giardini margherita

Three Days (a Week)

Il fine settimana appena trascorso lo ricorderò finché campo, a prescindere che io ne scriva o meno: ma voglio comunque annotare qualcosa di queste ore passate (ma dai?) all’insegna della mia grande passione per quei quattro ragazzotti inglesi.

Venerdì 25 novembre – George Harrison: Living in the Material World

Il primo appuntamento con il “Beatles-weekend” è alla Cineteca di Bologna per la prima italiana del documentario su George Harrison (di cui oggi ricorre il decennale della scomparsa). I biglietti sono stati comprati da tempo, non si sa mai, anche perché la Sala Mastroianni dove proiettano il film di Scorsese (a cui è intitolata l’altra sala della Cineteca: una buffa coincidenza che avrebbe divertito non poco anche i Fab Four) non è così grande. Ci sono diverse persone pronte a entrare nella sala, compreso… Walter Veltroni. Ohibò. Entriamo per primi con lo scopo di sederci nella fila di poltrone che permette di stendere le gambe, visto che il film dura quasi tre ore e mezzo, ma su ognuna di quelle poltrone c’è il cartello “Riservato”. Riservato a chi? Ma a Veltroni, all’assessore alla cultura Ronchi e a Red Ronnie. E famiglie.

La gente seduta intorno a noi si gira verso la “fila VIP” con sguardo tra il deprecante e il curioso e borbotta battute e lazzi nei confronti dei privilegiati. Si respira una bella aria, tra le poltrone del cinema, c’è attesa. Si spengono le luci e ci immergiamo nel documentario, realmente bello e riuscito. Ci si commuove, si sorride consapevoli per cose già conosciute e ci si emoziona per immagini e aneddoti mai sentiti prima.

Come dico nel post che esce oggi su “Seconda Visione” (ne parleremo stasera in onda), l’esperienza che il documentario di Scorsese offre allo spettatore è incredibile anche perché parallela al percorso che Harrison stesso ha fatto nei suoi confronti. Un percorso spirituale di conoscenza, realizzato attraverso un film.

Un’impresa difficilissima portata a termine con sobrietà, ironia e profondità. Durante la visione, poi, ogni apparizione sullo schermo di McCartney è accompagnata dal pensiero che tra ventiquattro ore saremo nuovamente in mezzo a persone (cento volte tanto) che la pensano come noi e, finalmente, vedremo Paul. Dal vivo.

Sabato 26 novembre – Paul McCartney “On the Run” tour

All’ora di pranzo arrivano da Roma M. e A. Ovviamente sono in città per il concerto: andando a prenderli in stazione già si avverte nell’aria un’eccitazione generale. Sento qualcuno dei Menlove, che mi dice che Paul è al Baglioni, no, è a Giardini Margherita, macché, è in Piazza Maggiore, ma forse è già al Palasport di Casalecchio. Tutto si rivelerà incredibilmente vero, ma lo scopriremo solo quella notte, tornati a casa, leggendo le cronache dell’incredibile giornata.

Alle 17 siano già in fila all’entrata dell’Arena: siamo pressati, già un po’ stanchi, ma con la voglia mostruosa di entrare. Ed eccoci nel parterre. C’è qualcuno vestito come la band in Sgt. Pepper’s, centinaia di magliette dei Beatles, cartelloni, striscioni, sorrisi a trentadue denti. Alle otto e mezzo parte un lungo video di introduzione e la gente già canta le canzoni diffuse dall’impianto e applaude quando un Paul ragazzino, giovane, quarantenne, sessantenne appare sui maxischermi che proiettano l’introduzione al live. Questa è la prima data del tour europeo e ci sentiamo tutti uniti nel privilegio di assistere a un concerto storico già sulla carta, oltre che nell’amore folle, irrazionale e sincero che tutti e tredicimila nutriamo per i Beatles.

Alle nove si spengono le luci e inizia uno dei concerti che ricorderò per sempre. Una scaletta fantastica che inizia con “Magical Mystery Tour” e si conclude con “The End” (didascalico? E chi se ne importa) attraverso trentacinque canzoni per lo più prese dal repertorio del quartetto di Liverpool, ma che ha uno dei momenti più alti nella resa letteralmente pirotecnica di “Live and Let Die”.

