pampero fundacion

Dagli archivi: Sono stato Dio in Bosnia – Vita di un mercenario (Erion Kadilli, 2010)

Vi ricordate la guerra nei Balcani? Si è trattato di uno dei conflitti più cruenti, spietati, feroci e incomprensibili nella storia dell’uomo. E questo non lo dico io, ma uno che la guerra l’ha fatta: Stefano Delle Fave. È lui il protagonista assoluto del documentario Sono stato Dio in Bosnia – Vita di un mercenario, realizzato dal regista italo-albanese Erion Kadilli.

Delle Fave vive un’adolescenza non proprio felice a Bordighera, collezionando guai con la giustizia e una passione per il giornalismo. Proprio in qualità di giornalista-fotografo decide di andare in Croazia: siamo nei primi anni ’90 e la situazione nella ex-Yugoslavia inizia a farsi pesantissima, al punto tale che la sua “guardia del corpo”, una soldatessa dell’esercito croato, gli muore tra le braccia colpita da una raffica di mitra. Delle Fave perde definitivamente la boccia e inizia la sua carriera di soldato di ventura, prima in Croazia e poi in Bosnia.

Kadilli decide di affidare la narrazione di tutto a questo quarantenne che si definisce “pazzo” (mentre “Hitler era solo un folle”), che confessa delitti raccapriccianti (ma dirà sempre il vero?), e che racconta senza peli sulla lingua la guerra e il codazzo di orrore, soldi e sangue che ogni conflitto si porta dietro.La camera è fissa sul mercenario, soprannominato “Red Devil” nei Balcani. Coscientemente, il regista compare appena in campo per le prime domande ma, mano a mano che il film va avanti, rimaniamo da soli con gli occhi spiritati di Delle Fave e ascoltiamo quello che ha da dirci.

Tuttavia non di sole interviste è fatto Sono stato Dio in Bosnia: una parte notevole del documentario, infatti, è affidata a materiali di repertorio di tipo molto diverso. Da un lato ci sono i filmati girati dal mercenario in Croazia e Bosnia; dall’altro ci sono filmati della RAI in cui Stefano Delle Fave è protagonista. Eh già, perché una puntata di un’edizione di Domenica In, condotta da Elisabetta Gardini e Toto Cutugno, ebbe proprio lui come ospite. Lì, sul divano azzurro, davanti a scenografie pastello, il poco più che ventenne Delle Fave raccontava la sua guerra, rispondeva a domande come “Cosa si prova a uccidere un uomo?” e altre amenità.

Basterebbe questo, e i contrasti che il film solleva, perché Sono stato Dio in Bosnia rimanga nello stomaco e nel cervello per molto tempo: invece Kadilli esagera appena un po’, calcando inutilmente la mano su una traballante critica alla società dello spettacolo, tirando fuori il seggio europeo della Gardini e una citazione di Adorno in capo al film. Peccato, ma sono nei in un prodotto a budget bassissimo e dal fiero spirito indipendente che speriamo non sia relegato a proiezioni sporadiche qua e là.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel febbraio 2011

 

Dagli archivi: Wild Man Blues (Barbara Kopple, 1997)

Ebbene sì, care lettrici e cari lettori di questo blog: io Woody Allen l’ho visto, all’Auditorium di Roma, il 31 marzo scorso. L’ho visto salire sul palco, vestito esattamente come me l’aspettavo (camicia e pantaloni di velluto a coste), con la sua New Orleans Jazz Band, con la quale suona da un quarto di secolo.

Woody Allen l’ha visto (e molto) anche Barbara Kopple, di cui abbiamo già parlato a proposito di Harlan County, USA, nel 1996. Da ore e ore di girato, la Kopple ha fatto uscire nel 1997 Wild Man Blues. Il documentario, in pratica, segue Allen e la sua band (e non solo) in un tour europeo, tra Spagna, Italia e Gran Bretagna.

Dico “non solo” perché in quel periodo Woody aveva lasciato tutti di stucco a causa del fidanzamento con Soon Yi, figlia adottiva della ex Mia Farrow. Inoltre, grazie alla macchina da presa della Kopple, conosciamo anche membri della famiglia di Allen: sorella e genitori, in particolare.

Nelle note di copertina del DVD la Kopple spiega che la spinta per girare questo documentario è stata soprattutto l’attività cinematografica di Allen: e come contraddirla? L’Allen cineasta è ben presente, per quanto il documentario si sforzi di parlare di musica: e che musica!

