Sgombriamo subito il campo da equivoci: per me Love è uno dei dischi dell’anno. Non vi sareste mai aspettati un’affermazione così da uno che ha un blog con quel titolo e quel sottotitolo, da uno che ha iniziato ogni singola puntata di una sua trasmissione con una canzone diversa dei Beatles, eh? Ma ho i miei motivi. Oltre al fatto che i Beatles sono la più grande band mai apparsa sulla faccia della Terra. Ovvio.

Prima di tutto: Love è la definitiva consacrazione del genio di George Martin, prima che dei Beatles stessi. Sir George, il quinto Beatle, chiamatelo come volete: c’è lui dietro al risultato del disco. Insieme al figlio Gilles ha avuto in mano tutti (e dico tutti) i pezzetti di nastro che i Beatles abbiano mai registrato. Stiamo parlando di chiacchiericcio, cazzeggio, le linee vocali di un pezzo, una parte di chitarra di un altro, effetti sonori, fruscii, assoli di batteria, tutto. Considerate anche che i quattro, notoriamente prolifici, sono rimasti in studio per anni, da quando hanno smesso di fare concerti. Bene. Martin conosce perfettamente ogni pezzo di nastro: e grazie, li ha prodotti lui, ma non solo. Non era solo il produttore dei Beatles. Insieme a loro li sentiva crescere, comporre, provare e scartare soluzioni, modificarne altre. Dio solo sa l’emozione che lui stesso ha dovuto provare quando si è ritrovato davanti a quelle migliaia di ore di registrato. Però Martin è inglese, quindi avrà nascosto l’emozione e si sarà messo al lavoro. E già questo riprendere dei brani che sono scolpiti nella memoria di tutti e “sconvolgerli”, in qualche modo, non è qualcosa che ti aspetti da uno che ha ottant’anni suonati e che potrebbe tranquillamente starsene in poltrona a sentire la discografia dei Beatles urlando: “L’ho fatta io, ‘sta roba”. E invece no: si ricomincia. Risultato?
Quello che fa Martin con questo disco è dire a tutte le band del pianeta: toh. Un “toh” lungo ottanta minuti e passa. E’ banale, lo so, ma sentite dei passaggi di “Tomorrow Never Knows” e ci ritroverete tutto il neofolk, sentite la chitarra di “I Want You” che spazza via lo stoner, e certi ritmi che anticipano punk, punkfunk, funkpunk, *unk, e altro. Toh. Per non parlare di quello che Martin ha detto con Love ai “mashuppers” del globo (non riferisco, perché sarebbe volgare e quel gentiluomo di Sir George non apprezzerebbe): mischiare la linea di basso di un pezzo con la batteria di un altro, rallentando o velocizzando le tracce, in maniera perfetta e naturale, creando qualcosa di nuovo e riproponendo qualcosa di ben conosciuto, in un rimando continuo e fluido tra le due (o più) parti.

Già, mettendo mano ai pezzettini di nastro: ma in fondo queste erano cose che lui e la band, in studio, facevano sempre, di continuo. La ricerca sulla produzione, oltre che sui timbri e sulla forma canzone, ha sempre fatto parte dei Beatles: in Love è portata ai massimi livelli, viste anche le possibilità che la tecnologia offre oggi. Comprate la versione cd+dvd: sentire questo disco in surround è un’esperienza, davvero, anche senza drogarsi prima. Credo.
Non voglio arrivare a dire che “se i Beatles fossero tornati in studio” eccetera eccetera, no. Ma questo disco è corretto da un punto di vista filologico e, permettetemelo, “spirituale”: non è “muzak”, non ci sono pacchianate: Love è più divertente di un film, coinvolge e appassiona. E, in fondo, è “solo” musica dei Beatles.
No, non tutta, a dire il vero. C’è una singola cosa che non proviene dai nastri di Abbey Road, una sola. Un nuovo arrangiamento per archi per “While My Guitar Gently Weeps”. L’ha scritto George Martin ex novo. Ma del resto aveva scritto anche la partitura per il quartetto di “Yesterday” e il sestetto di “Eleanor Rigby”. Gli sono riusciti abbastanza bene. E sono sicuro che da qualche parte King George approva, ancora una volta.