recensione

Dagli archivi: Bill Fay – Who Is the Sender?

Bill Fay – Who Is the Sender? (Dead Oceans)

9

Altri ascolti raccomandati
Bill Fay – Bill Fay
Bill Fay – Time of the Last Persecution
Bill Fay – Life Is People

Niente preamboli: il quarto album del musicista britannico è splendido, come il precedente Life Is People, che aveva interrotto un silenzio di quattro decadi. La squadra è la stessa, a partire dal produttore Joshua Henry: ma se le registrazioni di allora durarono un mese, qui Fay e i suoi hanno occupato gli studi londinesi di Ray Davies per un paio di settimane scarse. Incredibile, data la qualità sopraffina delle canzoni e degli arrangiamenti: Who Is the Sender? è uno degli album meglio composti e suonati che possiate sentire, ma accorgetevene dopo qualche ascolto.

Lasciate prima che i suoni e le parole vi rapiscano, infondendovi il senso di meraviglia, mistero e speranza che era tutto racchiuso in “The Healing Day” di Life Is People: quella è la canzone “ponte” tra i due album, entrambi (come del resto anche gli altri lavori di Fay) intrisi di una spiritualità più vicina alla sacralità naturale che a dogmi e rituali. Si cita indirettamente la Prima Lettera ai Corinzi in “Something Else Ahead”, compare un riferimento cristologico in “Order of the Day” e anche il “sender” della struggente title-track potrebbe essere interpretato in senso religioso. Ma, oltre la Natura, per Fay è sacro l’Uomo, con tutte le sue debolezze (“A Frail and Broken One”), la sua violenza (“War Machine”), la sua irrequietezza (“Bring It On Lord”) e soprattutto la sua musica, dono e fonte di speranza.

L’affresco sonoro dipinto dal piano di Fay assieme agli archi, talvolta accompagnati da un organo, fiati, lampi di chitarra elettrica, bassi elettrici e non e accortissime percussioni è commovente. E c’è tempo, alla fine dell’album, per riprendere “I Hear You Calling”, da Time of the Last Persecution: ci piace pensare che la fabbrica sul cui pavimento giace il narratore sia la stessa che vedono le oche dall’alto nell’apertura di questo Who Is the Sender, “The Geese Are Flying Westward”: una vertigine dello sguardo che abbraccia il tempo e lo spazio e proietta ancora una volta Bill Fay tra i grandissimi della musica.


Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: A Place to Bury Strangers – Romare. Locomotiv Club, Bologna, 17 aprile 2015

La rassegna Murato, nel suo penultimo appuntamento stagionale, porta al Locomotiv due nomi molto diversi tra loro, in una serata che è nettamente divisa per suoni, pubblico di riferimento e atmosfera.

Si comincia con l’unica data italiana (sold out) degli A Place to Bury Strangers: la band “più rumorosa del mondo” raccoglie non solo il pubblico di Bologna e della Regione, ma anche di Veneto e Toscana. “We’ve Come So Far” è il brano di apertura: Oliver Ackerman inizia da solo, poco dopo raggiunto sul palco da Dion Lunadon al basso e Robi Gonzalez alla batteria. I tre sono perfettamente amalgamati nel riprodurre sul palco l’alchimia creativa di Transfixiation: gran parte della scaletta è costituita dai brani dell’ultimo album del gruppo, scritto da tutti e tre i musicisti proprio pensando alla resa dal vivo.

Entro poco il Locomotiv è invaso dal fumo e dalle luci stroboscopiche: il bilanciamento dei suoni si affina e il concerto diventa una sorta di vortice audiovisivo che coinvolge i partecipanti nonostante il terrorismo da decibel che precede la fama della band non si concretizzi mai davvero. Non sono i volumi (per quanto alti) a emozionare, ma la perizia che il trio dimostra sul palco… e in platea, visto che (come accade ormai di consueto) il finale del live è suonato dal mezzo del locale, con i musicisti attaccati a due amplificatori, una drum machine e un rack dal quale partono laser colorati. Come se il vortice di cui sopra si fosse ridotto e i tre l’avessero letteralmente portato in mezzo al pubblico, creando una fucina elettrica in platea.