Si salta, si canta, ci si commuove (soprattutto su una “Something” durante la quale compaiono solo foto come questa quassù): ogni tanto mi guardo intorno e vedo solo gente che sorride, si bacia, si abbraccia, urla e agita mani e braccia. Una festa totale, come non credo di avere mai visto prima. Paul è in buona forma: la voce si scalda canzone dopo canzone, fino a osare tantissimo per potenza e altezza, considerata l’età del nostro.

Penso che quest’uomo è sul palco ininterrottamente da cinquantaquattro anni, ma mostra un entusiamo puro e contagioso dall’inizio alla fine. Scherza, ride, dice delle frasi in italiano senza nascondere di leggerle. Ci ha in mano. Del resto è Paul McCartney. Lo stordimento per lo spettacolo a cui abbiamo assistito ci entra dentro e non mi ha ancora abbandonato.

Domenica 27 novembre – Band on the Run

Durante il pranzo che precede la partenza di M. e A. quasi non si parla della serata precedente. Che c’è da dire, del resto? Siamo ancora increduli di fronte al concerto che abbiamo visto: non tanto perché non pensavamo che ci saremmo divertiti, ma perché è stata un’esperienza fortissima, difficile da descrivere a parole, come del resto avrete capito leggendo l’esile resoconto di sabato. Sarà la stanchezza o la strana aria che le domeniche portano con loro, ma mi pare di fluttuare lungo la giornata, con leggerezza.

Quando cala la sera decidiamo di vedere il documentario allegato all’edizione speciale di uno dei dischi più belli della carriera solista di McCartney, quel Band on the Run uscito quasi quarant’anni fa. E ogni volta che Paul compare, questa volta sullo storto tubo catodico di casa mia, penso che c’era proprio lui, quel ragazzo che abbraccia la moglie Linda e si muove con disinvoltura tra basso, chitarra, pianoforte e batteria, sul palco la sera prima.

Mano a mano che il documentario si avvicina alla fine, portando con sé il ritorno alla normalità del lunedì mattina, due sentimenti si accavallano: la nostalgia per quello che è stato (tutto: dalla Beatlemania degli anni ’60, mai vissuta, alla faticosa uscita dal parcheggio del Palasport, più che vissuta) insieme alla gioia per avere dentro di sé immagini, suoni e memorie bellissime e indimenticabili. Da questo contrasto emerge solo una cosa: l’amore per la musica che questi quattro incredibili esseri umani hanno creato, insieme e da soli.

Un amore condiviso che abbiamo potuto percepire nell’aria, tutti insieme, in un fine settimana particolare, ma che pulsa ogniqualvolta arrivi all’orecchio di qualcuno una manciata di note di “Day Tripper”, del pezzo che dà il titolo a questo blog, o di qualsiasi altra canzone di Harrison, Lennon, McCartney e Starr. “I Beatles”, si dice, e immediatamente si sorride, perché ci si sente a casa.

Concerto oltranzista

Il concerto dei Fantômas è finito da qualche ora. Eppure ancora mi risuona tutto nelle orecchie. No, non soltanto perché ero vicino alle casse, ma perché, l’ho capito dopo li primi trenta minuti, è stato uno dei concerti che mi porterò dentro per un bel pezzo.
Ma di chi stiamo parlando? Di Mike Patton, che per comodità ricordiamo solo come cantante dei Faith No More, Dave Lombardo, batterista degli Slayer (anzi, batterista, punto, nel senso che riesce a percuotere velocissimamente e a tempo qualsiasi cosa – “gli mancava solo una pecora appesa vicino al gong”, mi ha detto Manu), più King Buzzo, chitarrista dei Melvins e Trevor Dunn, bassista dei Mr Bungle, uno dei tanti progetti di Patton. Sono quattro folli, geniali, come nei più beceri ed abusati accostamenti.
Non ha molto senso che vi parli seriamente della loro musica, visto che io non sono di certo un critico musicale. Si chiacchiera sempre molto di postmoderno, di post-e-basta, di disintegrazione della forma nell’arte (di qualsiasi tipo). Ma qui io mi sono sentito come dentro ad un frullatore in cui erano stati messi pezzi di colone sonore, canzoni italiane, heavy metal, rock alternativo. Ovviamente il tasto on-off veniva azionato a discrezione del signor Patton. Sono rimasto a bocca aperta. I quattro sono stati una macchina perfetta, soprattutto Lombardo (ah, gli Slayer!) e Patton, che ormai usa la sua voce come accidenti gli pare e piace. Semplicemente mostruosi.

