Conosceva l’agente Dario di vista, anche se non sapeva di che colore erano i suoi occhi. O meglio, lo sapeva dalla scheda informativa. Ma non era rilevante: in quel fascicolo c’erano cose che non conosceva neanche lo stesso agente Dario. Ma sapeva di non conoscerle.
L’agente Berto gli strinse la mano, e si fecero portare un caffè. L’agente Dario si tolse gli occhiali da sole e si lasciò andare sulla sedia. Si poteva notare il rigonfiamento della pistola sul fianco sinistro, intuirne il modello dalla sagoma che tracciava sulla giacca nera.
“Sa cosa pensavo? Che è la prima volta da quando sono in servizio che non lavoriamo su un atto appena prima delle elezioni.”
“Da quanto sei in servizio?”
“Quest’anno sono dieci anni.”
L’agente Berto non rispose, si limitò ad annuire lentamente, con un gesto che voleva dire “Io neanche me lo ricordo, da quanto sono in servizio.”
“Non abbiamo fatto tornare gli anarchici. Abbiamo tirato fuori i brigatisti, o quello che erano, poi li abbiamo rimessi dentro. Di personale sulla TAV non ne abbiamo più. I centri sociali non se li fila più nessuno. I disobbedienti?”
L’agente Berto sorrise. “I disobbedienti…”, disse, muovendo una mano in aria.
“Insomma, dopodomani ci sono le elezioni e neanche un atto diversivo? Perché? Non capisco.”
“Da quanto sei in servizio?” chiese di nuovo l’agente Berto. L’agente Dario balbettò qualche sillaba, poi capì e rimase in silenzio. L’agente Berto alzò il volume del grande televisore addossato alla parete dell’ufficio. La folla acclamava l’uomo sul balcone con urla e parole secche e ritmate, che sembravano venire direttamente da un vecchio cinegiornale Luce. L’agente Berto finì il caffè, aprì un cassetto della scrivania, prese una cartella e la porse all’agente Dario.