Allen, lo sanno soprattutto i suoi fan, ama da morire il jazz classico. Le sue predilezioni, però, oltre ai grandi come Cole Porter e Gershwin, vanno soprattutto alla musica che ha originato il tutto: quelle canzoni, spesso solo strumentali, suonate negli Stati del sud, che univano la ripetitività delle work song, e di conseguenza del blues, con una tavolozza sonora più ricca.

Piccoli complessi, che si esibivano nei cassoni dei camion per aggirare leggi strettissime sui concerti in pubblico: un banjo, una batteria, qualche fiato. Una musica che, dice Allen all’inizio del documentario forse esagerando, “non interessa a nessuno”.

Eppure Woody la suona, imperterrito, prima in un piccolo pub di New York tutti i lunedì sera (leggenda vuole che a causa di uno di questi concerti non andò a Los Angeles a ritirare l’Oscar per Io e Annie: ma tutti i fan di Allen sanno che lui odia la California), più recentemente nel lussuoso Carlton Hotel di Manhattan (se vi interessa ci sono da sborsare diverse decine di dollari per avere un tavolo, nelle sere in cui la New Orleans Jazz Band si esibisce).

È vero che questa musica non interessa a nessuno?

Diciamo che interessa relativamente alla Kopple, affascinata soprattutto dalla persona-Allen, ben lontana dalle aperture che, negli ultimi anni, Woody ha concesso alla stampa.

Interessa relativamente anche al pubblico che affolla i suoi concerti.

Ma interessa moltissimo ad Allen stesso: questo si percepisce in Wild Man Blues, backstage dopo backstage e albergo dopo albergo. È una passione che viene dopo il cinema, ma non si distacca da esso così tanto.
Verso la fine del documentario Allen osserva che il tour è finito: il tempo è passato, è ora di tornare a New York, a mostrare i souvenir del viaggio in Europa ai genitori.

In questi piccoli sprazzi la Kopple riesce ad avere un occhio particolare e ci rivela davvero qualcosa di inedito di un’icona dell’oggi. Per il resto il film è un documento curioso di un hobby importante di un grande scrittore e regista.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel febbraio 2011

Dagli archivi: Kinski, il mio nemico più caro (Werner Herzog, 1999)

Esperimento: pensate forte a Klaus Kinski. Che vi viene in mente? Probabilmente il profilo di un pazzo o, se ne sapete di cinema, ma soprattutto se vedete i film, avrete ricordato l’attore tedesco in Aguirre, furore di Dio, o in Fitzcarraldo, o ancora in Woyzeck, Nosferatu o Cobra Verde. Questi sono i cinque film che hanno riunito Klaus Kinski e Werner Herzog tra il 1972 e il 1987. Apparentemente l’unione casuale di un geniale e folle regista con un geniale e folle attore. Ma, come si scopre in Kinski, il mio nemico più caro (1999), forse le cose non stanno così.
La prima smentita ce l’abbiamo all’inizio del film: scopriamo che la famiglia poverissima di Herzog alloggiava in una pensione di Monaco con… Klaus Kinski. All’epoca, siamo negli anni ’50, Klaus cercava di sfondare come attore e Werner era un adolescente che subiva, con fascino e paura, le sfuriate del coinquilino. Piatti distrutti, porte sfondate, urla per due giorni di seguito. Era destino, direbbe qualcuno, quel destino che rimane un concetto centrale nel pensiero tedesco del XX secolo.

Vent’anni dopo i due si trovano sul set di Aguirre: nel documentario Herzog decide di ripercorrere il suo rapporto professionale con Kinski (dopo questo epilogo “familiare”) tornando sui set dove la loro relazione si è consumata, talvolta letteralmente.
Herzog parla con le comparse indie, con il direttore della fotografia, con le maestranze dell’epoca: tutti sono d’accordo nel dire che Kinski era violento, fuori di testa, aggressivo, tanto quanto vigliacco a suo modo. Propugnava la bellezza assoluta della natura e, pur avendo la giungla vergine sudamericana a cinquanta metri dal luogo dell’azione filmica, non vi mise mai piede. Lo sentiamo sbraitare per sciocchezze grazie a registrazioni di fortuna e talvolta lo vediamo interrompere scene con violenza o agire in esse con altrettanta irruenza, spaccando letteralmente la testa con un colpo di spada a un comprimario.

