Non so voi, ma quando io vado a vedere un concerto e scopro che ci sono i posti a sedere, ci rimango sempre male, di primo acchito. Certo, non mi aspetto di andare a vedere un concerto di musica classica e fare headbanging o ballare sotto il palco, ma ci siamo capiti. Quando ho saputo che il concerto dei Kraftwerk a Ferrara aveva i posti a sedere, quindi, non ero molto contento. Ma avevo comunque una gioia, quella di andare in Vespa a Ferrara, come avevo già fatto per gli Air. Quando ci sono gli anni ’70 di mezzo, non c’è nulla che trattenga me e P. da inforcare la sua Vespa e scorrazzare per la bassa.
Dopo una sosta-piadina a Minerbio, quindi, arriviamo in piazza Castello e ci mettiamo a sedere. Davanti a noi, dei fan sfegatati del gruppo tedesco, che non fanno altro che abbracciarsi a vicenda e dirsi “Ma ti rendi conto?” Considerando il loro entusiasmo e che, ad occhio, hanno la mia età, penso che debbano avere sentito i dischi dei Kraftwerk in età infantile, pre-infantile, fetale, o, visto il comune pensare, embrionale.
Quando il sipario (sì, il sipario) si apre sul palco, attaccano con “The Man Machine”: sembrano immobili, con ai lati Hutter e Schneider e in mezzo gli altri due. Hanno davanti una tastiera con sopra un computer che paiono sospesi nell’aria. Dietro, una cosa del genere. Sono musica, e pare che la loro presenza sia quasi superflua. Il pubblico rimane ipnotizzato e ascolta in silenzio. I pezzi si succedono, uno dopo l’altro, praticamente senza pause. Dietro, sugli schermi, vediamo biciclette per “Tour de France”, autostrade per “Autobahn”, con giochi di luce perfetti. I quattro non si muovono e non dicono nulla, niente. Il risultato è estramamente coerente, e non capisco più se si tratti di un’estetizzazione della loro musica, o di una colonna sonora per i loro concetti visuali, a partire dalle loro copertine e, volendo, andando ancora più indietro nel tempo, fino agli evidenti riferimenti ai motivi grafici dell’avanguardia russa, ma anche dell’estetica totalitarista nazifascista. I testi svuotano ancora di più i brani, fino a ridurli a pura forma, ma il miracolo avviene nel momento in cui questa forma si fa leggera, ingenua e, allo stesso tempo, concreta. “Kalium Kalzium Eisen Magnesium Mineral Biotin Zink Selen L-Carnitin Adrenalin Endorphin Elektrolyt Co-Enzym Carbo-Hydrat Protein A-B-C-D Vitamin”, con dietro piogge di pillole: non è didascalismo (sarebbe evidente e banale), ma un’esperienza audiovisiva elementare ed elementale, perfettamente coerente e coinvolgente.
Il messaggio esiste, però, e viene messo in evidenza in “Radioactivity”, cupa e martellante, con un’intro da manifesto politico vero e proprio. E allora ti ricordi che i Kraftwerk vengono dalla Germania degli anni ’70, quella dei movimenti radicali ecologisti, della Rote Brigade, oltre che dal conservatorio di Düsseldorf. E c’è un pensiero articolato, dietro a tutto questo: l’annullamento, volontario, coatto e/o alienante, dell’essere umano. Pensiero che viene espresso, nello spettacolo, da “The Robots”. Sono dei manichini meccanici quelli che “suonano” la canzone al posto del gruppo, e si muovono molto di più degli umani, davanti a tastiere e computer. E quindi si può pensare che, in fondo, nessuno stesse suonando le canzoni precedenti, o, addirittura, che non ci fossero i Kraftwerk sul palco, ma macchine per suonare macchine, che è esattamente quello che ci si aspetta. In “The Robots” viene solo resa esplicita questa possibilità, viene mostrata con la stessa immediatezza e banalità con cui hanno usato un calcolatore per “Pocket Calculator”, con la stessa logica con cui si costruisce una progressione musicale o si progetta un’autostrada.
Penso, per un attimo, a cosa potrebbe pensare il solito alieno venuto sulla Terra, vedendo una schiera di umani immobili e seduti che guardano delle luci un uno schermo e ascoltano suoni elettronici, con quattro umani altrettanto immobili davanti, che si confondono con le luci e i motivi alle loro spalle. E penso che, comunque, dev’essere un bello spettacolo. Rovinato dal fatto che siamo schifosamente italiani e che, quindi, ad un certo punto qualcuno inizia ad abbandonare il proprio posto, facendo partire una reazione a catena che si conclude con decine di persone in piedi sulle sedie. E in quel momento, visto che la magia era rotta, avrei proprio voluto che una voce diffondesse questo in Piazza Castello.
la corsa verso il palco ha irritato anche me, ma la fine del concerto è stata trascinante (a milano) e tutto sommato ci stava 🙂
(cmq quello a sinistra cantava)
Per me è solo una questione d’educazione. Sai perfettamente che salendo sulla sedia rovini lo spettacolo a quelli dietro. Sai perfettamente che, se tutti sono seduti sulle apposite sedie, l’opzione “vado sotto il palco a ballare” evidentemente non è quella pensata dal gruppo e dagli organizzatori per la fruizione dello spettacolo. Se lo fai, vuol dire che te ne freghi del resto del pubblico e che sei un maleducato. E immagino che la cosa non ti tocchi minimamente.
Fmc
in questo periodo molti concerti si accavvallano l’uno con l’altro. tra ferrara e padova….
sabato ser a Ferrara c’era il concerto dei Krafterwer, ad Arre Pd c’era il concerto di irene grandi, e a Monselice (Pd) Elisa.
certo tre tipo di concerti diviersi (forse simili Elisa e Irene).. ma pur sempre attirano gente….
ma come scrivi? il concerto dei kraftwerk, comunque, era mercoledì.
ahaha complimenti per il finale “tetesko”… Han suonato anche a Torino nell’auditorim di Lingotto e mi spiace non averli visti…e anche qui il pubblico era seduto e l’idea devo dire che non mi dispiace ma come hai già detto tu gli italiani si riconoscono subito..puertroppo!
bello, il post ed il concerto anche se purtroppo ho dovuto fare il pecorone e salire sulla seggiola per vedere il resto del concerto (a ferrara)
🙂
[…] uno dei più belli che abbia mai visto nella mia vita. E ce ne siamo tornati a Bologna in Vespa, come da tradizione, pieni di sorrisi e […]