manuale di difesa della lingua

Say the Word: manuale di difesa della lingua – 3

Proprio l’altro giorno mi è arrivata un’e-mail di invito per una festa a Milano. A un certo punto del testo c’è scritto: “i posti sono limitati, quindi affrettatevi a rsvppare”.
Sono inorridito.
“Rsvppare”? Ma come, perché? Perché utilizzare questo orrendo neologismo (per chi non ci fosse arrivato, deriva dall’acronimo R.S.V.P., cioè
Répondez, s’il vous plaît)?
L’ignobile espressione è solo l’ultima nata (e spero subito morta) della serie di neologismi che derivano dall’inglese. Si parla di calco linguistico, per distinguerlo dal prestito linguistico, che è il prendere una parola straniera per usarla così com’è nella propria lingua: “film” o “consommé” sono esempi di calco tratti dal linguaggio comune. Essendo legati ad aree semantiche molto legate alla cultura d’appartenenza originaria (quella anglosassone per il cinema e quella francese per la gastronomia), i due esempi che ho riportato hanno senso. Ma che dire dell’odiato (da me e da altri cinque individui, ormai) “step” per definire la fase di un lavoro o di un progetto?
Si potrebbe obiettare che quest’ultimo prestito ha a che fare con il fatto che i termini dell’organizzazione del lavoro sono anch’essi relativi all’inglese: forse è vero. Ma “fase” fa così schifo? Perché usare “step”? Questa è la domanda da porsi, che credo abbia più a che fare con la sociolinguistica che con la linguistica pura.
Ma torniamo ai calchi: sempre in ambito lavorativo ho sentito spesso “briffare”, che deriva dal verbo “to brief”. Il significato, o meglio, uno dei significati di questo verbo inglese è “mettere al corrente”. Pare così brutto dire “aggiornare”? In fondo è una lettera in più: un’argomentazione banale, questa, ma che pare vada per la maggiore tra chi, per esempio, scrive “pò”, invece di “po’”. “Risparmio un carattere”, dicono spesso gli interessati, chiamando in causa le perfide tariffe degli sms imposte dagli operatori telefonici.
Insomma, come diceva una vecchia pubblicità (réclame?) di un corso di lingue: “English is important for your job”, ma non dimentichiamoci dell’italiano.

Say the Word: manuale di difesa della lingua – 2

Una delle prime cose si impara a scuola sono gli articoli. Determinativi e indeterminativi. Si impara ancora a memoria l’elenco di queste paroline?
Chissà. Sono importanti, gli articoli: la loro presenza è una delle caratteristiche più importanti della nostra lingua.

Più in là, a scuola, si imparano gli avverbi, tra cui quelli di tempo. Oggi, domani, ieri. Sono parole che, da sole, fanno da complemento di tempo. Ci sono, invece, espressioni che fanno da complemento di tempo: “l’altro giorno”, “il prossimo anno”, “la prossima settimana”.
Avrete notato che ho scritto “l’altro giorno”, “il prossimo anno”, “la prossima settimana”. Perché è così che si scrivono correttamente queste espressioni, a prescindere dal tipo di complemento di cui svolgono funzione.

E invece sta prendendo piede dire, ad esempio, “prossima settimana”: perché, mi chiedo? Perché c’è acrimonia tra le prime due parole? Gli articoli non amano quindi il prossimo come dovrebbero? O forse la causa è una naturale tendenza all’abbreviazione che spesso investe le lingue? “So’ du’ caratteri”, direbbe qualcuno attento a non sforare sulla quota mensile di sms che gli garantisce il suo piano tariffario. Uno che, probabilmente, scriverebbe “prox sett”: i caratteri risparmiati sono ben nove. O forse tutto deriva da un uso diffuso, la cui origine mi è ignota, che ha la caratteristica (come altri) di diffondersi rapidamente nonostante la sua palese erroneità. Quindi, usiamo gli articoli: sono lì per qualcosa. Inoltre ho sempre paura che se mi venisse risposto “prossima settimana” a una mia domanda per sapere quando fare una determinata cosa, non sarei mica certo di quando farla, questa cosa.

Say the Word: manuale di difesa della lingua – 1

A quasi un anno di distanza, riprendo alcune considerazioni sull’uso sconsiderato della lingua italiana. Nell‘ottobre del 2009 ho parlato di “piuttosto che”, “quant’altro” e “importante”; oggi, invece, affrontiamo un termine che è buttato qua e là a cavolo: “esclusivo”.

Mi si è accapponata la pelle quando, qualche giorno fa, ho sentito alla televisione (ero girato di spalle) Antonella Clerici che magnificava le qualità di un dessert dicendo che il suo aroma alla vaniglia era “esclusivo”. La prima cosa che ho pensato è stata: “Hanno monopolizzato un gusto? La Ferrero e solo lei potrà fare cose alla nocciola, la Nestlè al cioccolato…”. Ma poi ho capito: era un uso decisamente improprio di un termine che deriva dal latino excludere, cioè “chiudere fuori”. Chi chiuderà mai fuori l’aroma alla vaniglia? Quello alla menta, per esempio. O al limone. Ma non divaghiamo.
Tutto, ormai, è esclusivo: non solo un ristorante o un club (che, notate bene, sono luoghi e quindi hanno in sé il senso proprio del termine), ma anche una macchina (soprattutto se ha la chiusura centralizzata, e io ho le chiavi, no?), un colore e, appunto, un aroma. E invece no: escludere vuol dire una cosa ben precisa ed esclusivo è semplicemente un suo derivato. Come “importante”, anche “esclusivo” ormai viene usato come accrescitivo, o come magnificatore di positività. Una sorta di “additivo” che ha perso ogni contenuto per diventare un “più” da appiccicare qua e là, come una marca fasulla su un abito contraffatto.
E difatti mi sa che quella cosa alla vaniglia fa pure schifo.

Di |2010-09-30T08:34:00+02:0030 Settembre 2010|Categorie: The Word|Tag: , , , |4 Commenti
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