Sarebbe corretto quindi liquidare uno dei più grandi attori di sempre del cinema europeo con una diagnosi presa a caso dal DSM? No, anche perché il soggetto che lo dirigeva non era da meno. Traspare, infatti, nel pacato tono teutonico di Herzog, un vero e proprio odio violento nei confronti di quello che viene comunque considerato il suo attore feticcio. Sebbene lui smentisca, la leggenda che racconta di un Kinski diretto da Herzog con un fucile puntato addosso: e la minaccia di morte da parte del regista effettivamente c’è stata. “Per evitare che lasciasse il set”, dice Herzog, “gli ho promesso che gli avrei piantato otto pallottole in testa e ne avrei lasciata una per me”. Insomma, scaramucce che sicuramente capitano a tutti sul lavoro almeno una volta alla settimana.
D’altro canto c’è stata la combine per fare sì che, nell’autobiografia dell’attore, la figura del regista emergesse come quella di un pazzo, sadico, megalomane. “Se non scrivo cose violente, non venderà”, confessa Kinski a Herzog in uno dei momenti di intima confidenza e debolezza. E il regista si affianca all’improvvisato scrittore con un dizionario, per trovare i termini più pesanti da affibbiare… a se stesso.

Mein liebster Feind, recita il titolo originale del documentario: l’ultima parola, in fondo, non è così lontana dall’inglese friend e dal tedesco Freund, ma vuol dire l’esatto opposto. A vedere determinate sequenze del film, o alcune famose scene che ritraggono i due personaggi di cui stiamo parlando, pare che la pellicola colga esattamente questo centro indefinito tra due opposti. È una zona grigia che esiste, ed è quella abitata dai personaggi kinskiani più riusciti, controllati, creati, stimolati e plasmati da Werner Herzog.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel febbraio 2011

Dagli archivi: due documentari su Stanley Kubrick

Due documentari non bastano per tracciare anche solo i contorni di una personalità artistica complessa come quella di Stanley Kubrick: crediamo sia interessante, però, giustapporre un prodotto ben confezionato, classico nella forma e nell’esposizione come Stanley Kubrick: a life in pictures, di Jan Harlan, e un piccolo prodotto molto più recente e breve del primo, cioè Stanley Kubrick’s Boxes, di Jon Ronson.

Il documentario firmato da Harlan, assistente e cognato del grande regista americano, è come potete immaginarvelo: uscito nel fatidico 2001, due anni dopo la scomparsa di Kubrick, è narrato da Tom Cruise, ed è diviso in una serie di capitoli ognuno dedicato a un film o a precisi momenti nella vita di Kubrick.

Ci sono testimonianze di familiari e di nomi illustri (da Woody Allen a Matthew Modine, da Malcom McDowell ad Arthur C. Clarke), brani di film, qualche materiale inedito che, per due ore e un quarto, pavimentano la strada tracciata secondo criteri rigidamente bio-filmografici. Del resto, lo si capiva anche dal titolo.

Ciò che rimane, dopo la visione di A life in pictures, solitamente è una duplice voglia: una, tutto sommato accontentabile, che consiste nel rivedere tutti i suoi film. L’altra, vera utopia, di conoscere di più del suo modo di lavorare e pensare, a prescindere da esposizioni da manuale.

Stanley Kubrick’s Boxes, del 2008, ha un elemento comune, oltre al soggetto del documentario, con il titolo appena esaminato: il titolo è veritiero. Infatti Jon Ronson, conduttore radiofonico, giornalista, documentarista e autore – fra gli altri – del libro da cui è stato tratto il film L’uomo che fissava le capre, parla di un migliaio di scatole stipate in diversi spazi della residenza dei Kubrick il cui contenuto, organizzato maniacalmente dallo stesso Stanley, è pressoché sconosciuto.

Non so se mi spiego.

Per cinque anni, quindi, Ronson esamina scatola per scatola, scoprendo, ad esempio, che Kubrick siglava e archiviava ogni lettera che gli fosse arrivata da un fan, fosse essa positiva o negativa nei confronti del suo lavoro, ma anche se da lui giudicata opera di un folle. Non solo: mandava i suoi assistenti a fotografare intere strade londinesi o di altri centri urbani porta per porta, ma mica per trovare le location nelle quali girare, no. Per ricostruire tutto negli studi di Pinewood, dove Kubrick ha realizzato gran parte dei suoi film.

Questi due esempi, però, sono forse fuorvianti: ciò che emerge dal contenuto delle scatole, ma soprattutto dalle interviste fatte ad assistenti e familiari, non è la pazzia presunta del regista, su cui in molti hanno ricamato, ma piuttosto l’enorme amore che Kubrick nutriva nei confronti del suo lavoro. Un amore maniacale, certo, contrassegnato da un senso per la precisione che potrebbe sembrare folle, ma che ha portato a quei film. Un metodo che Kubrick fece sempre più suo: uno degli aneddoti più impressionanti che vengono narrati riguarda il mistero del tempo sempre più lungo intercorso tra un film e l’altro nell’ultima parte della sua carriera.

