Dagli archivi: alt-J – This Is All Yours
alt-J – This Is All Yours (Infectious)
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Il secondo disco è sempre difficile: se il primo vince premi ovunque e i suoi brani vengono usati nei promo della BBC; se arriva (dopo l’acclamazione) l’ovvio boomerang critico mentre supera il milione di copie vendute, e se (poco prima dell’inizio del lavoro sulle nuove canzoni) uno dei membri fondatori esce dalla band, ecco che il secondo disco può diventare più che difficile. Eppure gli alt-J rimangono quasi all’altezza del debutto, apertamente richiamato da This Is All Yours.
Ci sono canzoni più acustiche e semplici (alcune gradevoli, come “Choices Kingdom”, altre meno, come “Garden of England”) e pezzi più corposi (un singolo riuscitissimo, “Every Other Freckle”, e uno evitabile come “Left Hand Free”; il terzo, “Hunger of the Pine”, sta nel mezzo). A una “Intro” davvero notevole, giocata su strati di voci, segue un dittico legato a Nara, città sacra del Giappone nota anche per i cervi che liberamente vi pascolano: “To Be a Deer in Nara”, cantano gli alt-J, suggerendoci un’immagine interessante.
La visione di un cervo a Nara, infatti, è una stupefacente normalità come la loro musica. Tra indie, folk ed elettronica, i brani della band di Leeds sembrano “normali” eppure non lo sono del tutto. L’uso intelligente delle parole (spesso sensuali, corporee, terrene) e certi arrangiamenti e suoni spostano la forma pop in un altrove ancora in via di definizione. Noi abbiamo fiducia: nel frattempo godiamo di quello che ci offrono.
Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio
Diciamolo subito: se vi siete crogiolati sull’esordio self-titled di Matthew Correia (batteria), Spencer Dunham (basso), Miles Michaud (voce e chitarra) e Pedrum Siadatian (chitarra), godrete anche dei quaranta minuti di Worship the Sun. Altrimenti, passate oltre: perché la formula è sempre composta da psichedelia 60’s, surf e garage, mischiati a quel suono indolente e rilassato tipico delle band che provengono dalle lande soleggiate della West Coast.
Chissà qual è l’“altro linguaggio” che dà il titolo al terzo album in studio del quartetto texano: ad ascoltare le otto tracce di Another Language si potrebbe immaginare che quell’“another” non indichi un’alternativa, ma piuttosto un’aggiunta. I This Will Destroy You, infatti, arricchiscono sonorità e ritmiche dell’ultimo Tunnel Blanket pur rimanendo nell’ambito di un post-rock d’atmosfera che gioca moltissimo con le dinamiche (per descrivere certi passaggi si dovrebbero usare i ppp e i fff della musica classica) e accentuano ancora di più le componenti malinconiche e inquietanti dei lavori precedenti.
Il deserto, due synth modulari, due sequencer, un mixer: ecco gli ingredienti di Whorl, registrato nella zona del Joshua Tree in tre giornate dello scorso aprile. Le dodici tracce derivano da due solitarie session live sotto il sole californiano e dal successivo concerto tenuto davanti a novecento persone accorse a uno sperduto locale country&western proprio per sentire in anteprima il nuovo lavoro dei Simian Mobile Disco. Pur continuando a indugiare nei territori ombrosi che battono da un po’, James Ford e Jas Shaw (che hanno abbandonato la Wichita per la Anti-) superano Unpatterns.
“Se la stampa dice che non è quello che si aspettava, be’, l’avete chiesto voi”, ha dichiarato all’NME Sebastien Grainger riferendosi al secondo album dei Death from Above 1979, The Physical World. Ammesso e non concesso di avere domandato a gran voce il ritorno del duo canadese (insieme a Grainger alla batteria e voce c’è Jesse F. Keeler ai synth e basso), dieci anni dopo il debutto You’re a Woman, I’m a Machine: ci meritavamo un disco così? Questa seconda uscita, infatti, ha un problema basilare e non da poco: suona vecchia e stanca, sia considerata nel contesto del panorama odierno, che (soprattutto) messa a confronto col tiro della band di dieci anni fa.
Dopo le collaborazioni con Lloyd Miller e Melvin Van Peebles, splendidi viaggi tra l’Oriente e lo spazio, gli Heliocentrics tornano all’Africa. Qualche anno fa hanno lavorato con Mulatu Astakte, questa volta la trasferta a Londra, negli studi rigorosamente analogici di Malcolm Catto e soci, tocca al grande sassofonista e cantante Orlando Julius (uno dei padri riconosciuti dell’afrobeat), che per Jaiyeide Afro rimette mano ad alcune delle sue prime composizioni, mai registrate prima.