vespa

Square Love Parade

Quando i miei amici erano tornati dal concerto dei Flaming Lips al Velvet di Rimini, qualche anno fa, ero convinto che fossero stati vittime di un’allucinazione collettiva. Con occhi spiritati mi avevano raccontato di palloncini colorati, coriandoli, stelle filanti, pupazzi enormi, Teletubbies e tanto, tanto amore. ” E vabbè, avevano l’erba buona”, avevo pensato io, scettico.

Sono andato ieri a Ferrara con più o meno gli stessi amici che erano stati a Rimini, pensando: “Vabbè, l’erba buona ce l’avranno anche stavolta.” Del resto il pomeriggio prometteva bene, in quanto a stranezze.
Prima dei Flaming Lips ci sono stati gli Ok Go, una di quelle band sulle quali ti sforzi di dire due parole in più di “Ma sì, dai”, ma non ce la fai. Tant’è che la parte migliore del loro set è stato un balletto finale che – mi dicono – era quello di un video che ha fatto avere loro i quindici minuti di celebrità.

Poi è stata la volta dei Flaming Lips. Wayne Coyne, il cantante, è comparso dal cielo in una bolla enorme di plastica morbida, e si è rotolato sul pubblico, che lo reggeva con le mani. Poi degli invasori spaziali l’hanno aiutato ad uscire, mentre dieci Babbo Natale lo illuminavano con dei fasci di luce, la platea è stata invasa da enormi palloncini bianchi, coriandoli e stelle filanti, ed è iniziato il concerto con “Race for the prize”. I palloni bianchi sono stati sostituiti da Capitan America, Thor, Batman e Superman con palloni ancora più grandi blu e gialli. Abbiamo urlato “Fanatical – Fuck!” decine e decine di volte. Abbiamo detto “yeah-yeah-yeah-yeah” all’amore e “no-no-no-no” all’odio. Abbiamo cantato la reprise di “Yoshimi” con una suora. E infine abbiamo inneggiato all’amore eterno insieme ai Teletubbies. Ma c’è stata la sorpresa finale: una cover di “War Pigs” dei Black Sabbath, con la quale i Flaming Lips hanno chiuso il loro concerto, uno dei più belli che abbia mai visto nella mia vita. E ce ne siamo tornati a Bologna in Vespa, come da tradizione, pieni di sorrisi e amore.

Ho letto un post sul concerto dei Flaming Lips a Ferrara. Mah, non ci credo molto a quello che il tipo ha raccontato. Secondo me si è strafatto, e ha immaginato tutto, altro che. Però, per sicurezza, la prossima volta ci vado anche io.