“Le scatole”, dice Ronson, “svelano il mistero: Kubrick tra un film e l’altro si preparava”. Era un’attività necessaria, anche se talvolta portava a esiti disastrosi, basti pensare che nel tempo in cui Kubrick e il suo staff organizzavano il materiale di preproduzione per un film che toccava il tema dell’Olocausto, Spielberg pensava, preparava, produceva e distribuiva Schindler’s List. E tutto il materiale del progetto Aryan Papers? Ordinato, etichettato e messo da parte. In una scatola.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel novembre 2010

Dagli archivi: When You’re Strange (Tom DiCillo, 2010)

Nel dicembre 2010 TomDicillo scrive sul suo blog: “Quando mi sono svegliato stamane ho scoperto che When You’re Strange ha ricevuto una candidatura ai Grammy. La categoria è video di lungo formato (dvd), il che va bene, sebbene sia stato concepito, prodotto e distribuito come film”.
Due mesi dopo il documentario vince il premio, eppure per ora When You’re Strange ha avuto una distribuzione, internazionale e domestica, davvero scarsa. Possibile che la figura di Jim Morrison non sia più interessante? E che la voce narrante di Johnny Depp non attiri almeno il pubblico anglofono?

E dire che di cose interessanti il film ne ha, a partire (è una banalità?) dalla musica dei Doors che, emendata tanto da retrospettive maledettiste quanto dagli strali di detrattori inutilmente acidi, rimane per molti versi superba. È notevole anche il lavoro di ricerca: molti documentari musicali si vantano di avere al loro interno sequenze mai viste prima, ma in questo caso è proprio così. E, infine, si parla almeno un po’ anche di Krieger, Manzarek e Desmond, che pare abbiano appoggiato il progetto (cosa che al famigerato The Doors di Oliver Stone non era riuscito neanche per sbaglio). DiCillo adotta una visione globale del percorso compiuto della band californiana, che viene riallacciato ai momenti turbolenti della storia dell’epoca degli USA e anche alla storia personale di Morrison, qui visto davvero nel modo più oggettivo possibile.

È chiaro perché Oliver Stone si sia fatto prendere la mano con quel film, vent’anni fa: a rivedere certe sequenze e a risentire certi brani, si percepisce la grandezza quasi minacciosa di Morrison, e quel misto di fragilità, carnalità e lirismo che emana ogni sua nota e parola. E quindi anche DiCillo, qua e là, perde il controllo, toccando ahinoi l’apice quando fa spegnere un fiammifero mentre Depp ci narra della morte del leader dei Doors. Subito dopo, però, monta “The Crystal Ship” con immagini dei Doors in vacanza su una specie di yacht, mentre nuotano in acque cristalline e si tuffano dalle balaustre dell’imbarcazione, e tutti hanno uno sguardo un po’ triste. La pacchianata del fiammifero scompare di fronte a un brano di montaggio eccellente.

Quindi, nella sua ora e mezzo, When You’re Strange non è privo di difetti, o meglio, di piccoli eccessi, qua e là. Però glieli si perdona, un po’ nel nome della buona volontà che lo sostiene, un po’ perché alla fine è difficile essere immuni, tuttora, dal fascino della musica dei Doors.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nell’aprile 2011

Dagli archivi: The Work of Director (2003)

Attenzione: leggere questo post vi farà immediatamente spendere un sacco di soldi. Già, perché in questo mondo di ladri, dove si scarica gratis di tutto, esistono ancora dei prodotti che ha senso comprare.

Qui non stiamo parlando di un DVD che contiene un documentario, no. Qui i DVD sono sette: ognuno di essi è dedicato a un regista. Ma scordatevi, almeno in buona parte, i manuali di storia del cinema. I registi in questione, infatti, hanno principalmente diretto videoclip, tra i più belli di quest’arte che ha qualche decina d’anni di vita.

È il 2003 quando la Palm Pictures fa uscire la prima serie di The Work of Director: i primi tre DVD sono dedicati a Spike Jonze, Chris Cunningham e Michel Gondry. Come mai loro tre? Ehm, perché sono loro a ideare questa collana.

