La voce come fosse uno strumento: intervista alle Samaris

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Si dice sempre la stessa cosa sulla musica islandese, no? Come possa venire fuori tutta quella roba, spesso di ottima fattura, da un nazione di 300.000 abitanti. Non sono riuscito a farmelo spiegare neanche dalle Samaris, dopo averci provato con Asgeir e con Emiliana Torrini. Ma con la clarinettista Áslaug Rún Magnúsdóttir ho fatto una bella chiacchierata sul nuovo lavoro della band, Silkidrangar, in uscita per One Little Indian tra un mese scarso. Si tratta di un album più coeso del “falso debutto” eponimo: Samaris, infatti, era l’unione di due ep che hanno creato un culto in patria per la band, presto esportato grazie all’islandese acquisito John Grant, che le ha volute con sé per aprire alcune date. certo: in quel disco c’era “Góða Tungl”, una delle canzoni che più mi si è infilata in testa in assoluto negli ultimi anni, ma non tutte le altre tracce erano all’altezza di quel gioiellino che ondeggiava tra l’ipnotico, il dolce e l’inquietante. Qui la band osa, invece. Si fa più scura, ma non dimentica il passato (buffo parlarne così, considerando che in tre non hanno settant’anni). Il tutto attraverso questa lingua stranissima… anche per chi la parla, oltre che per chi l’ascolta. No, perché è bellissimo intervistare gli islandesi, ma il loro inglese scivola via spesso, rendendo la comprensione ardua a dir poco. Grazie quindi ancora una volta a Emily Clancy che mi ha aiutato nella traduzione. Trovate l’intervista audio sul sito di RCdC e verrà mandata in onda oggi pomeriggio a Maps.

La prima cosa che voglio chiederti riguarda il titolo del disco: Silkidrangar vuol dire “scogliere di seta”. Un nome che gioca sui contrasti, come in effetti fa poi l’album. L’inizio è marziale e martellante, piuttosto diverso dalle canzoni vecchie, alle quali però si torna alla fine del disco.
Sì, credo di sì. Direi che ci siamo evoluti. Nell’album precedente c’erano tante canzoni vecchie, e credo che abbiamo provato a sviluppare il nostro suono. Quindi la prima parte del nuovo disco è diversa, più ritmata, ma allo stesso tempo abbiamo ancora il clarinetto, non è che abbiamo aggiunto altri strumenti o cose del genere. In realtà anche alcuni canzoni su questo disco sono più datate, arrivano dalle prime volte che ci siamo messi a scrivere canzoni. E’ come una combinazione di pezzi più vecchi, che però non ha ancora sentito nessuno, e cose che abbiamo scritto da zero. Penso che quando stai facendo musica nuova devi sia seguire il tuo stile che cercare di sviluppare un tuo suono, quindi forse alle persone questo album sembra più scuro o profondo rispetto alle cose precedenti in cui c’era il clarinetto che aveva melodie più luminose, e poi Jófríður inizia a cantare. Ora abbiamo sempre il clarinetto sotto, ci sono tanti sample della voce insieme al clarinetto, quindi è un po’ diverso, penso, ma allo stesso tempo abbiamo il nostro solito stile.

Le canzoni nuove sono quelle più tranquille o quelle più movimentate?
Credo entrambe le cose. La terza e la quarta canzone del disco sono un po’ melodiche e sono vecchie; le nuove, forse lo puoi sentire, sono più scure e profonde. Sì, quelle che abbiamo scritto uno o due anni fa sono più luminoso. Esattamente come il nostro suono: quello di ora e un po’ più scuro, sì.

I remix dei vostri brani vi hanno influenzato nel creare qualcosa di più ritmato e oscuro?
Sì, decisamente. Il remix che ha fatto Subminimal di “Stofnar Falla” era molto drum and bass, e ci ha fatto capire che potevamo creare cose più ritmate, che funziona anche con il clarinetto e la voce: possiamo fare cose più ballabili, ce l’han fatto vedere loro, portano del nuovo sound alla nostra musica e ci fanno pensare “Dai, possiamo farlo”. Sono una grande fonte di ispirazione, prendono le tue canzoni e le rendono loro, ci aggiungono il loro suono, poi noi ci aggiungiamo qualcosa di nostro. Quindi sì, è anche merito loro.

