recensione

Dagli archivi: John Garcia – ST

John Garcia – John Garcia (Napalm Records), 25 luglio 2014

7

Ho ascoltato John Garcia nell’ora più afosa di una delle giornate più infuocate di giugno, amplificando l’effetto del disco stesso. Fin dalla traccia di apertura “My Mind”, infatti, l’inconfondibile voce dell’ex-Kyuss (ma anche Unida, Hermano, Slo Burn, fino all’ultima incarnazione Vista Chino) mette addosso il caldo soffocante, massiccio e allo stesso tempo rassicurante del deserto statunitense. Luoghi che, a dire il vero, non ho mai visto, ma che ormai associo a certi suoni di chitarra e, appunto, al timbro vocale di Garcia sin da quando ho sentito per la prima volta Welcome to Sky Valley, vent’anni fa.

Potrebbe sembrare noioso parlare ancora dei Kyuss, ma per quanto nel disco ci siano tentativi di addentrarsi più decisamente in territori blues (“The Blvd.” e soprattutto “Confusion”, per sola chitarra) e l’inaspettata sei corde pulita di Robby Krieger dei Doors nella conclusiva “Her Bullets Energy”, Garcia e soci (Danko Jones, Tom Brayton, Mark Diamond e, uh!, Nick Oliveri) battono ancora (bene) i sentieri tracciati agli inizi degli anni ’90. Per chi le ha amate, percorrere quelle strade è una piacevolissima e torrida avventura ancora oggi. Chi, invece, non le ha mai potute sopportare, be’, continuerà a lamentarsi del caldo, del sole accecante e della sabbia nelle scarpe, mentre noi faremo su e giù con la testa, felici e sballati.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: To Rococo Rot – Instrument

To Rococo Rot – Instrument (City Slang), 21 luglio 2014

8,5

Altri ascolti raccomandati
To Rococo Rot – The Amateur View
Arto Lindsay – Encyclopedia of Arto
The Notwist – Neon Golden

La mutua ammirazione tra Arto Lindsay e la band strumentale tedesca nasce qualche anno fa: il musicista rimane colpito dal primo live newyorkese del trio al punto di scrivere, qualche tempo dopo, un elogio dei To Rococo Rot sull’edizione tedesca di Electronic Beats, in occasione della ristampa di Veiculo, The Amateur View e Music is a Hungry Ghost, lodando l’approccio sperimentale del gruppo.

E, quattro anni dopo Speculation, la band chiede a Lindsay di suonare e cantare nel nuovo album: la richiesta è di lavorare insieme esclusivamente in studio, al momento, creando le melodie da zero. Un azzardo, certo, ma è impressionante quanto il contributo di Lindsay si amalgami dolcemente con i luoghi sonori creati da Robert Lippok alla chitarra e elettronica, dal fratello Ronald alla batteria e da Stefan Schneider al basso.

“Many Descriptions”, la traccia di apertura, è sintomatica del proverbiale (e spesso mancato) equilibrio tra riconoscibilità e innovazione, chimera di tanti, sul quale si regge tutto Instrument. Perché è come se la voce e la chitarra di Lindsay fossero una sorta di tassello mancante: qualcosa che dà ancora più forza ai brani, pur preservandone la paternità. Il musicista tuttavia non può essere considerato solo uno special guest: basti pensare a come, nel finale di “Classify”, il suo cantato si spezzetti in sillabe e sussurri diventando un effetto nelle mani di Robert Lippok, o alla conclusiva “Longest Escalator in the World”, dove la sua chitarra porta l’ascoltatore a vette davvero toccanti.

Tuttavia anche quando i tre rimangono “da soli”, Instrument procede benissimo: ci sono momenti più inaspettati e uptempo, come “Pro Model”, che sfrutta piccoli beat e sequenze digitali, e la quadratissima “Spreading the Strings”, costruita su una cadenzata e minimale melodia al pianoforte. “Down in the Traffic” e “Baritone”, dal canto loro, non ci fanno scordare la provenienza germanica del gruppo, che non è mai parso così fresco e innovativo da diversi anni a questa parte.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Acid – Liminal

The Acid – Liminal (Infectious Records), 7 luglio 2014

7

Il segreto è stato svelato dopo l’uscita dell’ep che ha preceduto questo album di debutto: ormai si sa che dietro a The Acid ci sono Ry X (alla voce, spesso sussurrata, tra il confidenziale e l’inquietante, autore di un buon ep, Berlin), Adam Freeland (quello di “We Want Your Soul”) e Steve Nalepa (professore di “music technology” e compositore lui stesso, recentemente definito da LA Weekly come “the professor of party”). Potrebbe sembrare i tre siano stati messi apposta insieme in un’operazione quasi da reality: ma la Infectious non è una major e i tempi di certo non sono adatti a trovate del genere.