Ogni uscita consiste in un DVD stracolmo di materiale (in media una quindicina di clip, tra video, installazioni, corti e spot televisivi) e in un libretto di una cinquantina di pagine che racconta il mondo del regista in questione, con interviste, riproduzioni di appunti, fotografie e storyboard. In più ci sono speciali, making of, documentari.

Il terzo della prima infornata, quello di Gondry, è particolarmente allettante, considerando soprattutto la ormai lanciata carriera cinematografica del geniale regista francese: chi di voi ha amato Human Nature, Eternal Sunshine e L’arte del sogno, troverà pane per i suoi denti e un film/diario imperdibile. Due anni dopo, la Palm Pictures si ripete: questa volta i nomi sono quelli di Mark Romanek, Jonathan Glazer, Anton Corbijn e Stéphane Sednaoui. La formula, però, non cambia. Libro, video musicali, spot televisivi e altre gustose amenità.

Il consiglio che vi diamo è di prendervi tre ore di tempo e godervi ogni DVD in una volta sola: il perché di questa istigazione alla maratona audiovisiva (che vi ripagherà, ne siamo certi), è presto detta dal titolo stesso della serie.

L’approccio della Palm Pictures a questa enorme e variegata quantità di materiale fondamentalmente di origine commerciale o promozionale è quella di una sorta di politica degli autori, che rivoluziona il modo di concepire i videoclip. Di solito i video musicali sono raccolti per autore, vedi le uscite con i videoclip di Bowie, altre con tutti i video dei Radiohead, eccetera.

Raggruppando però questi prodotti per autore si scopre qualcosa di eccitante: c’è un trait d’union evidente tra le immagini scelte per commentare “Red Guitar” di David Sylvian e quelle di “Liar” di Henry Rollins: la firma di Anton Corbijn, tanto per citare un altro che è passato al cinema.

Le ossessioni di Cunningham si ritrovano tanto dei deliri ritmati dall’electro di Aphex Twin quanto in video raggelanti creati per Madonna e Björk. E ancora, il senso apocalittico di Romanek è visibile nello spot per Levi’s intitolato “Odyssey” quanto nell’insostenibile videoclip per “Rabbit in your headlights” degli U.N.K.L.E.

Per ora i DVD di The Work of the Director si fermano qua: ci sono voci di una possibile terza serie, che comprenda registi nuovi, ma anche aggiornamenti di nomi già esaminati. Tuttavia per ora non vi è nulla di certo. Ora non vi rimane altro che mettere mano alla carta di credito e regalarvi un giorno intero di pura estasi audiovisiva.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel gennaio 2011

Dagli archivi: Reality 86’d (David Markey, 1991)

Una delle band più importanti e influenti della storia dell’hardcore celebra nel 2011 due anniversari: trentacinque anni dalla fondazione e dieci dallo scioglimento. Stiamo parlando dei Black Flag, che nel lasso intercorso tra il 1976 e il 1986 diedero davvero una spinta notevolissima all’undereground culturale statunitense e non solo.

Reality 86’d, firmato dallo stesso David Markey di 1991: the Year Punk Broke, racconta l’anno finale dei Black Flag, quel 1986 in cui i nervosismi e gli attriti tra i tre membri (che ipotizziamo non fossero esattamente delle persone facili) portarono al collasso del gruppo.

Certo, i Black Flag non se la passavano comunque bene: sempre poveri in canna, perseguitati dalla polizia ovunque andassero, tesi dai loro stessi caratteri. Neanche un grande disco come In My Head e il tour che lo seguì (al centro del documentario di Markey) poteva salvarli.

Però c’è un problema: se a metà dello scorso maggio Reality 86’d era comparso su Vimeo, salutato da orde di fan entusiasti di poter vedere questo reperto eccezionale di un’era tutt’ora estremamente influente, allo stesso modo, alla fine di quel mese, il documentario è stato eliminato [ndr 2022: è nuovamente disponibile a questo link]. Perché? Per volere di Greg Ginn, chitarrista e fondatore dei Black Flag. Che ha da recriminare quel genio di musicista?

Tentano di scoprirlo Dan Collins in quest’intervista e Tony Rettman in quest’altra, ma pare proprio che Markey non sia riuscito a ottenere nulla se non un “perché no” da Ginn, l’unico tra i protagonisti del documentario che ha creato problemi: gli altri Black Flag, infatti, sarebbero più che contenti di vederlo distribuito e così i membri delle altre band che compaiono nell’oretta che dura Reality 86’d). Caratteracci, si diceva.

