Le avventure di Rossi-San a Roma

Sono tornato a Roma. Sono tornato da Roma.
Di solito, appena arrivo a Roma c’è il sole. Stavolta niente: pioggia continua o quasi. Come per non rendermene conto mi sono buttato nella metropolitana, appena arrivato a Termini. Nel sottopassaggio della stazione Flaminio la gente va con passo veloce. Accanto a me una suora. Non appena il suonatore ambulante la vede, mette le dita sulla tastiera della chitarra e intona una marcetta: il testo, improvvisato, è solo fatto di bestemmie, con precisi riferimenti alla Sacra Famiglia e anche a Madre Teresa di Calcutta. Non riesco a vedere la suora in faccia. Una signora grida “vergogna!”, qualcuno ride.
La metropolitana, a causa della pioggia credo, è affollatissima. Io sono schiacciato in mezzo a decine di persone, e non posso fare altro che appoggiarmi al palo centrale, dove però ci sono delle mani aggrappate. Tra queste, la mano di una signora. Cerco di arcuare la schiena, per evitare di schiacciarla, ma la mano si muove. Mi giro.
“Scusi”
“Mi devo tenere”, fa lei scocciata.
“Sì, lo so, sto cercando di non schiacciarle la mano”
“Appunto”, conclude la signora.
Peccato che i Monty Python non facciano più il Flying Circus: secondo me, in quanto a nonsense, siamo da quelle parti.

Venerdì pomeriggio, dopo avere pranzato con le sorelle bandiera (che ringrazio, congiuntamente al Supereroe), rimango a Trastevere e bighellono approfittando del raro sole. Compro un libro in una splendida libreria, poi continuo a passeggiare. Passo vicino ad un camion posteggiato, nel cui cassone c’è un ragazzo che spala dei detriti. Gli passo sotto proprio nel momento in cui lui spicca un balzo verso terra. Mi sfiora. Io mi giro e gli dico che va tutto bene. Lui mi abbraccia, mi stringe la mano. “Ahò, m’hai fatto venì ‘na strizza che non poi capì”. Poi torna a lavorare.

Sabato vado a cena con il mio fratello di parole, in una nota-trattoria (talmente nota che la chiamiamo “la trattoria” e basta). Il cameriere allunga una poesiola a Martino. Secondo Martino questo è un buon segno, io rimango scettico. Ma speriamo abbia ragione lui.

Domenica incontro in un bar vicino al Colosseo R. D. , con il quale, come al solito, chiacchiero di letteratura; meglio: lui chiacchiera di letteratura, io annuisco e cerco di tenere a mente i nomi che cita. Che strano uomo. Sembra timido, ma poi racconta cose spassosissime, aneddoti di convegni letterari (che mi sembrano sempre più simili a feste goliardiche, altro che pipa e giacche con le toppe sui gomiti). Stavolta non parliamo di Carver. Ad un certo punto tira fuori due libri e me li regala. Poi mi accompagna alla fermata della metro del Colosseo, e inizia timidamente a parlare dei miei racconti. Dice che non sono scritti male, ma “non si chiudono bene, non c’è il ‘click’ che ci dev’essere”. Lo guardo un po’ perplesso. “Per usare una metafora calcistica”, mi dice, “fai delle belle azioni, ma non tiri in porta”. Lo ringrazio, ma ha paura che ci sia rimasto male, il che non è vero. Ma lui mi consola dicendomi che se ho fatto metà strada, tanto vale… Mi giro e vedo il Colosseo. Penso che se fossi in un pessimo film, potrei pronunciare, con quello sfondo, una battuta come “Roma non fu costruita in un giorno”, dando di gomito all’anfiteatro.
Poi vado a mangiare con B., in una delle poche pizzerie aperte a San Lorenzo. Quando entriamo la cameriera ci dice: “Ma c’è un solo tavolo”, al che noi ribattiamo che, in fondo, ce ne basta uno. Il punto è che il tavolo in questione è davanti alla porta del bagno. Ma non di fronte, proprio davanti. Facciamo pressione psicologica sui tedeschi accanto a noi, che finiscono di mangiare, lasciandoci il loro tavolo, di fronte alla porta del bagno. Il nostro viene immediatamente occupato da un’altra coppia.

B. mi accompagna alla stazione, stamattina. Facciamo colazione nel bar al piano di sopra. I cornetti sono finiti, ma in compenso abbiamo una vasta scelta di muffin e doughnut: roba da fare impazzire i teorici della globalizzazione. Nel tavolino dietro di noi, una strana coppia. Uno è un ragazzo piuttosto giovane e assonnato, che sta facendo lezione di giapponese ad un uomo sulla quarantina, con camicia, giacca e cravatta appoggiata allo schienale della sedia. Speriamo in cuor nostro che il ragazzo venga pagato bene. Il signore deve tradurre una frase, ma è in difficoltà.
“Rossi-San…” inizia, ma non sa andare avanti. Il ragazzo lo guarda con aria mesta, e sono convinto che stia pensando ai soldi che guadagna dando lezioni di giapponese alle nove di mattina in un bar della stazione Termini, prima di ripetergli la frase in giapponese.