Certo, la ricerca dei suoni, dei beat, la commistione à la alt-J (non a caso compagni di etichetta) di elettronica e analogica, il vocoder e l’autotune sdoganati da James Blake che ritornano… Insomma, il sospetto che si tratti di qualcosa costruito a tavolino c’è, ma c’è anche la buona musica del trio, che forse non supererà la prova del decennio, ma che per ora è qualcosa di interessante da ascoltare. La chitarra acustica si scambia con i synth nel ruolo da protagonista di alcuni brani (“RA” e “Basic Instinct”), la voce di Ry X si moltiplica in “Red” e i pezzi (spesso cupi e misteriosi) sono sporcati da rumori e ruvidezze, come in “Ghost”. Un debutto forse per gioco, che magari non avrà seguito, d’accordo: ma intanto perché non goderne?

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Mark Kozelek – Live at Biko

Mark Kozelek – Live at Biko (Caldo Verde), 1 luglio 2014

Live at Biko, dal locale di Milano dove si è tenuto il 6 aprile, raccoglie quattordici tracce che provengono per lo più da Benji, ma anche da Admiral Fell Promises e da Perils from the Sea, il risultato della collaborazione di Mark Kozelek con Jimmy Lavalle. L’album live esalta la bellezza dei brani, anche quando sono interrotti sorridendo “perché non funzionano in Italia” (“I Love My Dad”), ma permette soprattutto di sentire il nostro che scherza e chiacchiera con il pubblico, lodando True Detective (a parte l’ultimo episodio) e minacciando di spaccare la faccia ai ragazzi che gli dovessero chiedere quando esce il disco in vinile. “Con le ragazze, per un po’, ci parlerei”. E poi ne cazzia un paio per avere parlato su “Dogs”. Grande, grandissimo, Kozelek.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Black Sabbath, Unipol Arena, Casalecchio di Reno (BO) – 18 giugno 2014

 

Black Sabbath Bologna 2014Dopo l’annullamento della data di Milano, i Black Sabbath riempiono il Palasport di Casalecchio proponendo un live potente, dall’impatto visivo tutto sommato sobrio, ma efficace. C’è la musica e la presenza. E una scaletta che guarda al primo lustro di produzione della band, o poco più.

“I can’t fuckin’ hear you”, ripete infinite volte Ozzy Osbourne agli undicimila che affollano il palasport alle porte di Bologna: insieme a lui i fedeli Geezer Butler al basso e Tony Iommi alla chitarra, dietro il tecnicissimo e potente Tommy Klufetos, batterista tra gli altri anche di Rob Zombie e dello stesso Ozzy. Il leader di una delle band più influenti e importanti degli ultimi cinquant’anni o giù di lì cerca continuamente il coinvolgimento della folla, non sempre caldissima, per quanto estasiata di vedere tre quarti dei Black Sabbath suonare bene per un’ora e quaranta.

A partire da “Iron Man”, per finire con “Paranoid”, impressiona infatti vedere quanto la band regga la prova con il tempo. La scaletta percorre i primi titoli della discografia degli inglesi, scegliendo tra le ultime canzoni solo il primo singolo di 13, “God Is Dead”: un’anomalia, confrontando le setlist di questo tour. Ma è confermato, anche nell’unica data italiana, il trittico “Black Sabbath”, “Behind the Wall of Sleep” e “N.I.B.”: una triade che segna il picco assoluto del concerto, suonata benissimo e cantata bene.

Già, perché, se proprio vogliamo trovare un problema, sta nella voce di Ozzy, ovviamente, spesso non all’altezza (anche nel senso proprio di intonazione) delle prove degli altri tre, davvero eccellenti. D’altro canto, l’ex-macellaio di Birmingham non è mai stato un cantante vero, no? Fa quello che deve fare: compare vestito di nero mantello, che abbandona presto, introduce “Snowblind” (quella che fa cantare a tutti “Cocaine”) rassicurandoci che quelle cose non le fa più, agita le braccia (non proprio agilmente), abusa di f-words, ci dice che siamo i numeri uno. E ripete che non ci sente urlare abbastanza, appunto. Arriva quasi a essere minaccioso, verso la fine del live: ma quando parte “Children of the Grave”, non c’è bisogno che ci ordini che dobbiamo diventare matti. Lo diventiamo.