Questo vostro primo album ha secondo te una coerenza interna? Mi riferisco all’ordine delle tracce: qual è il percorso che l’ascoltatore intraprende sentendole dalla prima all’ultima?
Che tipo di viaggio non saprei in realtà. Non è un grande concept album, non so. Ci sono tanti elementi naturali, cantiamo molto degli elementi naturali e tanto delle persone… Nei testi ci sono metafore su persone che magari stanno intreprendendo un percorso nella loro vita, stanno provando a farcela, a raggiungere qualcosa, magari attraverso nuove strade. Suppongo che le persone in Italia non capiranno i testi e dovranno crearsi le proprie atmosfere e il proprio umore e ambiente, noi stiamo provando a creare un’atmosfera rock melanconica e selvatica suppongo, non c’è uno specifico tipo di viaggio, dovranno crearselo da soli…

Che mi dici delle parole? So che sono tratte da alcuni testi poetici della letteratura islandese del 19° secolo: di che poemi si tratta? Sono legati da un tema comune?
Sì, ce l’hanno: parlano, come dicevo, di elementi naturali, creature che abitano in natura. A volte parliamo anche di musica e di cose malinconiche, non proprio allegre. Non parliamo di politica o cose così, ma di cose in cui la gente si possa identificare: le persone si relazionano a momenti bui o allegri nelle loro vite, abbiamo molte cose di questo tipo. Penso che quando si fa musica non devi capire per forza i testi, puoi sentirli e comprendere che si tratta di qualcosa di malinconico, o di relativo alla natura… Cerchiamo di parlare di cose come la notte, o la luce del giorno, anche di cose comuni che capitano nella vita di tutti i giorni.

Perché non scrivete voi i vostri testi?
Mi sa che all’inizio ci abbiamo provato, ma alla fine non importava davvero a nessuno: continuavamo a cantare “la la la” o “li li li”, finché non siamo incappati in questo libro, capitato in studio, una raccolta di vecchie poesie islandesi. Abbiamo provato a estrarne uno e a cantare i suoi versi e be’, si adattavano perfettamente alla musica: le parole sono scritte così bene e ci sono talmente tanti versi che ci siamo detti “Perché non usarli, invece di scriverli noi?” Non c’è nulla di male nello scrivere le proprie parole, ma visto che ne abbiamo così tante e così belle che abbiamo deciso di riportarle in vita, di dare loro un nuovo contesto e quindi una nuova vita. E come dicevo si adattano perfettamente alla musica, quindi perché non continuare, almeno per ora? Insomma, non abbiamo pensato a scrivere noi i testi, ma potrebbe succedere.

Non si può dire che l’atmosfera del disco sia proprio deprimente, ma di certo è scura: perché?
Non lo so con precisione… Forse perché molte delle canzoni sono state scritte in inverno: d’estate non componiamo, stiamo all’aria aperta. Immagino quindi che il buio e il freddo influenzino la nostra musica. Ma non siamo delle persone negative o che non amano la luce del sole: ci sono anche gli elementi oscuri e penso siano belli e che ci siano proprio perché scriviamo musica nell’oscurità. Credo.

Il cantato in islandese affascina anche chi non lo capisce: ma parlando esclusivamente del suono delle parole, affiancarlo a degli elementi molto contemporanei, come l’elettronica, lo rende ancora più affascinante. So che l’islandese è la lingua madre degli idiomi anglosassoni, una sorta di “latino del nord Europa”: c’è una specie di senso antico in questa lingua che sono curioso di indagare dal tuo punto di vista.
Non so… Penso che il fatto che sia antico e che abbia dei suoni strani… Certe lettere si pronunciano in maniera strana e ti fanno usare la voce come fosse uno strumento. E suona bene. Alcuni musicisti hanno, per così dire, evidenziato l’Islanda sulle mappe e quindi forse possiamo cantare nella nostra lingua perché la gente la conosce, per fare un esempio, più del russo. Con una canzone in russo è più difficile relazionarsi, c’è un alfabeto diverso, non potremmo leggere le parole. Noi abbiamo questi suoni speciali nella nostra lingua che piacciono alla gente e non credo che in Islanda vorrebbero che cantassimo in inglese.