Una nota di costume, per fare capire che sono sempre io che scrivo, e che non siete capitati per sbaglio su un serio(so) blog musicale. Patton è stato fidanzato con una ragazza bolognese. Una sua fan, che l’ha conosciuto ad un concerto. Anche Selen è fidanzata con un suo fan, adesso che ci penso. Ma insomma. Fino a qualche anno fa , sul campanello di una casa del centro storico di Bologna a duecento metri da dove vivo io, c’era il doppio cognome: quello della ragazza e Patton. Fantastico. Poi, si sa, anche le storie belle e fiabesche come questa finiscono, ognuno per la sua strada. Anche quando finirà tra Selen e il suo ganzo, ognuno per la sua strada. Tanto più che pare che il tipo faccia il meccanico (sì, aveva in officina i suoi calendari: io quindi al massimo posso fidanzarmi con Snoopy).
Fatto sta che Mike Patton sa l’italiano abbastanza bene. Ad un certo punto del concerto ordina al malefico camion accanto al palco, che vende piadine allo stufato di topo e birre, tutto a prezzi esorbitanti, “una piada con salsiccia”. Nessuna risposta. “Una normale, allora”. Niente. Qualcuno del pubblico gli passa una piada. Lui la addenta, la mastica un po’, poi ne sputa un pezzetto. Sul pubblico. Molto punk, come cosa. Ma la triade Italia-cibo-Patton, si sa, ha precedenti illustri. Quindi il cantante inizia a sproloquiare sulla piadina romagnola, dicendo che è piena di merda. Dopo un po’ compare sul palco un uomo di una certa età, vestito di bianco, con berretto e grembiule . Sì, è proprio lui, il topopiadinaro che, colpito nell’orgoglio romagnolo, decide di offrire una bella piada a Mike, che la addenta nel mezzo di una canzone, facendosela tenere dall’uomo. Il piadinaro, colpito dal segno di pace di Patton, balla impazzito sul palco, i Fantômas stravolgono con genio, estro e maestria la musica degli ultimi cinquant’anni, l’odore di piadina si spande nell’aria, il pubblico gioisce.

Mancava solo Raul Casadei.

[http://youtu.be/t4Dwm0EzgSQ]

How old are you?

Oggi sembra domenica, e l’aria è tiepida. Andando a comprare del vino (in quella che forse diventerà la “notaenoteca”?) ho incrociato due bambini. Due ragazzini. Insomma, avranno avuto dodici-tredici anni. Risalivano la strada di casa mia verso i Giardini. E fumavano una sigaretta, a tiri brevi, cercando quasi di nasconderla.

Avevano gli occhi bassi, probabilmente stavano marinando la scuola, forse era la prima volta che lo facevano. Forse lui un po’ è innamorato di lei e dei suoi capelli lunghi lunghi. Forse lei viene presa in giro perché esce-con-un-maschio.
Avevano gli occhi bassi. Ma sorridevano e camminavano a gran passi, per rifugiarsi nel parco, lontani da occhi indiscreti. L’ho visto, quanto si sentivano grandi. Ho iniziato a pensare a me, a cosa sono e alla mia età e a che cos’ero quando avevo la loro età.

Mi ha svegliato il saluto dell’enotecaro (!) e il peso delle tre bottiglie di Pinot nero che ho comprato.

Di |2003-09-20T12:17:00+02:0020 Settembre 2003|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , |8 Commenti
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