Spirito partyottico

Ne parlo con molto ritardo, è vero, ma mi capirete: ho dovuto digerire quello che ho vissuto.
Nell’ultimo fine settimana di settembre sono stato invitato a Cattolica per un dibattito sulla guerra in Iraq. Ma siccome conosco delle persone che abitano nella ridente località della riviera, sono arrivato il giorno prima dell’incontro, per stare con i miei amici. E sono uscito, sabato sera, con una mia coetanea. Quello che segue è la cronaca fedele di quello che è successo.

Siamo andati in un locale: sedie di paglia, tavolini di paglia, musica di paglia. Un perfetto locale estivo se non fosse stata la fine di settembre, o meglio, l’inizio dell’autunno. Nessuno voleva accorgersi del freddo. Le camomille e i the caldi venivano passati sottobanco, travestiti da cocktail strani ed esotici, guarniti, ovviamente, con decorazioni di paglia.
Poi ci siamo trasferiti in un Irish pub. Io credo che ormai in Italia ci siano più sedicenti Irish pub che pizzerie. Mi immagino uno che vuole aprire un locale, e pensa: “Sono ad un metro dal porto, farò la maggior parte dei soldi da giugno a settembre… Che locale faccio?” In quel momento vede il suo vicino che apre il locale-tutto-di-paglia di cui sopra, e decide, mestamente, di aprire un Irish pub. Ma ci crede, ed ha una lista di birre da fare invidia ad un locale di Dublino. Ma se ne fottono tutti, e ordinano solo delle medie alla spina. Ecco perché i proprietari di Irish pub iniziano, un po’ alla volta, a decorarli con sgabelli afro.
Ma torniamo a noi. In questo pub siamo in tanti, oltre a me e alla mia amica: uno di quelli seduti al mio tavolo tiene in bella vista un palmare. Chiedo che lavoro faccia, per avere un palmare. “Ha una ditta di cancelli elettrici”, dice la mia amica. “Ah”, dico io. E lo guardo mentre illustra le mille funzioni del suo orologio. Per testarlo, manda una mail dall’orologio al palmare, con un mp3 in allegato che viene fatto suonare sullo stereo del locale. Applausi a scena aperta. Immagino che, se ci fosse una giustizia divina, non dovrebbe ricordarsi dove ha messo il telecomando del cancello di casa sua.
“Sono stufa di stare qua”, dice la mia amica. “Uh?” faccio io, poco prima di premere il grilletto. Rimetto la pistola in tasca e ce ne andiamo.
Arriviamo in un altro locale che si affaccia una delle strade principali di Cattolica. C’è un freddo porco, ma ci sono ancora i tavolini fuori e gli avventori che li occupano (tra cui il vostro eroe) sono solo parzialmente salvati dalla presenza dei fungoni riscaldanti. Da dentro il locale un casino assordante. Intorno a me gli uomini e le donne sono tutti uguali, anche di età. Ovviamente statisticamente e biologicamente non è possibile, ma loro ci provano lo stesso. Ho visto una quarantenne che era vestita in maniera molto più sbarazzina della tredicenne che aveva accanto, che, dal suo, era conciata come una vecchia battona. Le accomunava uno sguardo triste. E mi sono reso conto che stavo vedendo la riviera romagnola alla fine di settembre, con le persone che si aggrappavano all’estate con i denti (che battevano dal freddo).
E poi via, verso un posto che si chiama “Foliès”. Nonostante ci abbia passato le tre ore più lunghe della mia vita, ancora non capisco se sia stato in una discoteca a forma di circo o viceversa. Dieci euro di ingresso. Dentro una bolgia infernale. La mia amica si mette a ballare, io non ne ho voglia, e rimango in vista, appoggiato ad un palco su cui c’è il dj e due che ballano (chiamiamole cubiste). Alla mia destra uno sconosciuto che mi inizia a guardare. Io lo guardo, gli faccio un bel cenno neutro a significare “ti ho visto, embè”. Lui si avvicina e mi urla nell’orecchio: “Girati, guarda che belle le cubiste”. Mi giro: una sembra Ken travestito da Barbie. L’altra, effettivamente, è bella, ma si dimena con tale convinzione al ritmo degli Aventura che capisco che non potremo mai avere un futuro insieme. Mi rigiro. L’uomo si riavvicina. E mi dà da bere il primo di una lunghissima serie di Cuba Libre. Gratis. “Sono Pierluigi”, mi fa. “Piacere”, urlo io. Ma lui non mi ascolta, rimane fisso a guardare le cubiste.
Ad un certo punto la musica si ferma e parte l’inno italiano. Una donna vestita con il tricolore inizia a volteggiare nell’aria, sostenuta da cavi d’acciaio, e sventola due bandiere italiane. Pubblico in delirio. Pierluigi mi dà un altro Cuba libre, io manco lo ringrazio, troppo scioccato da quello che ho visto finora. Vasco Rossi remix, tre canzoni una dopo l’altra. Sento distintamente un orgasmo collettivo. E poi partono i latinoamericani. Una ragazza mi viene davanti e si agita un po’ a trenta centimetri da me. Non la guardo neanche, perché non ne ho voglia. Pierluigi mi guarda come se fossi un alieno, e mi dà un altro Cuba Libre. “A te piace solo bere, eh?” Mi ha preso per un alcolista asessuato: meglio che anonimo? Poi un altro, alla mia sinistra, mi fa: “Quella lì…” Ma la musica e alta e non capisco. Urlo di ripetere. “Quella lì ne voleva, eh, di zucca gialla”. Zucca gialla. Parte “Meu amigo Charlie Brown”, mi unisco al trenino e con questo stratagemma guadagno l’uscita. Fuori fa freddo. Inorridisco. Mi è entrata in testa “L’estate sta finendo” dei Righeira e pare che non se ne voglia andare. Rabbrividisco, mi chiudo la giacca sul davanti e me ne vado a casa.