Fatto sta che è un peccato: perché, sebbene la mano di Markey sia la stessa, qui c’è una bella differenza rispetto a 1991. Se nel documentario citato c’è la sensazione (veritiera, peraltro) che i Sonic Youth e i loro amichetti se la stiano spassando mentre scorrazzano nei festival estivi europei di inizio anni ’90 e sentano di avere un futuro davanti a loro, i Black Flag non nascondono di essere al limite del collasso.

La macchina da presa sporchissima di Markey, la vita in furgone, l’imponenza titanica di Henry Rollins, le tonnellate di erba fumata, i kids che pogano come se non ci fosse un domani: ci chiediamo che cosa succederebbe se una vecchia videocassetta del documentario spuntasse tra duemila anni nelle mani di archeologi del futuro. Siamo certi che sarebbero anche loro in grado di percepire l’energia (seppure talvolta negativa) che trasuda da ogni secondo del film e, forse, ristamperebbero il documentario. Sempre che nessun parente di Ginn si faccia vivo per impedirlo.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel giugno 2011

Dagli archivi: Sins of My Father (Nicolas Entel, 2009)

“Tali padri, tali figli”, dice un vecchio adagio dalla natura piuttosto conservatrice. Ma se tuo padre si chiama Pablo Escobar?

Sins of My Father (Pecados de mi padre in originale) è un documentario del 2009 coprodotto dalle due nazioni che segnano per sempre la vita del primogenito di uno dei narcotrafficanti più famosi e potenti della storia: Juan Pablo nasce in Colombia e si gode la vita che può avere un bambino figlio di un milionario che lo ama alla follia; lo stesso Juan, alla morte del padre, è costretto all’esilio in Argentina.

Il regista Nicolas Entel, dopo un esordio nel 2005 con Orquesta Tipica, decide di buttarsi anima e corpo in questo progetto: raccontare la storia di Pablo Escobar attraverso moglie e, soprattutto, figlio.

Juan Pablo in realtà si chiama da anni Sebastian Marroquin: e per forza, considerando che le minacce di morte nei suoi confronti non sono ancora solamente un ricordo. Ciononostante, decide di porre fine alla spirale di violenza da subito quando, dopo una reazione a caldo alla notizia dell’uccisione del padre da parte delle forze di polizia colombiane (e pare anche di uomini del cartello rivale, quello di Calì), dichiara di non volersi vendicare degli assassini del padre.

Insieme alla narrazione dell’ascesa e della caduta del boss della cocaina, proprio il tema della spirale di violenza che passa dai padri ai figli, e del sentimento di vendetta, è al centro del film che documenta un gesto eccezionale: l’incontro di Juan Pablo con i figli di due tra le vittime più illustri di Escobar, i politici Luis Carlos Galan e Rodrigo Lara Bonilla. I due, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, avevano provato a fermare il potere del narcotraffico colombiano, il cui radicamento negli apparati statali stava diventando sempre più solido.

Il figlio di Escobar è incredibilmente lucido nel narrare la sua storia, ma anche nell’affrontare l’incontro sul quale si chiude il film: per prepararsi scrive una lettera toccante e profonda ai figli di Galan e Lara, in cui si pone umilmente nella posizione di chiedere scusa per i crimini commessi da un padre perso quando aveva sedici anni.

Il protagonista del documentario, però, è altrettanto cristallino nel ricordare l’affetto del padre senza cadere in alcuna forma di assoluzione, tant’è che pare, in certi frangenti, che debba crollare all’improvviso, stremato dai sentimenti contraddittori che – ne siamo certi – nutre tuttora a proposito di una figura così feroce e, al tempo stesso, vicina.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel maggio 2011

Dagli archivi: due documentari su Charlie Chaplin

Chaplin sconosciuto (Unknown Chaplin, Kevin Brownlow e David Gill, 1982)

Non si finirà mai, per fortuna, di parlare del genio di Charles (Charlie) Chaplin. Anche di recente una piccolissima sequenza di un suo film è stata al centro di curiose osservazioni, in quanto sembra che, sullo sfondo della scena, una comparsa parli a un telefono cellulare. E siamo negli anni ’20 del secolo scorso.

Senza approfondire teorie sulla curvatura dello spazio-tempo, né tirare fuori gli UFO e i Templari, andiamo a scoprire o riscoprire un documentario uscito per la prima volta nel 1982 e uscito nuovamente in DVD qualche anno fa. Si tratta di Unknown Chaplin, una produzione della BBC pensata appunto per la televisione, diretta e scritta da due storici del cinema inglesi, Kevin Brownlow e David Gill. L’edizione italiana è del 2005, e il disco è in allegato ad un libro bilingue, scritto da Brownlow, intitolato Alla ricerca di Charlie Chaplin / The Search for Charlie Chaplin, pubblicato dalla casa editrice genovese Le Mani insieme alla Cineteca di Bologna, nell’ambito del progetto “Chapliniana”.

