Dagli archivi: Woods – With Light and With Love
Woods – With Light and Love (Woodsist), 15 aprile 2014
7,5
Tre dischi:
Grateful Dead – Anthem of the Sun (Warner Bros, 1968)
Jefferson Airplane – Crown of Creation (RCA, 1968)
The Kinks – Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One (Py, 1970)
Jeremy Earl torna sulle scene riprendendo il filo del precedente Bend Beyond, pubblicato sempre dalla sua Woodsist. Se dovessimo tenere fede al testo della title-track di due anni fa, quell’album avrebbe potuto intitolarsi “Bend Beyond the Light”: la luce è un elemento fondamentale nell’immaginario dei Woods, torna in titoli e testi, e anche le canzoni sparse in una discografia lunga ormai quasi un decennio la richiamano spesso.
Ma per capire dove questo valido With Light and With Love si allontana da Bend Beyond, ripeschiamo il disco pubblicato nel 2011, quel Sun and Shade dove facevano capolino beat quasi kraut e colori lontani dalla luminosità (appunto) pur strampalata e freak tipica della band. “Out of the Eye” e “Sol Y Sombra” (la title-track) espandevano durate e possibilità della peculiare forma di folk-psych-pop dei Woods per trovare altre strade, che parevano richiamare Can, Harmonia e altre splendide musiche teutoniche del passato.
In With Light and With Love la title-track è di nuovo la canzone più lunga del disco e si estende proprio sui suoni che lo caratterizzano: chitarre acide, organo hammond, leslie ovunque. Aggiungete delle percussioni spesso più massicce del solito (ma lontane da ogni parvenza motorik), un pianoforte e una sega musicale ed ecco gli ingredienti dell’album. I richiami sono, certo, alla psichedelia statunitense, ma lo sguardo di Earl si rivolge anche al Regno Unito. “Shining” ha qualcosa dei Kinks e qualche fraseggio di chitarra non sarebbe dispiaciuto all’Harrison di una quarantina di anni fa.
Ciononostante i Woods non suonano (troppo) derivativi: sporcano ogni tanto i fasci di luce che con grazia appoggiano sull’ascoltatore attraverso nastri, rumori e riverberi, ma non spaventano, almeno fino alla conclusione del disco. “Feather Man”, infatti, getta un’ombra (non si esce dal giochino) sulla luce e l’amore profusi: l’ultimo mezzo minuto di disco è affidato a delle campane e a una voce rallentata. Una nuova strada si profila all’orizzonte?
Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio