ci si guarda intorno, si fa o-oh, ma, fondamentalmente, si aspetta che tutto ricominci.
Ma mi sono divertito, eccome. È stato come piombare ai miei quindici anni, senza passare dal via, così. Mi è spuntato un brufolo, ho pensato ad una mia compagna di classe tettona ma inguardabile, e ho sorriso.
Eh, già, ho sorriso, perché la terza considerazione è che, a differenza di discotecari mascellati, indierocker attenti a non spettinarsi la frangetta, emoboys che si tingono la chioma di nero, b-boys che, alla fine, soffrono della scomodità di pantaloni troppo larghi, i metallari si divertono e sono veramente felici. E, soprattutto, se ne sbattono delle mode e della ricerca spasmodica e spesso insensata del nuovo-a-tutti-i-costi: le decine di migliaia di persone che erano sabato a cantare con Bruce Dickinson ne sono la prova. Anzi: la fottuta prova.

Radio Days

La percezione che ha la gente di te che lavori in una radio, tutto sommato non enorme, è strana. Qualsiasi cosa tu faccia, vieni immediatamente identificato con la musica. E fin qua, niente di male. Il problema è che la gente pensa che tu, nei confronti della musica abbia infinite risorse, potere e onniscenza.

Qualche giorno fa suona all’ora di pranzo l’omino che ci porta le pizze, i panini o quello che è. Io e la mia collega E. andiamo a pagare. E lui inizia con la frase d’apertura magica e rituale: “Voi che lavorate in radio”.
“Voi che lavorate in radio,” ci dice, “sapete, io ho una sorella che canta. Canta piuttosto benino. Magari, ho pensato, potrebbe…” Sguardo interrogativo mio e di E.
“No”, continua l’omino, “magari potreste avere bisogno di qualcuno che vi canti dei jingle, non so.”
Non diciamo niente.
“Brava è brava, eh, pensate che è voce solista in un coro.”
E. rompe il silenzio: “Ah, però. Ma sai, noi i jingle, di solito, ce li facciamo da soli…” Questo non basta a farlo desistere.
“Sì, però, magari lei…”
“Non abbiamo molte risorse”, dice €., tentando di fargli capire. Capisce. Ed esige immediatamente che gli paghiamo il conto, pensando che le nostre risorse siano veramente poche.

Stamattina, invece, mi ferma uno spazzino, piuttosto giovane.
“Tu lavori in radio?”, mi chiede mentre sto sulla soglia della radio, appunto.
“Sì”, rispondo io.
“Senti, io ho una cassetta con delle canzoni da discoteca degli anni ’90, diciamo dal 1990 al 1994. Non è che potresti darmi una mano a capire quali siano? No, perché qualcuna è veramente bella, vorrei scaricarmela, ma non so come si chiama.”
Io rimango di sasso, pensando al corrispondente concreto del concetto di “bellezza di una canzone da discoteca dei primi anni novanta”: il vuoto, il nulla. Ma lui viene in mio aiuto.
“Ce n’è una bella degli Hocus Pocus, li conosci?”
“Sì”, dico io con sicumera.
“Eh, ma attento: non ce n’è mica solo uno di gruppo che si chiama Hocus Pocus. A me piace quella che inizia con un elicottero, e poi fa bau – ci bau – bau
“Non la conosco”, dico.
Lui pare deluso e sta per andarsene, ma ha un guizzo. “Senti, non è che avreste un paio di piatti usati da vendermi?”

Come epilogo, l’episodio a cui ho accennato qui.
Dunque, Howe Gelb è ospite della trasmissione dell’amico FedeMC e della suddetta amica E. Fa il suo bel minilive per promuovere il concerto che terrà quella sera al Covo. Esco dall’ufficio dove lavoro e lo vedo parlare con E., e canticchiare.
“Vuole suonare ‘Nel blu dipinto di blu’, stasera”, mi dice E. Mi accorgo che quello che ha davanti è il testo delle prime due strofe della canzone, trascritte a memoria da E. Guardo Howe Gelb, e gli chiedo: “Why?” “Beautiful song”, risponde lui. E mi chiede se ho gli accordi. “Forse in rete si trovano”, dico, e poco dopo torno con la bella stampata degli accordi dell’immortale canzone di Modugno. Io ed E. continuiamo a chiedergli se è sicuro di volerla cantare, gli diciamo che forse è meglio di no.
“Ma perché?”, dice lui. “E’ una canzone splendida!” E allora noi a spiegargli che, sì, è bella, ma l’hanno cantata tutti, è molto tradizionale…
“Forse è un po’ simile ad ‘American Pie'”, dico io, cercando un brillante parallelo, ma lui non pare convinto.
“Ho capito che tipo di canzone è: non come ‘American Pie’, ma…”, dice lui.
Momenti di silenzio.
“Ho trovato!”, esulta Howe. “Secondo me è un po’ come ‘New York New York'”, e ride, mentre mima gli accordi della canzone di Modugno su un’immaginaria tastiera di chitarra.

Appendice. Ho capito di che canzone parlava l’appassionato di musica dance dei primi anni novanta: la trovate qua sotto, se proprio dovete. E poi: non sono stato al concerto dei Giant Sand al Covo, ma mi hanno detto che, alla fine, Howe Gelb non ha cantato “Nel blu dipinto di blu”. Pare che vi abbia solo accennato, prima che partissero i fiati di “New York New York”.

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