Non fatevi ingannare: l’ultimo splendido romanzo di Olivier Adam, Al riparo di nulla, non parla di immigrazione clandestina, ma di una donna. Marie, una casalinga intorno alla quarantina, che abita dalle parti di Calais, ha due figli, un marito e nessun lavoro. Una donna che molla tutto e tutti e si dedica anima e corpo ai derelitti che, perseguitati dal fato e dalla polizia, si accampano sulle coste francesi della Manica per tentare di raggiungere l’Inghilterra. Una figura quasi sacrificale, che ha perso tragicamente una sorella, che abbandona la famiglia ma non riesce a trattenere le lacrime quando vede i suoi bambini, e non nasconde le sue preferenze per uno dei due figli.
Adam racconta spudoratamente attraverso gli occhi e i sensi della donna, e, come al solito, è attraverso le sensazioni delle piccole cose che lo scrittore francese ci incolla alle sue parole e alla vita di Marie, non uscendo mai dal suo punto di vista. Questo è uno dei tratti più notevoli del romanzo: non tanto l’uso della prima persona, ma il profondo calarsi, senza artifici retorici o narrativi, nella mente della donna, presa da un fervore quasi mistico, in apparenza, ma splendidamente contrastato dai puntuali (e non verbosi) resoconti di quello che vede, tocca, sente e ricorda. Sembra di stare con lei sulla spiaggia di Calais, leggendo ci si sporca di sabbia e fango, e si sente la puzza dei migranti. Migranti che, in larga parte, non sono gentili e buoni, ma schivi e rabbiosi come bestie in fuga. Ma solo a tratti, chiudendo il libro per eccesso di emozioni, ci rende conto che anche noi democratici e progressisti lettori, vedremmo l’afflato di Marie come una pericolosa discesa verso la follia: cosa che non accade finché restiamo appiccicati alle pagine, finché non siamo Marie. Ma sorge un altro dubbio: Marie vuole veramente aiutare qualcuno o vuole semplicemente dare un significato qualsiasi alla propria vita, vuole agiredi nuovo, vuole essere di nuovo la madre che nutre e protegge? Non è esagerata, quasi consumistica nel suo dare, nel comprare ai figli regali che non si può permettere, come per prepararli all’abbandono e a dare loro dei sostituti del suo amore, della sua presenza? Marie non è forse la coscienza sporca dei ricchi (lei, che è senza lavoro e con il conto in banca in rosso, ma tutto è relativo) quando fanno beneficenza e aiutano i-negretti-dell’Africa per colmare distanze e sensi di colpa?
Adam non dà risposte, lanciando una pietra rumorosa e pesante nel nostro immoto, apparentemente cristallino stagno occidentale, nel quale crediamo di sguazzare liberi. Bella forza. Quello non è il mare profondo, pericoloso, agitato, che viene attraversato (spesso senza successo) da iracheni, afghani, curdi, senegalesi, nigeriani, iraniani. Viviamo in una piscina di acqua marcia e immobile senza sentirne il fetore, in una pozza che luccica, che però, e questa è la nota agghiacciante, è da secoli un miraggio per gli altri, chiunque essi siano.

Uno di loro è andato a lavarsi. Gli altri sono rimasti immobili e silenziosi intorno al tavolo. Si mangiavano le unghie oppure si grattavano la testa sotto il lampadario di vetro. Certi tossivano, ma non si capiva bene se per un raffreddore o per l’imbarazzo di starsene lì ad aspettare di essere sfamati. Oppure era la polvere che ricopriva ogni cosa, il grande divano di velluto verde, i tappeti di pelle di vacca, la batteria di pentole di rame, i mazzi di fiori secchi, i centrini. Sul tavolo c’era una bottiglia di syrah appena iniziata. Ho riempito qualche bicchiere, ma nessuno ne ha voluto. Sulle prime ho pensato che non osassero, che fossero troppo timidi. Ma non era questo. Semplicemente, essendo musulmani, non bevevano alcool e non mangiavano carne di maiale. Ovvio. (Olivier Adam, Al riparo da nulla, Bompiani, Milano, 2009, p. 92. Traduzione di Maurizia Balmelli.)