Secondo te esiste, musicalmente parlando, un “fattore islandese”? Penso che molte delle musiche che arrivano dal tuo Paese, per quanto diverse, abbiano qualcosa in comune che però mi risulta difficile esprimere a parole. Ci riesci tu?
Non so se ce la faccio, perché ovviamente sono islandese e faccio parte della scena musicale del Paese, quindi non so se riesco davvero a sentire il fattore in comune tra tutti. Ma siamo talmente pochi che ognuno cerca di trovare il suo proprio suono: c’è Asgeir, per dire, e sarebbe facile diventare un suo emulo. Ma ognuno cerca la propria strada, anche se forse abbiamo tutti questo “suono islandese”, ma magari non riusciamo a sentirlo. Non credo che noi suoniamo come Asgeir o come la Torrini, ma d’altro canto se tutti gli altri che non sono islandesi amano la musica che viene dal mio Paese e riescono a trarne un’immagine e un sentimento proprio, specialmente se la sentono in islandese, creando una loro visione personale dai suoni e dalla musica… Ma come ti dicevo prima per me è difficile, perché vengo dall’Islanda, faccio parte della scena e dell’ambiente musicale dell’isola.

Per me, e torniamo alla prima domanda che ti ho posto, si tratta di contrasti mischiati tra loro. Parlando di grandi nomi, come Björk: ascoltandola io sento qualcosa di dolce e malinconico, allo stesso tempo vicino e lontanissimo e insieme molto caldo e molto freddo.
Sì, è così, in Islanda è tutto insieme… basta pensare al tempo atmosferico. Noi scriviamo principalmente in inverno e quindi il nostro lavoro è influenzato dal tempo e dalla natura, per così dire. Ecco un fattore comune a tutti, che influenza tutti: come ti dicevo, scriviamo e facciamo cose in inverno, perché stare al chiuso è il migliore modo di fare musica.

Siete molto giovani, come persone e come band: riesci a ricordare il preciso momento in cui vi siete resi conto le cose stavano crescendo sempre di più?
Sì, c’è stato un momento preciso. Perché il punto è che è nato tutto per scherzo. Ci siamo detti “Dai, mettiamoci dei costumi e suoniamo magari in qualche bar, eccetera eccetera” Poi abbiamo contattato Doddi, il terzo membro della band, per lavorare ai brani e all’improvviso è scattato qualcosa, è diventata una cosa più seria. Me lo ricorderò sempre: dopo l’edizione dell’Airwaves 2012 dovevamo tornare a scuola. Era stata una settimana folle, ma abbiamo continuato a studiare… Mi ricordo che eravamo in biblioteca che cercavamo di studiare, per quanto fossimo davvero poco concentrati. A un certo punto ci siamo detti: “Dai, controlliamo la mail, magari è arrivato qualcosa”. E abbiamo visto che c’era una mail della Direct che diceva che era interessata alla nostra musica e che voleva sentire una canzone o due. Ricordo di quanto fossimo stanchi e felici. Ci siamo detti: “Ok, sta diventando una cosa seria”.

Nel tuo caso la mia solita domanda sull’isola deserta, considerando da dove vieni, suona strana, ma te la faccio lo stesso: quali sono i dischi che i Samaris si porterebbero dietro?
Direi il nuovo album delle Warpaint, che è uscito non da molto, ma di cui non ricordo il titolo: è molto bello. Poi il primo disco delle First Aid Kit, meraviglioso. E Debut di Björk, splendido. E poi un ep dei Boards of Canada: ha solo tre canzoni. E anche un cofanetto che ho a casa, che contiene le Sinfonie di Mahler. E devo citare anche Arthur Russell, uno che… non ricordo se il primo o il secondo di Arthur Russell. C’è molto violoncello, cose classiche, ma sembra che faccia pop. Davvero non ricordo il titolo, ma penso sia il secondo. Non me lo ricordo! E’ che oggi si ascoltano poco i dischi… Si ascoltano le hit, o cose del genere, su internet: ascolti tre o quattro canzoni di un musicista e magari non sai neanche da che disco provengano.

Quindi non sei una grande ascoltatrice di dischi…
In effetti potrei impegnarmi un po’ di più. Vorrei essere più brava… In fondo ascolto musica tutto il giorno e trovo sempre qualcosa di nuovo su internet, ma di solito vado su YouTube e ascolto una playlist di un musicista che non indica da che disco siano tratti i pezzi, né da che periodo vengono. Stupido, no? Specialmente quando incappi in un disco che è bello dall’inizio alla fine. Ce n’è uno che posso citare ora, perché l’ho sentito ieri sera dal vivo al festival di Umea. È di Ane Brun, una musicista svedese [in realtà norvegese, ma residente in Svezia, ndr] e credo che si chiami come lei. Ecco, quello è un disco che ho amato dall’inizio alla fine.