Un “Let’s go fuckin’ crazy” introduce anche “Paranoid”: no, a dire la verità la canzone, creata come riempitivo del secondo album e diventata il più grande successo della band, è preceduta dall’intro di “Sabbath Bloody Sabbath”. Come a dire: “Abbiamo un repertorio talmente vasto di grandi pezzi che possiamo farne ciò che vogliamo”. Chapeau.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Veivecura – Goodmorning Utopia

Veivecura – Goodmorning Utopia (La Vigna Dischi), 15 maggio 2014

7,5

Chissà cos’è successo di felice al siciliano Davide Iacono: il titolare del nome Veivecura, infatti, ha pubblicato quattro anni fa Sic Volvere Parcas, primo capitolo piuttosto scuro di una trilogia che è proseguita nel 2012 con le aperture di Tutto è vanità e si conclude oggi con Goodmorning Utopia. Ce lo chiediamo perché i toni di questo ultimo bel disco sono decisamente più solari e pacificati di quanto siamo stati abituati a sentire. Costruito intorno a sei canzoni più tre suite divise in parti e intitolate “Utopia”, l’album si concede derive decisamente più libere e leggere del solito, come in “Utopia I-II-III” dove compare anche un sax, o nella riuscita (e pop) “Oxymoron”.

Nel disco si colgono i segnali della maturità del suo principale artefice, che ha costruito in questi anni una narrazione non banale e decisamente sui generis. Sì, il modello è quello in filigrana di band diversissime tra loro, come per esempio Sigur Rós, Explosions in the Sky e Goodspeed! You Black Emperor: una lenta sovrapposizione di linee melodiche (qui affidate a voce, piano e chitarra e supportate da archi e fiati) che conducono a un climax e quindi (spesso) a una ripresa calma del tema iniziale. Tuttavia Iacono ha misura, sia nelle singole canzoni che nel disco stesso, che, tracciando un percorso ragionato e concettuale, ma non cerebrale, affascina e riscalda.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Bo Ningen – III

Bo Ningen – III (Stolen Recordings), 12 maggio 2014

6,5

C’è più psichedelia nel pur ricco elenco di ingredienti a cui attinge la musica dei Bo Ningen, quartetto giapponese di stanza a Londra: si intuiva qualcosa già dall’uscita di “DaDaDa”, uno dei brani più interessanti, nonché apertura, di III. Poliritmico, con voci che si intersecano e si richiamano, fa pensare agli Animal Collective, ma non è questa l’unica direttiva del terzo album della band, non così lontano dal precedente Line the Wall. Per esempio ritorna la voce di Jehnny Beth delle Savages, in “CC”, uno dei due brani in inglese (sì, per la prima volta un album dei Bo Ningen non è tutto in giapponese); l’altro è la bella “Silder”, dove canta Roger Robinson dei King Midas Sound.

I pezzi ci sono: a parte la noia di “Ogosokana” e i nove minuti di “Mukaeni Ikenai”, una malriuscita deriva verso i connazionali Mono, i Bo Ningen frullano bene kraut e space rock, accenni dub a episodi stoner, noise e garage. La miscela è buona, ma talvolta si viene colti da un senso di sazietà, per così dire. È il disco nel suo intero a risultare a tratti stancante: un aggettivo che sembra non appartenere ai live della band, a detta di tutti trascinanti. Ecco, canzone per canzone lo è anche questo album: ma arrivati alla fine, a quasi un’ora dal promettente antipasto, si è talmente pieni da temere anche la leggendaria sfoglia-mentina dei Monty Python.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Fennesz – Bécs

Fennesz – Bécs (Mego), 28 aprile 2014

7

Un tempo erano gli ascoltatori a connettere gli episodi della discografia di un musicista: oggi sono direttamente le etichette a promuovere un album come “X parte seconda” e non senza rischi. È capitato con Morning Phase di Beck, succede con Bécs, che la Mego riconduce direttamente a quell’Endless Summer pubblicato dalla stessa etichetta nel 2001. Allora la dichiarata ispirazione erano i Beach Boys: in quest’ultimo album i riferimenti “pop” non sono così univoci.

L’inizio è affidato a “Static Kings”: la chitarra crea riff acustici ed elettrici, ma rimane lieve, lontana dai drones di Black Sea richiamati invece alla lontana nella successiva “The Liar”.

A questa segue l’unico vero “monumento” del disco, la splendida “Liminality”, che in dieci minuti mette in campo tutto quello che c’è e ci sarà: l’inizio come di orchestra che si accorda, la chitarra che entra decisa e solenne, la tempesta elettrica nel mezzo e un minuto o quasi di silenzio finale.

