La musica da sentire per Maps è talmente tanta che ci si dimentica di quella che si vorrebbe sentire. Per fortuna ho passato un fine settimana praticamente da recluso, dedicato (tra le altre cose) all’alienante “restauro” del blog (sono arrivato al gennaio 2005, urrà): ne ho approfittato per ascoltare dischi passati in secondo piano, poiché poco adatti alla programmazione della mia trasmissione. Sebbene ne abbia sentiti diversi, uno solo ha veramente destato la mia attenzione: è il nuovo album di un giovane pianista tedesco, Nils Frahm, intitolato Felt, uscito da poche settimane per la Erased Tapes.

Felt è un pianista classico di formazione, ma che ha presto dimostrato un interesse per ambiti più sperimentali e ha incontrato sul suo cammino, come spesso accade, l’elettronica. Ma il punto di partenza e nucleo di Felt è di tutt’altro tipo: l’album nasce dall’esigenza del berlinese di non svegliare i suoi vicini mentre suonava di notte. Come fare?

Con lo stesso meccanismo che mette in azione la sordina, il pedale centrale che hanno alcuni pianoforti verticali: premendolo, un panno di feltro si interpone tra i martelletti e le corde. Il suono viene attutito, creando degli effetti di risonanza molto particolari, quanto spesso difficili da cogliere, a meno che uno non ponga i microfoni molto dentro al piano, avendo poi l’accuratezza di essere particolarmente delicati nel suonarlo.

Ciò è esattamente ciò che fa Frahm, portandoci letteralmente all’interno del suo pianoforte, tra gli scricchiolii dei tasti, i crepitii del legno e i fruscii che avvolgono l’ascoltatore tanto quanto le melodie delle nove tracce del disco.

Queste non sono del tutto minimali, come si potrebbe pensare: usando altri strumenti, nastri e registrazioni d’ambiente, Felt suona come un album ricco nella sua semplicità, talvolta commovente senza essere ricattatorio. Certo, Frahm sussurra e respira piano, ma c’è una precisa dinamica costruita dall’ordine delle tracce, tanto che la sensazione di essere in quell’appartamento berlinese cresce con il passare del tempo, o con lo scorrere della notte.

Fino a che, all’ultimo brano, “More”, il musicista osa e aumenta la forza del suo tocco: non gli importa se i vicini si svegliano, è quasi l’alba. E se davvero hanno dormito, non sanno cosa si sono persi.

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