Esattamente cinque anni fa scrivevo di Lunar Park: era una svolta nella carriera di Bret Easton Ellis, ma nel senso di una sterzata che ti fa pensare “E ora?”. L'”ora” è uscito qualche mese fa, ma sono riuscito a leggere Imperial Bedrooms solo oggi: talvolta le influenze – intese come malanni stagionali – servono a qualcosa. Guardando il libro pare che la risposta alla domanda “E ora?” sia contenuta nella fascetta: “Meno di zero venticinque anni dopo”, recita, richiamando il romanzo d’esordio dell’allora ventunenne Ellis. E lo stesso autore ha definito questo ultimo romanzo un sequel. Ma possiamo essere certi delle dichiarazioni di uno dei più grandi (e manifestatamente pazzi) tra gli autori americani contemporanei? Certo, tanto quanto ci si può fidare della veridicità delle battute che fa pronunciare ai suoi personaggi.
Ci sono, nel nuovo romanzo, gli stessi protagonisti del primo: Clay, il narratore, è un mediocre sceneggiatore. Trent ha sposato Blair, Rip è completamente rifatto e predilige ragazze barely legal, Julian continua a pensare che soldi e sesso vadano a braccetto, sebbene si sia ripulito. Il panorama è la Los Angeles del mondo del cinema, tra residence di lusso, feste di produttori e provini. E già sfumano, o quantomeno non sono più così fondamentali, i legami con Meno di zero: si rafforzano, invece, quelli con Lunar Park, soprattutto nel momento in cui Clay parla dello scrittore del romanzo che, venticinque anni prima, vedeva lui e i suoi amici al centro dell’intreccio. Ecco che ritorna la molteplicità di strati del libro uscito cinque anni fa. Ma allora, cosa c’è sotto Imperial Bedrooms? Prima di tutto c’è la volontà di proseguire un discorso importante nella bibliografia di Ellis, ben evidente anche in Glamorama: la riflessione intorno alla paranoia. Attraverso le descrizioni dei deliri (“in contesto di lucidità e con capacità cognitive integre”, come dice la definizione del termine) dei protagonisti degli ultimi tre romanzi, Ellis fa emergere il vero tratto distintivo dell’inconscio collettivo americano. Anzi, lo rende quasi esplicito in un passaggio in cui descrive un comportamento di Rain, la ragazza di cui Clay a suo modo si invaghisce.
(…) noto come la guardano i colleghi, e anche parecchi altri uomini che vagano per i negozi, e anche lei se ne accorge e cammina svelta, tirandomi per mano, mentre fa finta di parlare del più e del meno al telefono, una forma di autodifesa, un modo per combattere quegli sguardi facendo finta che non esistono. Quegli sguardi sono il triste e continuo promemoria della vita di ogni bella ragazza di questa città (…) (pp. 48-49)
Essere al centro dell’attenzione, sempre e comunque: una condizione nella quale gli Stati Uniti, spesso per la loro stessa volontà, hanno vissuto da secoli. Questo porta a vulnerabilità, soprattutto quando si scopre di non essere invicibili, e che attacchi come quello di Pearl Harbor possono essere replicati in forma anche più distruttiva e subdola. Scatta immediatamente, quindi, la mancanza di fiducia (un’altra parola ricorrente in filigrana nelle pagine di Ellis) e, di conseguenza, un comportamento velatamente o esplicitamente paranoico, che dà luogo alla paura costante. In Imperial Bedrooms il protagonista è spesso fisicamente impaurito: gli tremano le mani, si piscia addosso, gli manca il respiro. Ma il suo primo istinto è quello di non sapere, di costringersi a fare finta di niente, o meglio di continuare a credere che le cose vadano come dovrebbero andare. E di annegarsi in droga e alcol per trovare una dimensione confortevole: un comportamento che, in effetti, lega i personaggi dello scrittore americano da venticinque anni a questa parte. “We know who you’re with and where you are”, recita “Imperial Bedroom”, di Elvis Costello (sua è anche una canzone che si intitola “Less Than Zero”). Quindi, Imperial Bedrooms è l’ennesimo trattato sulla paranoia di un Paese sull’orlo del collasso. O no?
Secondo un altro dei personaggi del romanzo, le persone si rivolgono a Clay perché “è uno che aiuta gli altri”. Che “gli altri” siano sempre delle giovanissime attrici, attraenti e disponibili, fa logicamente pensare che alla fine Clay pensi fondamentalmente ai fatti suoi. Un concetto che si esplicita anche alla fine del libro: “Le persone mi fanno paura”, dice il protagonista, concludendo il romanzo su una parola di cui abbiamo sottolineato l’importanza. Ma attenzione: Clay è uno sceneggiatore alle prese con i provini per un film che ha scritto e di cui sarà il produttore: il titolo è The Listeners. Torniamo al vero Bret Easton Ellis: due anni fa è uscito The Informers, un film tratto dalla raccolta di racconti omonima (tradotta in italiano con il demenziale titolo Acqua dal sole). Dopo avere lavorato con passione alla sceneggiatura, Ellis si è visto stravolgere il progetto da un cambio di regista: il risultato pare che sia catastrofico. Allora, forse, Imperial Bedrooms è molto più “egocentrico” di quanto potesse sembrare: esattamente come Ellis ha tentato di scrivere la sua storia per poi vederla danneggiata dalla produzione, Clay cerca disperatamente di seguire uno schema nella sua vita, di mantenere un ordine o quanto meno una logica degli eventi plausibile, mentre tutti gli altri personaggi rimaneggiano e rimodellano la trama di cui fa parte. Ellis, scontrandosi con il mondo del cinema, scopre che il suo ruolo è subordinato ad altri, nonostante sia lui, lo scrittore, a fornire la materia prima della narrazione, sia essa pur svolta per immagini. Ma gli altri, tutti gli altri, contano di più.
– Voglio stare con te, – dico.
– Non succederà mai, – dice, voltandosi dall’altra parte.
– Per favore, smettila di piangere.
– Non faceva parte dei piani.
– Perché no? – chiedo. Premo due dita su entrambi i lati della bocca e costringo le sue labbra a sorridere.
– Perché tu sei solo lo scrittore.
(p. 134)
Forse Ellis sta solo raccontando nuovamente se stesso, o ci sta solo dicendo che non ha fatto altro, oppure è davvero un fedele cantore del collasso degli Stati Uniti. O forse ci sta solo prendendo in giro, con buona probabilità di riuscirci. In fondo, noi siamo solo i lettori.
La traduzione del romanzo, edito da Einaudi, è di Giuseppe Culicchia.
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