Dopo è tutto variazioni sul tema: “Sav” migliora “Pallas Athene”, “Bécs” usa un pianoforte distorto e straziante, la conclusiva “Paroles” ci sorprende con una chitarra acustica. Il risultato è interessante, le manipolazioni del pop che Fennesz ci propone sono sempre ad alti livelli, ma il paragone con l’estate infinita di tredici anni fa (l’hanno tirata fuori loro, del resto) non regge.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Inventions – ST

Inventions – ST (Temporary Residence), 20 aprile 2014

7

Sulla carta è prevedibile solamente quale possa essere il terreno d’incontro tra Matthew Cooper, in arte Eluvium, e il chitarrista degli Explosions in the Sky, Mark T. Smith: il debutto dei due a nome Inventions, però, ha sviluppi autonomi che non si limitano ad essere una somma delle parti. Alla base, certo, c’è l’unione degli splendidi spazi sonori a cui ci ha abituati Cooper con i vortici ascensionali che sono un marchio di fabbrica della band texana: una connessione che crea una sorta di versione “da camera” di questi ultimi.

Ma Eluvium non è un mero collaboratore, anzi: il contributo del polistrumentista è fondamentale quanto quello dell’amico, conosciuto dividendo i palchi di un tour nel 2008. Cooper crea l’ambiente giusto intorno alle parti di chitarra del partner, attingendo all’eterogeneo catalogo della sua produzione. Usa drone gentili, sovrappone accortamente frammenti di canto e parole, percussioni, piano e archi in strati di suono che riscaldano o, come in “Flood Poems”, che risultano semmai severi, non digitalmente glaciali.

Il disco, infatti, suona intimo e sincero, allontanandosi quindi dalle “retate emozionali” tese talvolta dagli Explosions in the Sky, quelle trappole in crescendo alle quali talvolta è così piacevole abbandonarsi. Anche in Inventions i giochi dinamici sono ben presenti, basti pensare a “Sun Locations/Sun Coda,” o a “Peaceble Child”; così come i beat, che portano a climax più rarefatti e trattenuti (“Echo Tropism”) o decisi (“Recipient”). Fanno un buon lavoro, Cooper e Smith: il loro dialogo forma un discorso non sempre immediato o cristallino, ma comunque interessante e a tratti, come negli ultimi brani del disco, anche affascinante.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Woods – With Light and With Love

Woods – With Light and Love (Woodsist), 15 aprile 2014

7,5

Tre dischi:
Grateful Dead – Anthem of the Sun (Warner Bros, 1968)
Jefferson Airplane – Crown of Creation (RCA, 1968)
The Kinks – Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One (Py, 1970)

Jeremy Earl torna sulle scene riprendendo il filo del precedente Bend Beyond, pubblicato sempre dalla sua Woodsist. Se dovessimo tenere fede al testo della title-track di due anni fa, quell’album avrebbe potuto intitolarsi “Bend Beyond the Light”: la luce è un elemento fondamentale nell’immaginario dei Woods, torna in titoli e testi, e anche le canzoni sparse in una discografia lunga ormai quasi un decennio la richiamano spesso.

Ma per capire dove questo valido With Light and With Love si allontana da Bend Beyond, ripeschiamo il disco pubblicato nel 2011, quel Sun and Shade dove facevano capolino beat quasi kraut e colori lontani dalla luminosità (appunto) pur strampalata e freak tipica della band. “Out of the Eye” e “Sol Y Sombra” (la title-track) espandevano durate e possibilità della peculiare forma di folk-psych-pop dei Woods per trovare altre strade, che parevano richiamare Can, Harmonia e altre splendide musiche teutoniche del passato.

In With Light and With Love la title-track è di nuovo la canzone più lunga del disco e si estende proprio sui suoni che lo caratterizzano: chitarre acide, organo hammond, leslie ovunque. Aggiungete delle percussioni spesso più massicce del solito (ma lontane da ogni parvenza motorik), un pianoforte e una sega musicale ed ecco gli ingredienti dell’album. I richiami sono, certo, alla psichedelia statunitense, ma lo sguardo di Earl si rivolge anche al Regno Unito. “Shining” ha qualcosa dei Kinks e qualche fraseggio di chitarra non sarebbe dispiaciuto all’Harrison di una quarantina di anni fa.

Ciononostante i Woods non suonano (troppo) derivativi: sporcano ogni tanto i fasci di luce che con grazia appoggiano sull’ascoltatore attraverso nastri, rumori e riverberi, ma non spaventano, almeno fino alla conclusione del disco. “Feather Man”, infatti, getta un’ombra (non si esce dal giochino) sulla luce e l’amore profusi: l’ultimo mezzo minuto di disco è affidato a delle campane e a una voce rallentata. Una nuova strada si profila all’orizzonte?

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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