Kraftwerk Kino

Non so voi, ma quando io vado a vedere un concerto e scopro che ci sono i posti a sedere, ci rimango sempre male, di primo acchito. Certo, non mi aspetto di andare a vedere un concerto di musica classica e fare headbanging o ballare sotto il palco, ma ci siamo capiti. Quando ho saputo che il concerto dei Kraftwerk a Ferrara aveva i posti a sedere, quindi, non ero molto contento. Ma avevo comunque una gioia, quella di andare in Vespa a Ferrara, come avevo già fatto per gli Air. Quando ci sono gli anni ’70 di mezzo, non c’è nulla che trattenga me e P. da inforcare la sua Vespa e scorrazzare per la bassa.
Dopo una sosta-piadina a Minerbio, quindi, arriviamo in piazza Castello e ci mettiamo a sedere. Davanti a noi, dei fan sfegatati del gruppo tedesco, che non fanno altro che abbracciarsi a vicenda e dirsi “Ma ti rendi conto?” Considerando il loro entusiasmo e che, ad occhio, hanno la mia età, penso che debbano avere sentito i dischi dei Kraftwerk in età infantile, pre-infantile, fetale, o, visto il comune pensare, embrionale.
Quando il sipario (sì, il sipario) si apre sul palco, attaccano con “The Man Machine”: sembrano immobili, con ai lati Hutter e Schneider e in mezzo gli altri due. Hanno davanti una tastiera con sopra un computer che paiono sospesi nell’aria. Dietro, una cosa del genere. Sono musica, e pare che la loro presenza sia quasi superflua. Il pubblico rimane ipnotizzato e ascolta in silenzio. I pezzi si succedono, uno dopo l’altro, praticamente senza pause. Dietro, sugli schermi, vediamo biciclette per “Tour de France”, autostrade per “Autobahn”, con giochi di luce perfetti. I quattro non si muovono e non dicono nulla, niente.  Il risultato è estramamente coerente, e non capisco più se si tratti di un’estetizzazione della loro musica, o di una colonna sonora per i loro concetti visuali, a partire dalle loro copertine e, volendo, andando ancora più indietro nel tempo, fino agli evidenti riferimenti ai motivi grafici dell’avanguardia russa, ma anche dell’estetica totalitarista nazifascista. I testi svuotano ancora di più i brani, fino a ridurli a pura forma, ma il miracolo avviene nel momento in cui questa forma si fa leggera, ingenua e, allo stesso tempo, concreta. “Kalium Kalzium Eisen Magnesium Mineral Biotin Zink Selen L-Carnitin Adrenalin Endorphin Elektrolyt Co-Enzym Carbo-Hydrat Protein A-B-C-D Vitamin”, con dietro piogge di pillole: non è didascalismo (sarebbe evidente e banale), ma un’esperienza audiovisiva elementare ed elementale, perfettamente coerente e coinvolgente.
Il messaggio esiste, però, e viene messo in evidenza in “Radioactivity”, cupa e martellante, con un’intro da manifesto politico vero e proprio. E allora ti ricordi che i Kraftwerk vengono dalla Germania degli anni ’70, quella dei movimenti radicali ecologisti, della Rote Brigade, oltre che dal conservatorio di Düsseldorf. E c’è un pensiero articolato, dietro a tutto questo: l’annullamento, volontario, coatto e/o alienante, dell’essere umano. Pensiero che viene espresso, nello spettacolo, da “The Robots”. Sono dei manichini meccanici quelli che “suonano” la canzone al posto del gruppo, e si muovono molto di più degli umani, davanti a tastiere e computer. E quindi si può pensare che, in fondo, nessuno stesse suonando le canzoni precedenti, o, addirittura, che non ci fossero i Kraftwerk sul palco, ma macchine per suonare macchine, che è esattamente quello che ci si aspetta. In “The Robots” viene solo resa esplicita questa possibilità, viene mostrata con la stessa immediatezza e banalità con cui hanno usato un calcolatore per “Pocket Calculator”, con la stessa logica con cui si costruisce una progressione musicale  o si progetta un’autostrada.
Penso, per un attimo, a cosa potrebbe pensare il solito alieno venuto sulla Terra, vedendo una schiera di umani immobili e seduti che guardano delle luci un uno schermo e ascoltano suoni elettronici, con quattro umani altrettanto immobili davanti, che si confondono con le luci e i motivi alle loro spalle. E penso che, comunque, dev’essere un bello spettacolo. Rovinato dal fatto che siamo schifosamente italiani e che, quindi, ad un certo punto qualcuno inizia ad abbandonare il proprio posto, facendo partire una reazione a catena che si conclude con decine di persone in piedi sulle sedie. E in quel momento, visto che la magia era rotta, avrei proprio voluto che una voce diffondesse questo in Piazza Castello.

Time Safari

Katzenberger prima dell'alopecia

P. mi ha detto “Andiamo a Ferrara in Vespa” con lo stesso entusiasmo adolescenziale con cui, due anni fa, abbiamo deciso, così su due piedi, di andare a Berlino. Berlino significava anche il periodo berlinese di Bowie, nonché mostre ed installazioni di Wilhelm Katzenberger ovunque, tra cui come non ricordare lo “Studio per una parallasse in blu”.
Ferrara voleva dire solo una cosa: il concerto degli Air, uno dei gruppi più splendidamente e meravigliosamente inutili della storia della musica. E così abbiamo tradito i Telefon Tel Aviv e la Macchia per l’amore sconfinato per i suoni vintage uniti alla spocchia transalpina.
Insomma, alle sei di pomeriggio siamo partiti. E ci siamo sentiti giovani e belli e liberi sulla porrettana. A metà strada P. mi ha detto: “Ma com’è che ci superano tutti?” Non ho risposto, per non rompere la magia del viaggio. Mi sono guardato intorno: campi e frutteti a vista d’occhio, strade che si snodano lungo la pianura. Sembrava di stare in America, se non ci fossero stati dei cartelli pubblicitari di un salumificio che raffiguravano un maiale alla guida di un carro che frusta le salsicce che lo trainano. Veramente, esistono.

Su Rokia Traore che ha aperto il concerto, non faccio commenti. La musica etnica proprio non mi piace. Anche se ho visto cose bellissime, come un ragazzone che ballava ritmi afro indossando una maglietta dei Metallica. Ah, siamo veramente senza confini e pregiudizi, noi giovani.