Ma, si diceva, Unknown Chaplin: la prima domanda che ci si può porre riguarda il cosa ci sia di sconosciuto, ancora, riguardo a Chaplin. La risposta è un sacco di cose: il titolo – ve lo assicuro – non è per nulla fuorviante. I due storici, lo raccontano nell’edizione speciale del DVD e nei testi del volume, hanno avuto accesso trent’anni fa a diversi archivi di collezionisti ricolmi di materiale che Chaplin stesso aveva conservato. Tutti i suoi film, certo, ma soprattutto le riprese delle prove che hanno portato a sequenze rimaste nella storia del cinema. Io non so cosa hanno pensato Brownlow e Gill quando hanno iniziato a passare alla moviola le migliaia di metri di pellicola inediti, ma la loro scoperta ha dell’incredibile.

Chaplin, scopriamo nel documentario, filmava tutto, ma soprattutto non usava alcuna sceneggiatura per le sue comiche. Prima dei suoi lungometraggi più famosi il metodo di Chaplin era semplicissimo: andava sul set con un’idea per una gag, la girava. Poi ci ripensava e ne aggiungeva una parte, o ne spostava un’altra. Infine invertiva le due parti della gag, sempre con la macchina da presa che andava. Poi buttava tutto e ricominciava. Capite quindi che si tratta dell’esplicitazione del metodo di uno dei grandi del Ventesimo secolo. Non incomprensibili appunti o racconti di altre persone che riportano aneddoti più o meno veritieri: in Unknown Chaplin c’è l’archeologia del cinema, come l’hanno definita gli stessi autori; conosciamo direttamente il percorso creativo di un genio.

Oltre a tutto questo, le tre ore di documentario ci offrono uno sguardo sull’uomo-Chaplin: ci sono errori sul set, momenti di ilarità tra i membri della troupe, scoppi di rabbia per una scena non riuscita e altri episodi della vita professionale dell’artista. Ma anche la sua vita privata è inclusa nei tre capitoli in cui è diviso il film: sono davvero emozionanti alcuni home movies che ritraggono Chaplin in momenti di pausa negli studios o in ambienti più domestici e familiari. Punteggiano la narrazione, affidata alla voce narrante di James Mason, diverse interviste realizzate con parenti, colleghi attori e mogli di Chaplin.

Possiamo dirlo? Anche se non siete fan di Charlot (davvero non lo siete?), Unknown Chaplin è uno dei documentari più belli che possiate mai vedere.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel dicembre 2010

***********************************************************************************************

Charlie – The Life and Art of Charlie Chaplin (Richard Schickel, 2003)

Charlie – The Life and Art of Charles Chaplin potrebbe essere il documentario di introduzione a un corso sul grande cineasta, attore, scrittore, eccetera eccetera, dove Unknown Chaplin farebbe la parte del testo di approfondimento. L’approccio che Richard Schickel sceglie, infatti, è classico: già critico cinematografico del Time dal 1972, Schickel decide di raccontare arte e vita di Chaplin seguendo un “banale” ordine cronologico, ma ottiene un risultato eccezionale, soprattutto evitando l’agiografia.

Come si fa a non amare Chaplin? Be’, Charlie ci racconta che non c’è sempre stato amore tra uno dei londinesi più famosi della storia e il pubblico mondiale. Se agli inizi l’ascesa dell’artista è vertiginosa e tuttora ineguagliata (diventa milionario – nonché una delle persone più famose del mondo – a ventotto anni, dopo soli tre anni di attività cinematografica), dopo la Seconda guerra mondiale gli incubi ricorrenti di non piacere e di non fare più ridere diventano realtà e sono ben riflessi in film come Monsieur Verdoux e Luci della ribalta.

Charlie è impreziosito dalla voce narrante di Sydney Pollack e da innumerevoli interviste a storici, critici, registi e attori. Spesso i contributi sono superlativi: valga come esempio l’entusiasmo di Scorsese che analizza alcune scene di Una donna di Parigi o di Verdoux. Altri, come le tranche di intervista a Johnny Depp, servono per i crediti del dvd. In generale, però, il documentario presenta prospettive nuove e interessanti: analizza in modo eccellente alcuni tratti dell’arte di Chaplin, come il suo perfezionismo, i progressi tecnici e il metodo di lavoro. Ma, soprattutto, Charlie si rifà al contesto storico, artistico, economico e sociale nel quale sono inseriti i cinquant’anni di attività dell’artista: dai bagni di folla alle accuse di bolscevismo, dall’impegno per sostenere gli alleati durante il secondo conflitto mondiale alle laceranti e costose cause di divorzio.

