L’uomo che fissava le capre

Dagli archivi: due documentari su Stanley Kubrick

Due documentari non bastano per tracciare anche solo i contorni di una personalità artistica complessa come quella di Stanley Kubrick: crediamo sia interessante, però, giustapporre un prodotto ben confezionato, classico nella forma e nell’esposizione come Stanley Kubrick: a life in pictures, di Jan Harlan, e un piccolo prodotto molto più recente e breve del primo, cioè Stanley Kubrick’s Boxes, di Jon Ronson.

Il documentario firmato da Harlan, assistente e cognato del grande regista americano, è come potete immaginarvelo: uscito nel fatidico 2001, due anni dopo la scomparsa di Kubrick, è narrato da Tom Cruise, ed è diviso in una serie di capitoli ognuno dedicato a un film o a precisi momenti nella vita di Kubrick.

Ci sono testimonianze di familiari e di nomi illustri (da Woody Allen a Matthew Modine, da Malcom McDowell ad Arthur C. Clarke), brani di film, qualche materiale inedito che, per due ore e un quarto, pavimentano la strada tracciata secondo criteri rigidamente bio-filmografici. Del resto, lo si capiva anche dal titolo.

Ciò che rimane, dopo la visione di A life in pictures, solitamente è una duplice voglia: una, tutto sommato accontentabile, che consiste nel rivedere tutti i suoi film. L’altra, vera utopia, di conoscere di più del suo modo di lavorare e pensare, a prescindere da esposizioni da manuale.

Stanley Kubrick’s Boxes, del 2008, ha un elemento comune, oltre al soggetto del documentario, con il titolo appena esaminato: il titolo è veritiero. Infatti Jon Ronson, conduttore radiofonico, giornalista, documentarista e autore – fra gli altri – del libro da cui è stato tratto il film L’uomo che fissava le capre, parla di un migliaio di scatole stipate in diversi spazi della residenza dei Kubrick il cui contenuto, organizzato maniacalmente dallo stesso Stanley, è pressoché sconosciuto.

Non so se mi spiego.

Per cinque anni, quindi, Ronson esamina scatola per scatola, scoprendo, ad esempio, che Kubrick siglava e archiviava ogni lettera che gli fosse arrivata da un fan, fosse essa positiva o negativa nei confronti del suo lavoro, ma anche se da lui giudicata opera di un folle. Non solo: mandava i suoi assistenti a fotografare intere strade londinesi o di altri centri urbani porta per porta, ma mica per trovare le location nelle quali girare, no. Per ricostruire tutto negli studi di Pinewood, dove Kubrick ha realizzato gran parte dei suoi film.

Questi due esempi, però, sono forse fuorvianti: ciò che emerge dal contenuto delle scatole, ma soprattutto dalle interviste fatte ad assistenti e familiari, non è la pazzia presunta del regista, su cui in molti hanno ricamato, ma piuttosto l’enorme amore che Kubrick nutriva nei confronti del suo lavoro. Un amore maniacale, certo, contrassegnato da un senso per la precisione che potrebbe sembrare folle, ma che ha portato a quei film. Un metodo che Kubrick fece sempre più suo: uno degli aneddoti più impressionanti che vengono narrati riguarda il mistero del tempo sempre più lungo intercorso tra un film e l’altro nell’ultima parte della sua carriera.

“Le scatole”, dice Ronson, “svelano il mistero: Kubrick tra un film e l’altro si preparava”. Era un’attività necessaria, anche se talvolta portava a esiti disastrosi, basti pensare che nel tempo in cui Kubrick e il suo staff organizzavano il materiale di preproduzione per un film che toccava il tema dell’Olocausto, Spielberg pensava, preparava, produceva e distribuiva Schindler’s List. E tutto il materiale del progetto Aryan Papers? Ordinato, etichettato e messo da parte. In una scatola.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel novembre 2010

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