Mi rendo conto che sia un po’ tardi per parlare del primo libro di Dave Eggers, L’opera struggente di un formidabile genio, visto che è uscito cinque anni fa e voi gente colta e attenta al trend sicuramente l’avrete già letto. Tuttavia da un lato non mi importa, dall’altro, se io l’ho letto adesso, magari qualche altro che non l’ha ancora fatto, tra di voi, c’è.
Leggere questo libro adesso, per me, è stata una fortuna. Perché sono già da qualche anno nello schifo dello show (?) business (in una variante, però, in cui gli affari si vedono decisamente poco), perché ho passato i venticinque, perché sono già da un po’ nello status di precario che contraddistingue molti miei coetanei volenterosi. Se l’avessi letto quando è uscito, sarei stato rovinato. Perché avrei preso e mollato tutto per andare da un’altra parte, una qualsiasi. Perché avrei deciso di fondare una rivista, con la sicumera di farla diventare un caso nazionale. Perché avrei iniziato a scrivere in maniera diversa.
Leggerlo adesso, però, alla luce di alcune considerazioni venute fuori di recente, parlando con amici e anche con Nicoletti, perché no, mi ha fatto riflettere su una possibile prospettiva sulla nostra generazione. Oh, iniziamo a capirci bene: una possibile prospettiva; e per “nostra generazione” intendo grosso modo quella che comprende persone dai venti ai trent’anni circa. E so che ogni generalizzazione è, per sua natura, difettosa.
Eggers è spudorato, a partire dal titolo, e dalla trentina di pagine che introducono il libro, in cui infila, una dopo l’altra, delle “Regole e suggerimenti per apprezzare al meglio questo libro”, che comprendono anche una tabella dei costi e dei guadagni dell’autore, uno schema di interpretazione del romanzo e una tabella delle simbologie e delle metafore.
Ma la parte più significativa fa da cesura tra la prima e la seconda parte. L’autore, il Narratore, Eggers, insomma, fa un provino per Real World, il reality show di MTV: l’intervista con la selezionatrice viene trascritta completamente, fino a questo scambio di battute.

Un momento, dimmi una cosa. Questa non è la rappresentazione del colloquio com’è andato, vero?
Vero.
Al vero colloquio non ci assomiglia nemmeno, giusto?
Giusto.
È un espediente, questo andamento in stile di intervista, inventato di sana pianta.
In effetti.
Un buon espediente, devo ammettere. Una sorta di contenitore per tutta una serie di aneddoti che sarebbe stato inefficace combinare in altro modo.
Esatto.

Eggers si svela completamente durante un finto colloquio per essere preso ad una trasmissione che detesta, ma che gli darà notorietà. E usa un possibile prodromo a questa trasmissione (non vi rovino la sorpresa, se vi anticipo che non verrà selezionato) per mostrare la sua inadeguatezza ad usare la forma romanzo per dire tutto quello che ha da dire, per raccontare delle sue sventure, della morte del padre e della madre a cinque settimane di distanza l’uno dall’altra. Dire senza dire, “voler diventare ricco e famoso senza mostrare di volerlo veramente fare” (come si dice quando si parla della rivista Might, da lui veramente fondata), non sono solamente espressioni retoriche: sono l’atteggiamento doverosamente critico ma obbligatoriamente partecipe a determinati schemi della società di massa alla quale non credo sia possibile sfuggire. Quello che Eggers vuole è diventare famoso, e basta. Non importa come. Aspirazione legittima, si dice qui, soprattutto quando è spiattellata in questo modo.
Mostrare i meccanismi e le letture possibili è qualcosa va oltre il postmoderno (che il signore abbia pietà di me): lo scorpora per mostrarne i meccanismi, e lasciarli là, su carta bianca, inerti e a portata di mano di tutti. Ma mostrare il trucco di un gioco di prestigio fa perdere di interesse il gioco stesso.
Ecco perché credo che L’opera struggente di un formidabile genio segni un possibile punto importante (di non ritorno?) nella letteratura e sia uno dei più efficaci ritratti generazionali in cui mi sia mai imbattuto: perché non usa solo le armi del cinismo e dell’ironia, perché non è negativo, né pessimista, è schietto. Il protagonista non si piange addosso, usa il dolore per ottenere compassione, e lo ammette. Si prende in giro e si esalta allo stesso tempo. E’ conscio di essere smarrito, sa che questo vuole dire libertà, sa che la libertà è una possibile fonte di smarrimento, ma non ne può fare a meno.
La nostra generazione, come mi disse Enzo Baldoni qualche anno fa, “non ha avuto in genere grandi tragedie ne’ grandi epopee, e (…) quindi e’ costretta a parlare di cose piccole e di piccoli sentimenti.”
Ecco, la differenza rispetto a tanti dimenticabili altri è che un genio come Eggers lo fa alla grande.