Time Safari
P. mi ha detto “Andiamo a Ferrara in Vespa” con lo stesso entusiasmo adolescenziale con cui, due anni fa, abbiamo deciso, così su due piedi, di andare a Berlino. Berlino significava anche il periodo berlinese di Bowie, nonché mostre ed installazioni di Wilhelm Katzenberger ovunque, tra cui come non ricordare lo “Studio per una parallasse in blu”.
Ferrara voleva dire solo una cosa: il concerto degli Air, uno dei gruppi più splendidamente e meravigliosamente inutili della storia della musica. E così abbiamo tradito i Telefon Tel Aviv e la Macchia per l’amore sconfinato per i suoni vintage uniti alla spocchia transalpina.
Insomma, alle sei di pomeriggio siamo partiti. E ci siamo sentiti giovani e belli e liberi sulla porrettana. A metà strada P. mi ha detto: “Ma com’è che ci superano tutti?” Non ho risposto, per non rompere la magia del viaggio. Mi sono guardato intorno: campi e frutteti a vista d’occhio, strade che si snodano lungo la pianura. Sembrava di stare in America, se non ci fossero stati dei cartelli pubblicitari di un salumificio che raffiguravano un maiale alla guida di un carro che frusta le salsicce che lo trainano. Veramente, esistono.
Su Rokia Traore che ha aperto il concerto, non faccio commenti. La musica etnica proprio non mi piace. Anche se ho visto cose bellissime, come un ragazzone che ballava ritmi afro indossando una maglietta dei Metallica. Ah, siamo veramente senza confini e pregiudizi, noi giovani.
Durante il cambio do un’occhiata alla strumentazione degli Air. Continuo a perdere il conto delle tastiere che ci sono, e mi arrendo.
Finalmente i due salgono sul palco. Sono vestiti uguali, pettinati uguali, non salutano e iniziano a cantare “Io potrei venire da Marte, tu potresti venire da Venere, potremmo stare insieme e amarci per sempre.”
Li osservo. Hanno un’età indefinibile, intorno alla trentina, ma non riesco ad immaginarli giovani, che provano in un garage. Sembra che siano nati con quei vestiti, quei capelli e quelle facce. E che abbiano da sempre avuto quegli strumenti sotto mano. Dopo la prima canzone, mi accorgo che i miei jeans sono diventati a zampa di elefante. Penso sia l’effetto della canna e sollevo di nuovo lo sguardo verso il palco.
E dopo il secondo pezzo, avviene il miracolo. Gli Air salutano, abbozzano qualcosa in italiano, sorridono, ringraziano. Il pubblico è in delirio totale. Intorno a noi solo voci che dicono “Ma allora non sono stronzi!” e giù applausi e urla. Se lo scopo degli Air è quello di suonare bene, il nostro, ormai si è capito, è quello di farli sorridere.
La prima canzone tratta da “Moon Safari” è “Talisman”. Quando inizia, P. si gira verso di me e afferma: “Questa canzone mi farà passare le doppie punte.” Poi aggiunge: “Fra, ti stanno bene quelle basette. Da quando le hai?” Io mi tocco la faccia e noto il cambiamento, ma gli Air mi travolgono con una doppietta meravigliosa: “High School Lover” e “Le Soleil est près de Moi”.
Quello che aspetto, in realtà, è “Kelly Watch the Stars”, che puntualmente arriva e viene suonata in maniera tiratissima. Pubblico impazzito, gli Air sorridono, pubblico – quindi – in delirio, gli Air ringraziano per ben due volte, sorridendo, il pubblico orgasma, gli Air se ne vanno.
Come, se ne vanno?
Cinquanta minuti di concerto e se ne vanno?
Eccola là, la spocchia maledetta. Il pubblico pagante, ovviamente, si incazza e inizia a battere le mani e a fischiare. Una parte del pubblico, invece, continua a cantare una canzone da stadio in francese, come ha fatto durante ogni pausa tra una canzone e l’altra.
Ma no, tutto calcolato. Gli Air tornano sul palco, ovviamente. Altri due pezzi, concludendo con “Sexy Boy”. Un’altra canzone da Moon Safari, pubblico impazzito, solito circolo virtuoso di “grazie”, sorrisi, applausi. Vicino a me uno mi guarda e dice “C’è una bellissima atmosfera di pace, fratello, vieni ad un collettivo?”, e mi passa un volantino ciclostilato. Me lo metto in tasca.
Gli Air se ne vanno, salutano, ringraziano, il pubblico dice “De rien”, la curva sud di piazza Castello continua imperterrita a cantare la canzoncina da stadio. Qualcuno se ne va, ma si sentono delle voci dietro di noi che con tono esperto affermano che non si sono riaccese le luci, quindi torneranno.
E infatti per la terza volta gli Air salgono sul palco, e concludono il secondo bis con una versione torrenziale de “La femme d’argent”, canzone alla quale sono particolarmente legato. Stavolta il protagonista assoluto è il batterista. Stare dietro ai due francesi, tutti lounge e tempi morbidi, può non essere appagante. Quindi, alla fine dell’ultima canzone, l’omone dietro le pelli sclera e, tenendo il tempo, fa un assolo lunghissimo di batteria, in cui sembra che, alla fine, debba esplodere tutto. Guardo P. e noto che gli sono cresciuti i capelli e i baffi. Io, d’improvviso, indosso una camicia con un colletto enorme.
“Molte grazie”, dicono gli Air alla fine e, stavolta, se ne vanno veramente.
“Grande, grandissimo concerto. E chi se li aspettava così? Sorridevano!” ci diciamo io e Paolo tornando verso la Vespa e mangiando un ghiacciolo all’amarena.
Dopo un’ora eravamo a Bologna. Ci siamo tolti il casco e abbiamo visto che basette, capelli e baffi erano come al solito. Anche i miei jeans avevano perso la scampanatura.
Ho vissuto negli anni settanta per i primi due anni della mia vita, e poi stanotte, per tre ore. Ed è stato bellissimo.