Durante il cambio do un’occhiata alla strumentazione degli Air. Continuo a perdere il conto delle tastiere che ci sono, e mi arrendo.
Finalmente i due salgono sul palco. Sono vestiti uguali, pettinati uguali, non salutano e iniziano a cantare “Io potrei venire da Marte, tu potresti venire da Venere, potremmo stare insieme e amarci per sempre.”
Li osservo. Hanno un’età indefinibile, intorno alla trentina, ma non riesco ad immaginarli giovani, che provano in un garage. Sembra che siano nati con quei vestiti, quei capelli e quelle facce. E che abbiano da sempre avuto quegli strumenti sotto mano. Dopo la prima canzone, mi accorgo che i miei jeans sono diventati a zampa di elefante. Penso sia l’effetto della canna e sollevo di nuovo lo sguardo verso il palco.
E dopo il secondo pezzo, avviene il miracolo. Gli Air salutano, abbozzano qualcosa in italiano, sorridono, ringraziano. Il pubblico è in delirio totale. Intorno a noi solo voci che dicono “Ma allora non sono stronzi!” e giù applausi e urla. Se lo scopo degli Air è quello di suonare bene, il nostro, ormai si è capito, è quello di farli sorridere.

La prima canzone tratta da “Moon Safari” è “Talisman”. Quando inizia, P. si gira verso di me e afferma: “Questa canzone mi farà passare le doppie punte.” Poi aggiunge: “Fra, ti stanno bene quelle basette. Da quando le hai?” Io mi tocco la faccia e noto il cambiamento, ma gli Air mi travolgono con una doppietta meravigliosa: “High School Lover” e “Le Soleil est près de Moi”.
Quello che aspetto, in realtà, è “Kelly Watch the Stars”, che puntualmente arriva e viene suonata in maniera tiratissima. Pubblico impazzito, gli Air sorridono, pubblico – quindi – in delirio, gli Air ringraziano per ben due volte, sorridendo, il pubblico orgasma, gli Air se ne vanno.
Come, se ne vanno?
Cinquanta minuti di concerto e se ne vanno?
Eccola là, la spocchia maledetta. Il pubblico pagante, ovviamente, si incazza e inizia a battere le mani e a fischiare. Una parte del pubblico, invece, continua a cantare una canzone da stadio in francese, come ha fatto durante ogni pausa tra una canzone e l’altra.

Ma no, tutto calcolato. Gli Air tornano sul palco, ovviamente. Altri due pezzi, concludendo con “Sexy Boy”. Un’altra canzone da Moon Safari, pubblico impazzito, solito circolo virtuoso di “grazie”, sorrisi, applausi. Vicino a me uno mi guarda e dice “C’è una bellissima atmosfera di pace, fratello, vieni ad un collettivo?”, e mi passa un volantino ciclostilato. Me lo metto in tasca.
Gli Air se ne vanno, salutano, ringraziano, il pubblico dice “De rien”, la curva sud di piazza Castello continua imperterrita a cantare la canzoncina da stadio. Qualcuno se ne va, ma si sentono delle voci dietro di noi che con tono esperto affermano che non si sono riaccese le luci, quindi torneranno.

E infatti per la terza volta gli Air salgono sul palco, e concludono il secondo bis con una versione torrenziale de “La femme d’argent”, canzone alla quale sono particolarmente legato. Stavolta il protagonista assoluto è il batterista. Stare dietro ai due francesi, tutti lounge e tempi morbidi, può non essere appagante. Quindi, alla fine dell’ultima canzone, l’omone dietro le pelli sclera e, tenendo il tempo, fa un assolo lunghissimo di batteria, in cui sembra che, alla fine, debba esplodere tutto. Guardo P. e noto che gli sono cresciuti i capelli e i baffi. Io, d’improvviso, indosso una camicia con un colletto enorme.
“Molte grazie”, dicono gli Air alla fine e, stavolta, se ne vanno veramente.
“Grande, grandissimo concerto. E chi se li aspettava così? Sorridevano!” ci diciamo io e Paolo tornando verso la Vespa e mangiando un ghiacciolo all’amarena.

Dopo un’ora eravamo a Bologna. Ci siamo tolti il casco e abbiamo visto che basette, capelli e baffi erano come al solito. Anche i miei jeans avevano perso la scampanatura.

Ho vissuto negli anni settanta per i primi due anni della mia vita, e poi stanotte, per tre ore. Ed è stato bellissimo.

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