Già, perché diciamocela tutta: Chaplin non era un santo. Aveva una certa passione per le donne molto più giovani di lui, non teneva in grande considerazione la fedeltà coniugale ed era totalmente devoto a se stesso e al suo lavoro. Senza cercare la morbosità da gossip, Schickel mostra anche questi lati della vita di Chaplin, probabilmente perché (per sua stessa ammissione) quando ha iniziato i lavori preparatori per Charlie non era un suo fan. La passione è cresciuta mano a mano che la produzione del documentario avanzava: questo ha permesso l’allontanamento da qualsiasi tentazione agiografica, come abbiamo ricordato all’inizio, e quindi la realizzazione di uno dei migliori documentari su quello che, in fondo, era un geniale, sensibile e unico essere umano.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel maggio 2011

Dagli archivi: If a Tree Falls: A Story of the Earth Liberation Front (Marshall Curry, 2011)

Quando si parla di terrorismo internazionale, tutto è ormai relativo all’undici settembre del 2001. Ma quasi dieci anni prima nasceva in Gran Bretagna una delle organizzazioni terroristiche più potenti ed efficienti della storia, l’Earth Liberation Front. L’ELF (azzeccare una sigla non è cosa da poco: per esempio, in questo caso l’acronimo permette di chiamare gli attivisti “Elves”, cioè elfi) si costituisce per combattere, attraverso azioni mirate e di guerriglia, chiunque sfrutti e distrugga l’ambiente. Sono parole dell’ufficio stampa del Fronte, non mie: capirete che, da un lato, l’obiettivo è condivisibile (i metodi – sabotaggi, incendi, devastazioni varie – molto meno, sebbene non abbiano mai provocato vittime), e che dall’altro, avendo un ufficio stampa, stiamo parlando di un’organizzazione strutturata e pronta a comunicare all’esterno.

Di questo strano organismo, composto da cellule indipendenti e sparse su tutto il pianeta, parla If a tree falls, documentario presentato all’ultima edizione del Sundance Festival.

Marshall Curry, che ha scritto il film insieme a Matthew Hamachek, racconta in meno di un’ora e mezzo la storia dell’ELF, concentrandosi in particolare sul momento più importante dal punto di vista narrativo: è quello che va dal 2001 (non a caso) al 2005, sei anni di azioni continue, culminati con l’arresto di Daniel McGowan (un normalissimo impiegato dei Queens, con laurea in economia e figlio di un poliziotto) da parte dell’FBI, in un’operazione che mette le manette intorno ai polsi di altre tredici persone dando una poderosa stoccata alle cellule nordamericane del Fronte.

Attraverso interviste e, soprattutto, moltissimo materiale inedito, i registi riescono a parlare di terrorismo con obiettività e controllo: un risultato non facile, dopo l’attentato alle Torri Gemelle. La materia narrativa è facilmente gestibile se si usano gli strumenti giusti: gli autori adoperano delle griglie quasi da thriller per riflettere sull’operato dell’ELF, di conseguenza sulle questioni ambientali e, infine, su cosa sia definibile come terrorismo.

Tutto è partito da un fatto vero: ce lo racconta McCurry stesso nella cartella stampa del film.

In una fredda giornata di dicembre di circa cinque anni fa, mia moglie, tornando dal lavoro, mi raccontò che quattro agenti federali erano entrati nel suo ufficio e avevano arrestato uno dei suoi dipendenti, Daniel McGowan, per “ecoterrorismo”. (…) Come era successo che uno come lui dovesse affrontare un ergastolo per terrorismo? Era corretto usare la parola “terrorismo” per descrivere distruzioni di proprietà in cui nessuno veniva ferito? Che cos’era questo gruppo che agiva nell’ombra, l’ELF? Come si era formato e perché? Che cosa poteva fare pensare a qualcuno che un rogo fosse una risposta ragionevole ai problemi ambientali? Sam Culman (direttore della fotografia e co-produttore) e io abbiamo deciso di scoprirlo.

Un bel documentario, controverso e coraggioso: un po’ come l’ELF, ma meno incendiario.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nell’aprile 2011

Torna in cima