Con la seconda parte della serata si volta pagina: un solista prende il posto del trio e il rock cede il passo all’elettronica. Romare è venuto in città a farci scoprire il suo album Projections, uno degli ultimi colpi messi a segno dalla Ninja Tune. Il giovane musicista britannico, alle prese con vari macchinari, sorride timido e riconoscente al pubblico (nettamente più sparuto rispetto alla prima parte della serata, ma del resto l’ora inizia a essere tarda), snocciola brani tratti dal disco e dal precedente ep accompagnato da proiezioni che hanno due soggetti che si ripetono spesso: Robert Johnson e Chet Baker, quest’ultimo raffigurato in varie fasi della sua vita e anche in scene dello pseudo-biopic All the Young Fine Cannibals.

Rispetto all’album il live è molto più orientato al ballo e al divertimento: dal vivo Romare è meno intimista che nei pezzi in studio, i brani vengono lustrati un po’ dove serve e opportunamente interrotti e ripresi a cavallo del climax di ognuno, con uno stratagemma tipico e consolidato, ma che alla lunga mostra un po’ la corda. Il talento c’è, lui deve solo cercare di non accontentarsi sul palco, esattamente come non lo fa su disco: per quanto il concerto sia stato coinvolgente, si sono notate delle piccole incertezze soprattutto nella scorrevolezza del set. In conclusione, ci permettiamo un consiglio: usare il campionamento di una trombetta da stadio è divertente la prima, la seconda e la terza volta, ma dalla quarta in poi diventa un inutile tormentone.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Eels – Royal Albert Hall

Eels – Royal Albert Hall (E Works / PIAS)

7,5

Mr E e soci sono tornati alla Royal Albert Hall di Londra il 30 giugno 2014, quasi dieci anni dopo il tour “Eels with Strings”. In questo caso, però, la band ha usato – benissimo – solo le sue risorse per dare talvolta alle canzoni (per lo più tratte dall’ultimo disco) nuovi arrangiamenti, senza rimanere intimidita da quello che è uno dei templi della musica.

Everett bacia le assi del palco calcate da John Lennon, si fa amabili beffe del botta e risposta incomprensibile tra band e pubblico, si getta in abbracci senza fine con la gente in platea e si lamenta che per ben due volte gli è stato vietato di suonare l’imponente organo a canne della venue londinese. Sarà vero? La sorpresa finale è una delle chicche di questo settimo live degli Eels, fornito integralmente su due cd e un dvd.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Alessio Bondì – Sfardo

Alessio Bondì – Sfardo (Malintenti Dischi / 800A Records)

7,5

L’esordio di Alessio Bondì comincia con una giocosa filastrocca che pare venire da epoche antiche: però quando il musicista palermitano rassicura il bambino a cui “Di cu si” è rivolta cantando che se batte le mani “veni puru spaidermè”, il tempo fa una capriola in avanti, il vecchio diventa il nuovo e anche noi ascoltatori veniamo sorpresi da un risolino di pura gioia. Ecco, Sfardo è un disco che fa bene, anche nei momenti più lirici e dolenti che pure ci sono: del resto il titolo vuol dire “strappo” in palermitano, la lingua delle dodici tracce dell’album.

Sebbene il libretto riporti accuratamente la traduzione dei testi (con note!), non è indispensabile conoscere il dialetto per godere del disco: per Bondì la lingua dev’essere usata con la stessa accortezza riservata ai suoni che sono tanti, ma mai fini a se stessi. Sfardo rende struggenti sogni angoscianti (“In funn’o mare”) e dà credibilità e senso comico a una situazione da Fred Buscaglione in trasferta alla “Vucciria” usando intelligentemente i generi: la quasi psichedelia di “Un pisci rintr’a to panza”, i numerosi richiami alla musica brasiliana e portoghese, così come gli ovvi rimandi al folk, non sono mai semplici sostegni o imitazioni. Insieme alla lingua, sono i mezzi necessari, gli unici vestiti possibili per canzoni che vi sembrerà di conoscere da quando eravate piccoli.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Nils Frahm – Solo

Nils Frahm – Solo (Erased Tapes)

7,5

Il primo Piano Day della storia è un’idea del musicista berlinese che ha deciso di festeggiare “fino a che il sole esploderà” l’ottantottesimo giorno dell’anno (il numero non è casuale, tanti sono i tasti del pianoforte), regalando il 29 marzo via Twitter un nuovo disco solista, l’undicesimo in dieci anni. I tre quarti d’ora dell’album sono l’estratto di nove ore di improvvisazione registrate nel gennaio 2014 su un M370, prototipo di pianoforte verticale alto più di tre metri e mezzo. E i ricavi della vendita delle copie fisiche di Solo servono a finanziare un’altra impresa del costruttore David Klavins, l’M450, che raggiunge i quattro metri e mezzo di altezza.

