Alla ricerca dell'uomo
Su questo blog si è parlato davvero di tutto, in questi sette anni abbondanti, ma mai (credo) di arte contemporanea. Questo perché chi vi scrive ne sa di arte contemporanea più o meno quanto di fisica elettromagnetica. Per evitare la possibile noia del secondo argomento, ho deciso di parlarvi oggi di arte contemporanea, e in particolare di una mostra che si è aperta al MAMbo, il Museo d’Arte Contemporanea di Bologna, a gennaio e che chiude ai primi di maggio. Quando uno dice il tempismo.
In search of… è il nome dato alla prima personale europea di Matthew Day Jackson, un giovane (ha 37 anni) e talentuoso artista americano. Tutto parte da un video, ricalcato sulla serie statunitense “In search of”, andata in onda tra il 1976 e il 1982: da quel che ho capito, si trattava di una “collana” di documentari tra lo scientifico e lo pseudoscientifico. Una specie di “Quark incontra Voyager, ma Piero Angela si distrae”, dove però il narratore era Leinard Nimoy. Comunque, una puntata creata ad hoc è parte integrante dell’esposizione: in essa si parla di civiltà perdute, di misteriosi manufatti di provenienza aliena e della scomparsa di… Matthew Day Jackson. L’artista, infatti, ha inscenato la sua scomparsa, lasciando nel suo Volkswagen abbandonato solo degli appunti e delle fotografie. Quarantotto, per la precisione, ognuna delle quali scattate in uno stato “continentale” degli USA e raffigurante una forma “umana” colta in un profilo roccioso, in una collina, su un masso.
Si comprende, quindi, che ciò che interessa a Jackson è l’indagine sull’uomo: forse per questo è uso mettere in ogni sua mostra uno scatto che lo raffigura cadavere, con una didascalia che reca l’età a cui è avvenuto il decesso, cioè quella della mostra stessa. Questo levarsi di torno può essere visto come un fare tabula rasa per ricominciare, ma anche come un modo per mettersi da parte, per osservare meglio l’uomo eliminando l’impiccio di rischiare di confondere osservato con osservante.
La ricerca di Jackson corre su diversi binari: la serie di teschi, sempre più stilizzati, di “The Way We Were”, si contrappone per essenzialità alla mediazione della conoscenza tramite manufatto della carcassa di automobile chiamata “Chariot II” o attraverso il reperto monumentale di “The Tomb”. La volontà dell’artista rimane indagare sull’uomo, sui suoi modi di vivere, di agire e di creare. Certo, l’autoironia di Jackson (e, conseguentemente, l’ironia tout court) è palese: la prima lettura rimanda quindi a un secondo livello, quello dell’ironia, appunto, spesso declinato sui concetti di falso, di commistione, di rielaborazione e di contrapposizione di elementi popolari, di massa.
Alla fine della visita qualcosa in noi è cambiato: abbiamo riflettuto su noi stessi, ci siamo visti dall’esterno, come potrebbe osservarci una civiltà aliena, appunto. Ci siamo immedesimati nell’oggetto di un possibile documentario appartenente a qualche altro mondo, in cui un presentatore ci guida alla ricerca di noi stessi.