Frahm rimane insomma un sognatore e uno sperimentatore che tuttavia non perde mai di vista la musica: gli otto brani del disco (più placidi i primi, più incalzanti gli ultimi) proseguono la ricerca sul suono (stavolta senza elettronica) e sulla forma. Richiami impressionisti si intrecciano a momenti percussivi, la melodia talvolta si sposta dalla ribalta, lasciando lo spazio ad accordi distesi e all’ambiente. La peculiarità del pianoforte gigante è sfruttata al massimo, i microfoni ci fanno sentire scricchiolii, armonici e ogni minima variazione dinamica. E Nils Frahm, seguitando a non sbagliare un colpo, si conferma uno dei musicisti migliori dell’ultimo decennio.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Inventions – Maze of Woods

Inventions – Maze of Woods (Bella Union)

7,5

“I wanted to do something that I don’t know how to do”, si sente nella traccia d’apertura del nuovo disco degli Inventions: ma Mark T. Smith (Explosions in the Sky) e Matthew Cooper (meglio conosciuto come Eluvium) sanno il fatto loro, tanto da produrre un lavoro più riuscito dell’esordio di poco meno di un anno fa. Il duo prefigura strade nuove, prendendo spunto da ciò che ha consolidato (il singolo “Springworlds” è in linea con il self-titled), senza paura di continuare a sperimentare con i beat (“Escapers”) o di esprimere in maniera più definita i propri caratteri timbrici peculiari. Ecco quindi scorrere l’una nell’altra parti più basate sul rumore e il piano di Eluvium (“Moanmusic”) e altre in cui le chitarre spaziali di Smith prendono il comando.

Ma la vera novità del disco è la presenza dell’elemento vocale in quasi tutte le tracce: la voce-strumento (spesso sotto forma di campionamenti e loop) è usata in maniera estremamente versatile e si limita a fare da punteggiatura, diventa aria d’opera o si tramuta in un dolce ululato (“Wolfkids”). Maze of Woods documenta in maniera affascinante la ricerca sonora di due musicisti che continuano a dimostrare una coesione e un affiatamento invidiabili, anche e soprattutto quando gli intrecci che creano formano labirinti sonori verso i quali l’ascoltatore è irrimediabilmente attratto e nei quali si perde piacevolmente.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di marzo 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Matthew E. White – Fresh Blood

Matthew E. White – Fresh Blood (Domino)

8

Altri ascolti raccomandati
Matthew E. White – Big Inner
Dusty Springfield – Dusty in Memphis
AA VV – Atlantic Rhythm & Blues 1947-1974

Tre anni dopo Big Inner, Matthew E. White ci regala un altro bel disco: Fresh Blood è più pensato del debutto, ogni brano è lavorato finemente e arrangiato con gusto. Ciononostante il nuovo lavoro del musicista di Richmond non suona laccato o falso: rischi che poteva correre ognuna di queste dieci tracce che si muovono tra americana, soul e r’n’b, con pochissima elettricità e senza un briciolo di elettronica. In fondo, ogni disco che mostra chiaramente quali siano i suoi antenati (l’albero di famiglia è ben rappresentato in dieci ore dalla splendida raccolta Atlantic Rhythm & Blues) può risultare una goffa imitazione del passato. White e i suoi musicisti (la house band dell’etichetta, Trey Pollard, Cameron Ralston e Pinson Chanselle) invece ci credono davvero, dimostrano la maturità raggiunta insieme e usano sapientemente ogni singolo elemento di ogni canzone, dalle dinamiche alle partiture per archi, dai raddoppi delle voci alle linee di basso, per creare una narrazione fluida e coesa.

Dall’apertura con “Take Care My Baby”, in cui la voce di White mormora incerta parallelamente al lento entrare degli strumenti (archi e fiati, oltre a piano, basso, chitarra e batteria: gli ingredienti sono questi), fino alla chiusura con il rhythm and blues classico e gentile di “Love Is Deep”, l’album regala momenti più divertenti (il singolo “Rock and Roll Is Cold”), altri più scuri (“Holy Moly”), sposando un soul orchestrale che si concede precise punte di elettricità, come in “Tranquillity”, uno dei pezzi chiave del disco. Sembra di esplorare le stanze di una casa, che, com’era accaduto nell’esordio, ci ricorda quella che sembra dischiudersi all’ascoltatore di What’s Going On di Marvin Gaye: una casa che odora di legno e polvere, tra le cui solide pareti si parla più d’amore che di politica. I tempi sono cambiati, del resto, ma il presente, se ci offre dischi del genere, non è poi così male.

Dagli archivi: Cannibal Ox – Blade of the Ronin

Cannibal Ox – Blade of the Ronin (IGC Records)

5,5

Basta confrontare la prima traccia del debutto del duo di Harlem con la intro di questo nuovo disco per capire che i 14 anni intercorsi tra lo splendido The Cold Vein e il fiacco Blade of the Ronin hanno decisamente cambiato le cose per Vordul Mega e Vast Aire (qui decisamente in primo piano rispetto al partner). Ciò che manca, soprattutto, è la ricerca dei suoni: nel 2001 i due raccontavano la loro NYC con distorsioni, squittii elettronici e bordoni inquietanti.

Le musiche del nuovo album, invece, sono un impasto troppo pacificato e poco convinto tra il tentativo di ricreare beat e basi del passato (che però allora erano, perdonateci il gioco di parole, all’avanguardia) e di tendere un orecchio ai suoni d’oggi. Il tutto sotto la produzione di Bill Cosmiq che, non ce ne voglia, fa il suo, ma non è l’El-P a cui The Cold Vein deve molto. Diciannove tracce che si srotolano lungo un’ora di disco, che avrebbe guadagnato molto da una sfoltitura, anche della guest-list: tra i featuring di Double A.B., Kenyattah Black, The Artifacts, U-God, eLZhi, Swave Sevah, Space, Elohem Star, IRealz, forse solo quello di MF Doom in “Iron Rose” si fa ricordare in qualche modo. Ma quella canzone, che vorrebbe riprendere la prima traccia con cui abbiamo conosciuto i Cannibal Ox, “Iron Galaxy”, ne è una pallidissima parente. Insomma, speravamo qualcosa di più.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: La Batteria – ST

La Batteria – ST (Penny Records)

6

la batteriaEmanuele Bultrini, Paolo Pecorelli, Stefano Vicarelli e David Nerattini sono musicisti romani con un bel curriculum alle spalle: i primi tre suonano anche ne La Fonderia che, come questa neonata band, è principalmente strumentale. La Batteria si rifà alla musica italiana da film e da library prodotta tra la fine dei ’60 e i primi anni ’80: un periodo ultimamente più che sfruttato, a cui i musicisti guardano con fin troppo rispetto. Strumentazione d’epoca, progressioni armoniche filologicamente corrette e, tutto sommato, poche sorprese. Colpiscono “Chimera”, traccia iniziale con echi folk, e “Formula”, che si apre e si chiude con un synth quasi carpenteriano. Speriamo che le influenze più variegate di cui parla il comunicato stampa erompano con più coraggio in una seconda prova.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di febbraio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Dodos – Individ

The Dodos – Individ (Morr Music)

7

Al sesto disco i Dodos aumentano la posta: le percussioni di Logan Kroeber sono più variegate, massicce e incalzanti, le chitarre di Meric Long passano sovente attraverso pedali, si riproducono in loop, costruiscono strati spessi e densi. Alcuni brani del precedente Carrier avevano questa caratteristica, ma erano immersi in una generale leggerezza che abbiamo amato sin dal secondo disco del duo di San Francisco, quel Visiter che rimane tuttora la loro prova migliore. In Individ le proporzioni sono rovesciate a partire dalla lunga canzone che apre il lavoro, “Precipitation”: giochi sul pedale del volume, linee di chitarra una sull’altra, la voce di Long che raddoppia, poi un’acustica, in un crescendo lungo e sentito fino a un deciso cambio di tempo.

Si prosegue in maniera quasi marziale fino al quarto brano in scaletta. “Competition”, che insieme a “Goodbye & Endings” ha avuto il compito di anticipare l’album, è il trait d’union con il suono tipico dei Dodos: il ritmo rallenta un po’ a metà album, i suoni si semplificano. Il resto (recita il comunicato) “suona come essere all’interno di un tornado”, proprio quello che si allontanava dall’uomo raffigurato nella copertina del lavoro precedente. Qui la copertina è stracolma di colori e linee (e il tratto ricorda curiosamente quello di Fellini). Insomma, un buon disco, per quanto un lavoro di cesello avrebbe permesso risultati ancora migliori.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

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